I droni perdono quota?

Michele Paris
www.altrenotizie.org

Secondo quanto sostenuto pubblicamente dal governo americano, gli aerei senza pilota (droni), utilizzati per assassinare presunti terroristi in territorio pakistano e altrove, rappresentano uno strumento di alta precisione che consente di ridurre al minino i danni collaterali e le conseguenze di un qualsiasi conflitto armato convenzionale sulla popolazione civile. Mentre cominciano ad emergere dubbi all’interno dell’amministrazione Obama circa la legalità dell’uso dei droni all’estero, a contraddire ancora una volta questa versione ufficiale è un recente studio condotto dalle università americane di Stanford e di New York, i cui ricercatori hanno messo in luce l’impatto devastante che simili operazioni belliche hanno sui civili in Pakistan.

La ricerca – intitolata “Living Under Drones” – è stata realizzata nell’arco di nove mesi e si basa, tra l’altro, su interviste raccolte in Pakistan con vittime e testimoni diretti dei bombardamenti operati con i droni statunitensi. Secondo quanto affermato nell’introduzione, il rapporto “presenta prove degli effetti dannosi e controproducenti dell’attuale politica degli Stati Uniti in materia di droni”, nonché “dell’impatto negativo sui civili” che vivono sotto la minaccia di queste incursioni.

Mentre le autorità americane continuano ad affermare pubblicamente che le operazioni con i droni causano un numero limitato di vittime civili, la realtà appare ben diversa. Sia pure in assenza di dati precisi, Stanford e New York University fanno riferimento a quelli raccolti dall’organizzazione indipendente britannica Bureau of Investigative Journalism, secondo la quale, con ogni probabilità sottostimando il reale impatto dei bombardamenti, tra giugno 2004 e metà settembre 2012 le vittime civili dei droni in Pakistan sono state tra 474 e 881, di cui almeno 176 bambini. La recente ricerca americana ha invece raccolto prove di un singolo attacco, avvenuto nel marzo 2011, che ha colpito i partecipanti ad un meeting tra leader tribali nel Waziristan del Nord, uccidendo in un solo colpo circa 40 persone.

Oltre al numero delle vittime, “Living Under Drones” mette in rilievo anche gli effetti della campagna dei droni americana sulla vita di tutti i giorni dei pakistani che vivono nel nord-est del paese. La presenza dei droni nei cieli 24 ore su 24 “terrorizza uomini, donne e bambini, causando ansia e traumi psicologici nelle loro comunità”, dal momento che chiunque potrebbe essere il bersaglio della prossima incursione.

Ciò comporta cambiamenti nella vita sociale di queste regioni dove, ad esempio, i bambini spesso non vengono più mandati a scuola perché troppo spaventati per uscire di casa o per timore che possano essere colpiti da un drone, mentre le tradizionali riunioni tribali per dirimere le contese tra le varie comunità sono state drasticamente limitate. Particolarmente temuti e cruenti sono poi i bombardamenti che di frequente seguono una prima incursione e che prendono di mira le persone che si recano sul luogo colpito per prestare soccorso alle vittime.

A parte i danni descritti, sostengono i ricercatori, l’efficacia dei droni appare quanto meno discutibile, dal momento che i terroristi di alto profilo uccisi in questo modo rappresentano appena il 2% del totale di quelli assassinati, mentre la maggior parte risultano essere operativi di medio o basso livello. Inoltre, le incursioni alimentano l’odio della popolazione verso gli Stati Uniti, trasformando la campagna dei droni in uno strumento di reclutamento da parte dei gruppi estremisti che si vorrebbero combattere. Vista l’impopolarità dei droni, infine, essi costituiscono una delle principali cause del deterioramento delle relazioni tra Washington e Islamabad.

La questione cruciale che emerge dalla ricerca delle due università americane riguarda poi le dubbie fondamenta legali sulle quali si basa l’impiego dei droni in Pakistan. Le incursioni aeree vengono condotte infatti senza alcuna trasparenza, visto che la lista dei bersagli viene stilata senza che l’amministrazione Obama passi attraverso un procedimento giudiziario legittimo, così che i sospettati di terrorismo uccisi risultano spesso non essere direttamente coinvolti nei fatti dell’11 settembre 2001.

Nonostante le durissime critiche agli Stati Uniti, gli autori della ricerca ritengono pienamente legittima la campagna anti-terrorismo di Washington in Asia centrale e uno dei loro obiettivi sembra essere perciò quello di invitare il governo a rivedere la propria strategia, in modo da evitare critiche o complicazioni legali.

A questo riguardo, un certo imbarazzo e preoccupazione sembra da qualche tempo pervadere la stessa amministrazione Obama, all’interno della quale stanno aumentando le voci di quanti vorrebbero fornire basi legali più solide alla campagna dei droni. A rivelarlo è un lungo articolo pubblicato martedì dal Wall Street Journal che fa luce anche sui difficili rapporti tra Stati Uniti e Pakistan e sull’ambivalenza di quest’ultimo paese relativamente all’utilizzo dei droni sul proprio territorio.

Il mutato atteggiamento di Islamabad, in seguito al peggioramento dei rapporti con Washington, è infatti alla base dei dubbi di molti funzionari del Dipartimento di Stato americano sulla piena legalità delle operazioni condotte dalla CIA in Pakistan. Secondo il Wall Street Journal, all’inizio della guerra in Afghanistan, USA e Pakistan erano soliti decidere di comune accordo sulle località e i bersagli da colpire con i droni.

Negli ultimi anni, invece, la principale agenzia di intelligence americana prende ormai le decisioni in questo ambito da sola e più o meno una volta al mese notifica via fax al Pakistan i piani delle incursioni con i droni, indicando la zona interessata. I destinatari dei fax sono i vertici dell’intelligence pakistana (Inter-Services Intelligence, ISI), i quali da tempo non forniscono più alcun riscontro agli americani. Secondo l’interpretazione americana, tuttavia, il Pakistan darebbe comunque il tacito via libera alle operazioni, dal momento che le autorità locali provvedono puntualmente a sgombrare lo spazio aereo indicato dalla CIA.

Questo atteggiamento di Islamabad, da dove il governo pubblicamente continua a condannare l’uso dei droni, viene considerato troppo pericoloso da parte dei consiglieri legali del Dipartimento di Stato, poiché, a differenza di altri paesi come Yemen e Somalia, non prevede un consenso esplicito ad operazioni che potrebbero essere considerate veri e propri atti di guerra. Perciò, in molti premono sull’amministrazione Obama per studiare un’altra base legale, così da mettere al riparo il governo da possibili azioni legali e dalle proteste dell’opinione pubblica o delle associazioni a difesa dei diritti civili.

L’ambiguità del Pakistan, a sua volta, appare chiaramente studiata a tavolino. In questo modo, infatti, il governo può prendere le distanze dalle impopolari incursioni americane, mentre allo stesso tempo viene data una sostanziale approvazione all’uso dei droni, confermata anche dal fatto che non vengono messe in atto misure concrete per impedirle.

La condotta pakistana riflette in definitiva la situazione a dir poco complessa che il governo deve fronteggiare, cercando da un lato di contenere la rabbia popolare e dall’altro di salvaguardare i rapporti con gli Stati Uniti, da dove continuano ad arrivare aiuti economici vitali per la sopravvivenza della classe politica locale.