Che fine ha fatto la Primavera araba?

Marco d’Eramo
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Quindici mesi fa il manifesto organizzava un convegno sulle Primavere arabe intitolato «La speranza scende in piazza». Ora ci si può chiedere dove sono finite quella speranza e quella piazza. Già allora interventi e testimonianze erano cauti, ma certo nessuno poteva prevedere la portata dell’involuzione integralista. Oggi i Fratelli musulmani governano in Egitto, loro omologhi guidano la Tunisia, mentre gli integralisti finanziati e armati dal Qatar e dall’Arabia saudita controllano la Libia e si preparano a conquistare la Siria.
Senza contare derive che sembrano marginali (anche se non lo sono) come l’insurrezione islamista in Mali. Dove regnavano dittature, ora vigono tendenziali teocrazie.

Ma è davvero un’involuzione? Il saggista inglese Robin Blackburn, già direttore della New Left Review, sostiene da tempo due tesi. Una riguarda la prima rivoluzione democratica in Europa, quella inglese (1642-1651) di Oliver Cromwell e dei suoi puritani. Fu in nome del fondamentalismo cristiano che per la prima volta nella storia un movimento popolare ebbe la forza di tagliare la testa (nel 1648) a un re (Carlo I Stuart). C’è di più: i padri fondatori della democrazia statunitense furono i pellegrini del Mayflower (1620), altri fondamentalisti puritani che fuggivano le persecuzioni religiose.

È quindi per lo meno parziale l’immagine laica della democrazia quale è stata elaborata in occidente: quest’immagine si applica forse alla versione francese del 1789 (anche se persino a Parigi i rivoluzionari sentirono che non potevano abbattere l’ancien régime senza una nuova religione, quella della “Dea Ragione”). Come se una rivoluzione strutturale, un ribaltamento sociale radicale, avesse per forza bisogno di una dimensione escatologica, di una motivazione millenarista.

Ma se anche in Europa rivoluzioni democratiche sono nate come sommovimenti fondamentalisti religiosi, in realtà tra capitalismo e fondamentalismo religioso c’è un legame ancor più ambivalente: è quello tanto esplorato da Max Weber (Etica protestante e spirito del capitalismo) in poi. Ambivalente, perché se da un lato l’etica calvinista trapela da ogni poro del capitalismo moderno, dall’altro la mercificazione di ogni aspetto della vita contiene in sé una dirompente carica dissacratoria (ammirata da Marx).

Da qui la duplicità dell’Occidente (se questa categoria ha un senso) nei confronti degli integralismi. Persino per la laicissima Francia gli studiosi del colonialismo parlano di «paradosso francese»: i francesi difendono a spada tratta la laicità del proprio stato, ma nelle loro colonie hanno sempre favorito la religiosità e avvantaggiato gli esponenti clericali. Sulla stessa lunghezza d’onda, il multiculturalsmo inglese si è in realtà rivelato, sostiene Amartya Sen, un «multifondamentalismo» perché ha privilegiato come interlocutori gli esponenti religiosi delle minoranze. Senza dimenticare che negli ultimi 30 anni gli Stati uniti sono stati governati per lo più da fondamentalisti cristiani, dalla Moral Majority di Ronald Reagan ai Christian Conservatives di George Bush jr.

In un’accezione più mondana, gli Stati uniti e le potenze occidentali sempre hanno privilegiato ovunque nel mondo i rapporti con i religiosi e gli integralisti rispetto ai partiti laici o di sinistra. All’inizio fu Israele a finanziare Hamas per minare un’organizzazione allora “laica” come l’Olp. In Pakistan il generale Zia Ul Haq fu preferito al laico Ali Bhutto. In India negli anni ’90 il Bharatya Janatha Party (integralista hindu) fu giocato contro il laico Congress-I della famiglia Nehru. La stessa preferenza per l’integralismo si è manifestata nei Balcani negli anni ’90 e si dispiega oggi in tutta la sua potenza in Medio Oriente. Chi altri ha finanziato in Libia e in Siria il laicissimo Occidente se non i vari salafti, wahabiti, Fratelli Musulmani e altre genie del confessionalismo islamico? Che altro fa se non fomentare e aizzare quello «scontro di civiltà» che dice di aborrire?

Da cui la seconda tesi di Robin Blackburn: ai popoli musulmani non è stata lasciata nessuna chance si sviluppare una democrazia laica; quando ci hanno provato, sono stati mazzolati, come avvenne al borghese (nazionalista) iraniano Mossadeq nel 1953.

L’unica laicità che gli occidentali hanno mai consentito è stata quella delle dittature, militari o non: in Turchia (i generali epigoni di Atatürk), in Egitto (i militari Nasser, Sadat e Mubarak), in Siria (il generale Hafiz al Assad e suo figlio Bashir), in Iraq (il generale ad honorem Saddam Hussein), in Tunisia (Ben Ali, capo dei servizi segreti militari prima di diventare presidente), in Algeria (i generali Houari Boumedienne e Chadli Bendjedid, anche lui ex capo dei servizi di sicurezza militari), e in Libia (il colonnello Muhammar Gheddafi).

È comprensibile come i turchi abbiano avuto abbastanza della laicità tirannica e carceraria dei loro generali e si siano consegnati a un partito islamico. Anche perché tutti questi regimi erano spietati nei rapporti sociali, e l’unica forma di assistenza veniva delle associazioni benefiche islamiche che fornivano – modello Caritas – una rete di protezione alla disperazione dilagante.

È così meno misterioso perché egiziani e tunisini abbiano votato islamico. Il problema è sapere se il presidente Mohamed Morsi (ex leader dei Fratelli musulmani) sarà il Cromwell egiziano oppure un Khomeiny versione araba e sunnita. Se i nuovi regimi confessionali riusciranno a riequilibrare le scandalose sperequazioni economiche e sociali o se invece riannoderanno l’antica alleanza tra clero e feudalesimo; insomma se proietteranno il Medio oriente in una post-modernità islamica o se soppianteranno un corrotto sottosviluppo occidentaleggiante con un bigotto sottosviluppo coranico.