Chavez, il socialismo nelle urne

Fabrizio Casari
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Un’affluenza al voto senza precedenti nella storia del paese, ha indicato che vuole ancora Hugo Chavez come Presidente del Venezuela. Una indicazione netta, forte del 55 per cento dei consensi, che ha sancito una vittoria di portata storica. I prossimi sei anni lo porteranno a complessivi venti anni di governo e il mandato popolare appena ricevuto produrrà inevitabilmente un ulteriore approfondimento delle politiche economiche e sociali di natura socialista.

L’opposizione – comunque capace di radunare il 44 per cento dei voti, cioè il suo record degli ultimi 14 anni – ha immediatamente riconosciuto la vittoria di Chavez, il quale ha prontamente ringraziato il suo sfidante Capriles per il senso civico dimostrato, invitando i suoi nemici a ridurre la quota di odio e ad abbassare il livello di belligeranza in funzione di un ruolo più propositivo nei confronti del paese.

Parole che sembrano decisamente figlie di questo nuovo scenario di reciproco riconoscimento tra maggioranza e minoranza, ma non è detto che si riproporranno nel prossimo futuro, visto l’odio viscerale dell’oligarchia locale verso la rivoluzione bolivariana. La vigilia del voto era stata caratterizzata dall’incedere pesante delle operazioni destabilizzatrici organizzate dall’ambasciata degli Stati Uniti; quelle relative alla guerra mediatica erano coadiuvate in prima persona dalla signora Viviana Giancaman, dirigente di Freedom House, l’organizzazione del governo statunitense che, insieme a USAID e NED, si occupa direttamente della destabilizzazione dei paesi nemici sotto le mentite spoglie di organismi umanitari non governativi. La strategia statunitense prevedeva che il loro candidato, Capriles, potesse arrivare a un margine di distacco di due o tre punti da Chavez e, in quel caso, la campagna di delegittimazione del voto avrebbe avuto il suo via libera.

Ma i rapporti positivi degli osservatori internazionali sull’andamento ordinato e corretto delle operazioni di voto e il margine notevole della vittoria del Comandante Hugo Chavez hanno reso impossibile mettere in pratica la strategia destabilizzatrice che prevedeva il mancato riconoscimento del voto, quindi la discesa in piazza dell’opposizione che denunciava i brogli e cui avrebbero fatto seguito le prese di posizione occidentali che sarebbero culminate nel disconoscimento ufficiale del voto da parte di Obama. D’altra parte, il governo venezuelano, a conoscenza del piano, aveva mobilitato decine di migliaia di soldati a garanzia tanto del corretto funzionamento del processo elettorale, quanto come deterrente per ogni qualsivoglia piano destabilizzatore.

Alcuni analisti internazionali ritengono il risultato di ieri sia comunque un segnale di distanza dell’elettorato da Chavez, visto che nelle precedenti elezioni l’opposizione aveva raggiunto il 36 per cento dei voti e Chavez il 63 per cento. Ma il dato è squisitamente numerico e percentuale, niente affatto politico, giacché l’opposizione odierna, che comprende 20 partiti in perenne lite tra loro, la gerarchia ecclesiale e il sostegno di Stati Uniti ed Europa, non é un soggetto politico credibile.

E’ infatti talmente frammentata al suo interno e così tanto povera sul piano della proposta politica che solo nell’avversione a Chavez e alla rivoluzione bolivariana trova un punto d’unità. Se Chavez incarna la leadership della rivoluzione bolivariana, l’opposizione esiste solo come espressione di odio allo stato puro per il presidente e il suo Socialismo del terzo millennio. L’opposizione può quindi diventare un cartello elettorale, ma non una proposta politica alternativa e credibile, almeno per ora.

E’ infatti un’opposizione che non ha nessuna ricetta economica o sociale per il paese che non sia quella del ritorno ai ruggenti anni che precedettero l’arrivo di Chavez, quando il Venezuela risultava uno dei paesi più ricchi del mondo nel sottosuolo e uno dei più poveri al suolo. Il paese era governato da una elite locale dominante verso l’interno e dominata dall’estero.

Gli straordinari introiti del petrolio venivano infatti destinati all’arricchimento smodato dell’oligarchia locale, e il prezzo da pagare era quello di una forbice sociale smisurata, che a fronte di tanta ricchezza vedeva una società collocata negli ultimi gradini degli indici internazionali attestanti il grado di soddisfacimento dei bisogni primari. Le classi disagiate, che raggiungevano quasi il 71% della popolazione, erano fuori dal giogo politico, da ogni forma di rappresentanza e spesso, proprio per questo, nemmeno interessate persino dall’esercizio formale del voto.

Il Venezuela di oggi, però, è tutt’altro paese. Le riforme economiche e sociali realizzate hanno enormemente ridotto le disuguaglianze. Chavez, che pure mai ha messo in discussione la legittimità dell’impresa privata, ha però imposto l’intervento dello Stato nell’economia, in primo luogo rendendo pubblica la proprietà degli immensi giacimenti di idrocarburi e dei settori strategici.

Grazie agli straordinari proventi del petrolio, ha garantito redistribuzione della ricchezza, investimenti pubblici nell’istruzione, nelle politiche abitative e nella sanità, portando l’occupazione ai suoi massimi storici e aumentando il salario minimo, ristrutturando in positivo il sistema pensionistico e distruggendo la gran parte dell’analfabetismo. Riforme economiche e sociali che hanno marciato di pari passo con la modernizzazione del paese, fatta di strade, ferrovie, porti, gasdotti e oleodotti destinati ad una migliore distribuzione energetica.

In politica estera ha svolto un ruolo straordinario nel processo d’integrazione latinoamericano, puntando tutto sullo sviluppo delle relazioni sud-sud; ha imposto una relazione con gli Stati Uniti fondata sul reciproco rispetto e, in collaborazione con Cuba, Brasile, Ecuador, Bolivia, Uruguay e Nicaragua, ha stimolato in tutta l’America Latina un percorso di profondo rinnovamento politico che ha trasformato il continente nel bacino naturale della resistenza alle politiche neoliberiste.

La disobbedienza al Washington consensus lo ha portato poi ad aprire una nuova stagione di relazioni economiche e commerciali con Russia, Iran e Cina (così come il Brasile), collocando strategicamente gli investimenti e lo sfruttamento energetico in bacini di straordinaria potenzialità (come quello dell’Orinoco) ancora non sfruttate. Logicamente, scelte che sono per Washington un’autentico insulto, ma che attengono alla libera scelta di un paese e un governo sovrano, piaccia o no all’establishment USA.

L’intenzione di Chavez è da un lato quella di ridurre concretamente la dipendenza dagli Usa quale principale cliente delle forniture di greggio (sottraendosi così a qualunque ricatto o blocco economico potenziale, vista l’esperienza di Cuba e Nicaragua) e dall’altra quella di pianificare lo sviluppo dell’economia diversificando fonti e interlocuzioni internazionali, così come ogni governo affezionato alla propria sovranità nazionale dovrebbe fare.

Se oggi anche i settori più umili della popolazione dispongono di case, assistenza sanitaria gratuita, istruzione, trasporti e salari è stato proprio in ragione della brusca inversione di rotta che Chavez ha imposto per i proventi petroliferi. Dunque il margine ridotto tra governo e opposizione filo-statunitense – che comunque resta pesantissimo – pur contenendo un dato numerico non appare semplice da trasferire sul piano politico.

Difficile infatti che la maggioranza della popolazione possa rinunciare alla crescita economica di cui ha beneficiato per premiare gli eredi della DC venezuelana o le famiglie della burguesia compradora che si sono spartite il bottino per decenni alle spalle della maggioranza dei cittadini e che vorrebbero riprendere a fare.

Questo non impedisce di vedere i problemi relativi alla corruzione e alla delinquenza diffuse, pur se in diminuzione rispetto agli ultimi anni, ma comunque segnali endemici di un governo che ha cambiato il paese ma non riesce del tutto a cambiare la sua gente. Una maggiore attenzione e politiche più forti contro le deviazioni sociali dovranno necessariamente essere implementate, se non si vuole che il malcontento generi avversità. Ma questo rappresenta aspetti da correggere su un impianto sociale e politico che va ben aldilà e che é condiviso dalla maggioranza dei venezuelani.

Il Socialismo del terzo millennio, così ama definirlo Chavez. E’ un socialismo distinto e distante dalle interpretazioni dottrinarie e asfissianti del secolo scorso: valorizza e impone la volontà popolare ma rispetta le regole del gioco democratico. Riconosce e combatte le differenze di classe ma non cerca il dominio di una classe sull’insieme della società. Determina con forza le scelte politiche e rivendica la centralità della rivoluzione, ma non pensa nemmeno a ridurre lo spazio politico ed elettorale per tutti.

E’ attento alla comunicazione politica, ma non effettua censura sui media, quasi tutti peraltro di proprietà dell’opposizione. Costruisce e difende le politiche d’integrazione sociale, amplia e rafforza la dimensione del welfare cui destina risorse imponenti, ma non disconosce il valore dell’iniziativa privata. Rafforza il suo movimento ma non impedisce il confronto politico con l’opposizione e affronta le urne con una frequenza impensabile altrove, giacché chiede attraverso ripetuti referendum un mandato popolare per ogni processo profondo di modificazione della realtà politica venezuelana in termini costituzionali.

Chavez sfugge quindi agli insulti che da ogni parte del mondo occidentale arrivano, allo scherno rabbioso e impotente di Miami, al disegno caricaturale che Washington e i suoi alleati propinano alle penne affittate dei grandi media europei. Perché le parole, anche quelle più velenose e più false, quasi sempre pronunciate dalle stesse bocche, prima o poi trovano conferma o smentita quando il popolo prende la parola. E allora, ma non solo allora, i risultati s’incaricano di ristabilire la giusta distanza tra le parole ignobili e i fatti nobili.