Come uscire dalla crisi (e dal declino)

Marco Panara
Affari & Finanza di Repubblica, 20 settembre

Dopo aver campato su debito pubblico e svalutazioni per vent’anni e aver galleggiato sui tassi bassi per altri dieci ora siamo arrivati all’osso. O troviamo il modo di aumentare la produttività o si ridurranno i salari. I singoli salari, tagliandone un pezzo a ciascuno, oppure il monte salari attraverso i licenziamenti. Quelli fatti fino ad ora non bastano. A imprese e sindacati, con il ministro allo Sviluppo Corrado Passera a gestire il tavolo, Monti ha dato un mese di tempo per trovare una soluzione a un problema che sta lì da molti anni prima che arrivasse la crisi.

La questione è seria, perché se ci sono molti modi nei quali una collettività si può impoverire, ce n’è uno solo attraverso il quale può arricchirsi: aumentare la produttività. In Italia non aumenta da molto tempo e infatti l’economia da altrettanto tempo è ferma e il reddito dei cittadini non cresce. I numeri non perdonano, negli ultimi dieci anni la produttività per ora lavorata in Italia è cresciuta complessivamente dell’1,4%, nella Ue dell’11,4, in Germania del 13,6, e c’è un collegamento diretto e inequivoco tra produttività e aumento del prodotto lordo pro capite, ovvero la misura del benessere economico di una collettività: quello italiano dieci anni fa era sopra la media Ue ora è più basso nonché più basso di quello che avevamo nel 2000.

Il motivo per il quale siamo arrivati a questa drammatica alternativa tra produttività e salari si chiama Clup, costo del lavoro per unità di prodotto. Rispetto alla Germania dal 2000 ad oggi questo famoso Clup è aumentato del 35%, il che vuol dire che i nostri prodotti hanno perso un terzo della loro competitività in termini di costo. A far aumentare il Clup possono essere due fattori, il costo del lavoro oppure il prodotto che da quel lavoro esce fuori. Poiché in Italia il costo del lavoro in questi anni è cresciuto solo marginalmente, quello che non ha funzionato è la seconda parte dell’equazione: il prodotto. Fatto 100 il costo del lavoro impiegato, nel 2011 abbiamo tirato fuori un prodotto il cui valore è del 35% inferiore a quello che con lo stesso costo del lavoro riesce realizzare la Germania.

A questo punto, se non si fa qualcosa per invertire la dinamica della produttività, l’impoverimento progressivo del paese è una strada segnata. Perché l’alternativa, ovvero la inevitabile riduzione della remunerazione del lavoro, vuol dire esattamente questo: impoverirsi.
Nel lungo termine peraltro non è quella la ricetta giusta. Per capirlo basta guardare la classifica della competitività del World Economic Forum. Il paese più competitivo è la Svizzera, dove il costo del lavoro è del 50% superiore a quello italiano, tra i primi dieci (l’Italia è quarantaduesima) sei paesi hanno il costo del lavoro più alto e uno, il Regno Unito, comparabile. La chiave quindi non è ridurre il costo del lavoro, se non temporaneamente, ma aumentare il prodotto in quantità o in valore.

Come? E’ questo il punto. Per affrontare il quale è meglio capire prima quali sono le ragioni per le quali la produttività in Italia non cresce. Ce ne sono di due ordini, il primo è quello che accade dentro l’impresa e il secondo (non in ordine di importanza) è quello che c’è fuori, ovvero il famigerato contesto. Cominciamo dal primo. Dentro l’impresa ci sono la proprietà, la gestione, gli investimenti, l’organizzazione del lavoro. La proprietà è nell’85% dei casi familiare, poco meno della Germania e poco più della Francia e della Spagna, in linea quindi con il resto dell’Europa, la differenza è nella gestione: in Francia e Germania meno del 30% delle imprese familiari hanno manager di famiglia, in Italia oltre il 66%, il che spesso vuol dire che non si è scelta la opzione migliore ma si è privilegiato quello si aveva in casa con il rischio di una gestione non ottimale delle risorse.

Il secondo punto caldo sono gli investimenti, che fino al 2007 non sono stati troppo inferiori alla media degli altri paesi comparabili, ma che non è chiaro dove siano andati: quelli in macchinari sono crollati, come dimostrano il fatto che tra il 2000 e il 2010 la quota degli ammortamenti sul fatturato è scesa dal 6,5 al 3,8% e che nello stesso arco di tempo la vita media dei macchinari è balzata da 10 a oltre 16 anni. E sono stati bassissimi, sotto la media europea e la media Ocse, quelli in asset intangibili, ovvero brevetti, ricerca e sviluppo, formazione. «La crescita della produttività del lavoro modesta – è scritto in L’innovazione come chiave per rendere l’Italia più competitiva, un documento pubblicato dall’Aspen lo scorso marzo – è dipesa essenzialmente da un livello molto basso in investimenti in capitale e capitale umano, accompagnati da investimenti minimi in “ intangible assets. Tutto ciò ha determinato una crescita negativa della produttività totale dei fattori».

Sulla stessa linea è l’occasional paper della Banca d’Italia di aprile 2012 dal titolo Il gap innovativo del sistema produttivo italiano. Infine, dentro l’azienda, c’è l’organizzazione del lavoro, che dove non sono arrivati accordi sindacali innovativi (che in molte aziende e settori ci sono stati) è rimasta troppo rigida dentro la fabbrica e dentro l’impresa. E c’è un altro elemento importante: come ormai dimostrato da molte analisi, il largo ricorso al lavoro precario diminuisce la produttività ed ha anche l’effetto collaterale che il lavoro superflessibile in uscita e a basso costo disincentiva gli investimenti. Il che ci fornisce la fotografia di quello che accaduto in Italia fino al 2007, occupazione in salita, pochi investimenti, produttività declinante.

In mezzo tra quello succede nell’impresa e quello che c’è fuori c’è la dimensione dell’impresa e il suo rapporto con il mercato. E qui, anche qui, sono dolori, i dolori di sempre. Dei 4,4 milioni di imprese che ci sono in Italia il 94,8% hanno meno di 10 addetti, mentre quelle grandi (con oltre 250 addetti) sono solo 3.502. Niente di male in assoluto, se non fosse che il valore aggiunto per addetto delle microimprese, pari a circa 25 mila euro l’anno, è pari a metà di quello delle medie imprese e due volte e mezzo più basso di quelle grandi (60 mila euro). Il che vuol dire che avere una quota così rilevante di piccolissime imprese abbassa la produttività media e, in un mondo globalizzato e senza più svalutazioni, è come una zavorra sulla crescita della competitività.

Si potrebbe dire che la struttura dell’economia italiana era così anche prima, quando la produttività cresceva. Ma prima non c’era l’euro, quindi erano possibili le svalutazioni, non c’era la globalizzazione, e quindi la concorrenza era minore anche sul mercato domestico, e prima gli imprenditori – moltissimi dei quali sono di prima generazione – avevano molti anni di meno e un patrimonio culturale e di esperienze in linea con le tecnologie e il quadro competitivo del momento. Oggi gli anni sono di più e il rapporto con l’evoluzione tecnologica e dei mercati assai più complesso. E qui arriviamo al contesto, perché la colpa non è solo né prevalentemente degli imprenditori se il tessuto produttivo italiano non s’è evoluto con i tempi. La lista dei disincentivi a crescere, a managerializzare, a investire è sterminata ed anche qui è la solita, da una tassazione che punisce l’impresa e il lavoro a una giustizia civile che non garantisce l’osservanza dei contratti, da una formazione inadeguata, soprattutto tecnica, a mercati troppo protetti, da una pubblica amministrazione costosa e inutilmente complessa a una normativa inutilmente farraginosa a infrastrutture insufficienti.

Oltre all’imprenditore però ci sono i lavoratori e chi li rappresenta, il sindacato, che come molti imprenditori, la politica e la pubblica amministrazione s’è fermato agli anni ’90, non ha colto il cambiamento, non ha cavalcato le potenzialità della nuova epoca per creare un ambiente più favorevole al lavoro spesso (non sempre) privilegiando la conservazione all’evoluzione. Ora però siamo tutti nudi, di fronte alla prospettiva dell’impoverimento nessuno può più permettersi di stare fermo. Il governo ha fatto molto per muovere il contesto, ma per il momento sono leggi in attesa di implementazione, senza la quale restano solo buoni propositi e, soprattutto, quello che è stato possibile fare in un anno non può trasformare un paese ancora pienamente immerso in un secolo che è ormai finito già da oltre un decennio. Imprese e sindacati si devono invece occupare di quello che avviene dentro l’azienda, che è una componente importante della partita. Con un problema al quale bisogna trovare soluzione: il grosso delle aziende italiane, quelle dove è più acuto il problema della produttività sono le piccolissime, ma lì il sindacato e la contrattazione aziendale non arrivano. Per loro gli accordi che Confindustria e sindacato eventualmente raggiungeranno saranno lettera morta, bisognerà immaginare qualcos’altro e in fretta.

Infine le conseguenze. Aumentare la produttività è necessario, pena l’impoverimento, ma non è facile né indolore. Perché, in condizioni date, aumentare la produttività vuol dire fare le stesse cose di prima ma con meno lavoratori, ovvero ulteriore disoccupazione. Questo è quello che gli economisti definiscono un aumento della produttività difensivo. Per la crescita dell’economia e dell’occupazione è necessario qualcosa di più, non basta neanche fare più cose con le stesse persone (e trovare un mercato per il maggior prodotto). Per creare lavoro si deve produrre molto di più o cose di maggior valore impiegando molte più persone, ma questo richiede la capacità di spostarsi verso settori più avanzati, di creare prodotti nuovi e vincenti, di creare e conquistare nuovi mercati. Non ci si arriva dall’oggi al domani. E’ la strada che molte aziende esportatrici (quelle che producono il valore aggiunto più alto indipendentemente dalla dimensione) hanno già percorso, ma non sono abbastanza. E’ il sistema Italia che deve fare questo salto. Un mese non basterà per cominciare e neanche per mettere a punto la ricetta. Ci aspettiamo almeno un segnale.