Obama all’ONU: la realtà capovolta

Michele Paris
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Il discorso di Barack Obama, tenuto martedì all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ha toccato molti dei temi più caldi dell’agenda internazionale, concentrandosi in particolare sul mondo arabo e il Medio Oriente e presentando per l’ennesima volta gli Stati Uniti come i difensori della democrazia e della libertà di espressione nel mondo. Le parole del presidente americano sono però smentite in maniera clamorosa dalla realtà di un paese nel quale i diritti democratici fondamentali sono da anni esposti ad un processo di grave deterioramento e che sfrutta senza eccezione gli eventi internazionali unicamente per promuovere gli interessi della propria classe dirigente.

La stessa apertura del quarto intervento di Obama al Palazzo di Vetro di New York è stata all’insegna della falsificazione di fatti recentemente accaduti. L’inquilino della Casa Bianca ha infatti ricordato l’ambasciatore USA in Libia, J. Christopher Stevens, assassinato l’11 settembre scorso presso il consolato di Bengasi, tessendone le lodi e dipingendolo come un infaticabile paladino della democrazia, inviato nel paese nordafricano per contribuire alla realizzazione delle aspirazioni della popolazione locale.

Stevens, in realtà, non ha rappresentato altro che la faccia pulita e rispettabile dell’imperialismo a stelle e strisce e, lo scorso anno, nel pieno del conflitto per rovesciare il regime di Gheddafi, venne precocemente spedito proprio a Bengasi per facilitare i collegamenti tra la NATO e i cosiddetti ribelli, tra le cui fila facevano parte quegli stessi estremisti islamici che due settimane fa hanno rivolto le armi contro il più autorevole rappresentante dei loro ex benefattori americani.

Quei principi di libertà e giustizia che Obama ha affermato essere motivo di ispirazione per l’ambasciatore Stevens, ammantano così gli slogan privi di significato che gli Stati Uniti continuano a propagandare per mantenere la loro presenza in aree del globo dove sono in gioco delicati interessi strategici.

Da qui, Obama ha poi condannato gli attacchi delle ultime settimane alle rappresentanze diplomatiche e ai simboli americani nel mondo arabo in seguito all’esplosione della rabbia popolare dopo la diffusione sul web del video amatoriale che irride il profeta Muhammad. Secondo il presidente, i comportamenti sfociati nelle recenti violenze sarebbero un attacco “agli stessi ideali sui quali si fondano le Nazioni Unite” e che fanno in modo che “i popoli possano risolvere le loro differenze pacificamente”.

Simili affermazioni vengono da un leader di un paese che, solo nell’ultimo decennio, ha scatenato due guerre rovinose basate su motivazioni del tutto infondate, che continua a condurre incursioni con aerei senza pilota in territori di paesi sovrani uccidendo centinaia di civili innocenti e si adopera incessantemente per rovesciare con la forza regimi sgraditi senza timore di appoggiare più o meno direttamente organizzazioni legate a quel terrorismo internazionale che sostiene di volere combattere.

In modo corretto, inoltre, Obama ha sottolineato come sia necessario “discutere onestamente delle cause più profonde della crisi” di questi giorni nel mondo arabo, anche se com’è ovvio si è ben guardato dal farlo. Ciò che ha scatenato la rabbia nelle strade del Cairo, di Bengasi, di Kabul o di Islamabad non è tanto il filmato offensivo nei confronti dei musulmani quanto le frustrazioni accumulate da popoli che da decenni subiscono l’oppressione dell’imperialismo americano e di dittatori al servizio di Washington, così come il sostegno incondizionato degli Stati Uniti a Israele e le sofferenze patite dalla nazione palestinese.

Successivamente, nel suo discorso Obama ha parlato della Primavera Araba affermando che la sua amministrazione “ha appoggiato le forze del cambiamento fin da quando meno di due anni fa un venditore ambulante si è dato fuoco in Tunisia per protestare contro la corruzione oppressiva del suo paese”, guidato peraltro da un autocrate fedelissimo di Washington. Anche in questo passaggio il presidente democratico deve aver fatto affidamento sulla memoria corta della platea dell’ONU, dal momento che la prima reazione americana alle rivolte di Tunisia ed Egitto all’inizio del 2011 fu di pieno sostegno alle repressioni delle proteste di piazza messe in atto da Zine El Abidine Ben Ali e Hosni Mubarak.

Solo quando, in seguito alla mobilitazione di milioni di lavoratori, la posizione dei regimi risultò insostenibile, la Casa Bianca chiese ai rispettivi dittatori di fare un passo indietro e da subito si adoperò per assicurare una transizione indolore che salvaguardasse gli interessi americani, promuovendo forze reazionarie come l’esercito e i partiti di ispirazione islamica, presentanti come garanti delle rivoluzioni.

In Libia, inoltre, Obama ha detto che gli USA sono intervenuti militarmente con il mandato ONU per “fermare il massacro di innocenti e perché pensavamo che le aspirazioni del popolo erano più forti di un tiranno”. La consueta retorica del presidente nasconde la realtà di un intervento voluto per rimuovere un regime ancora troppo ostile all’Occidente, nonostante le concessioni dell’ultimo decennio, e viceversa troppo disponibile ad aprire il proprio settore energetico a paesi come Russia e Cina. Per Obama è un dettaglio che non merita di essere citato anche il fatto che l’aggressione NATO della Libia ha causato decine di migliaia di morti in seguito ai bombardamenti aerei, mentre le milizie rivoluzionarie si sono macchiate di indicibili abusi e violazioni dei diritti umani, gettando infine il paese nel caos.

Il sostegno americano agli “uomini e alle donne che sono scesi in piazza” contro i regimi dittatoriali non si estende a tutti i paesi del mondo arabo. In Bahrain, ad esempio, gli Stati Uniti hanno sostanzialmente assecondato la repressione della rivolta messa in atto dalla casa regnante, la quale concede alla Marina americana di mantenere un’importante base affacciata sul Golfo Persico. Anche i rapporti con l’Arabia Saudita, uno dei paesi più oscurantisti e retrogradi del pianeta, non sono stati modificati in seguito al soffocamento delle proteste della minoranza sciita e all’intervento militare nel vicino Bahrain per mettere fine alle manifestazioni popolari.

Riguardo alla Siria, invece, Obama ha nuovamente puntato il dito contro Bashar al-Assad, proclamando che il futuro di questo paese, diversamente da quello di altri allineati agli interessi di Washington, “non deve appartenere a un dittatore che massacra il suo popolo”. Obama ha prevedibilmente taciuto le responsabilità degli Stati Uniti e dei loro alleati nell’aggravamento della situazione in Siria, sfociata ormai in un conflitto settario grazie soprattutto al sostegno esterno fornito a “ribelli” che, come in Libia, annoverano tra le proprie fila guerriglieri integralisti legati ad Al-Qaeda.

Con le tensioni crescenti attorno al nucleare iraniano, Obama ha sfruttato il palcoscenico delle Nazioni Unite per ribadire ancora una volta che Teheran “ha mancato l’occasione di dimostrare che il suo programma è rivolto esclusivamente a fini pacifici”. Il presidente americano, pur non piegandosi alle richieste israeliane di fissare dei paletti all’evoluzione del programma nucleare della Repubblica Islamica, ha inoltre confermato di non volere nemmeno prendere in considerazione l’ipotesi del contenimento di un Iran dotato di armi atomiche, poiché quest’ultimo scenario “minaccerebbe l’esistenza di Israele, la sicurezza dei paesi del Golfo e la stabilità dell’economia globale”, scatenando una corsa agli armamenti atomici nella regione e indebolendo il Trattato di Non Proliferazione.

Per Obama, in sostanza, è l’Iran la principale minaccia alla stabilità e alla sicurezza mediorientale, anche se a mettere e rischio la pace nella regione sembra essere maggiormente la stessa politica americana, nonché il possesso da parte di Israele di centinaia di testate nucleari non dichiarate e al di fuori dello stesso Trattato di Non Proliferazione. Criticando ancora l’Iran per il presunto mancato rispetto degli impegni internazionali, Obama ha spiegato infine che “la strada verso la sicurezza e la prosperità non risiede al di fuori dei confini del diritto internazionale e del rispetto dei diritti umani”.

Queste parole risultano particolarmente significative in quanto pronunciate da un presidente che, nel solco del suo predecessore e nell’ambito della “guerra al terrore”, ha mostrato un chiaro disprezzo per i principi del diritto internazionale, come dimostrano gli assassini di presunti terroristi, anche con cittadinanza americana, senza accuse formali né processi, le uccisioni di civili innocenti tramite incursioni notturne in abitazioni di civili in Afghanistan e con i droni in Pakistan e in Yemen, le detenzioni indefinite e le continue violazioni del territorio di paesi sovrani.

Solo alla fine del suo discorso Obama ha affrontato brevemente la questione della crisi economica, inquadrandola in una realtà immaginaria. Senza considerare le profonde divisioni emerse tra i vari governi e i rappresentanti del capitalismo internazionale, il presidente ha affermato che “in un periodo di sfide, il mondo si è unito per diffondere la prosperità”, mentre “gli Stati Uniti hanno perseguito un’agenda di sviluppo per alimentare la crescita”.

Come dimostrano i dati economici e innumerevoli studi, il livello di prosperità dopo l’esplosione della crisi finanziaria del 2008 è aumentato solo per una ristretta cerchia di privilegiati, mentre le politiche implementate dal governo americano, e non solo, hanno contribuito a peggiorare sensibilmente le condizioni di vita di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo.

In definitiva, la fugace apparizione di Barack Obama all’ONU tra un evento elettorale e l’altro è stata ancora una volta utilizzata per avanzare i consolidati interessi americani nel mondo, facendo attenzione come al solito ad occultarli sotto la consueta e nauseante retorica dei principi di democrazia di cui gli Stati Uniti, in maniera del tutto arbitraria, continuano a proclamarsi portatori.