Il valore della vita e delle radici è il nuovo vessillo dei conservatori italiani

Alessandro Baoli
wwww.cronachelaiche.it

Il caos in cui è precipitato in Italia lo schieramento conservatore, tra il fiorire di scandali e scandaletti, la pressante richiesta di primarie e la ricerca di un ‘Renzi di destra’, produce una messe di manifesti programmatici e documenti identitari. Il vero problema, che poteva tranquillamente essere previsto quasi vent’anni fa, è che finito politicamente Silvio Berlusconi si è svelato nella sua interezza il grande bluff: a destra oggi non c’è più nulla, se non gli avanzi di Berlusconi e del berlusconismo, non ci sono idee, visioni forti della società che non siano l’imbroglio berlusconiano di una politica fondata sul culto della personalità del leader e sui suoi interessi personali, e su una rivalutazione continua e permanente di quelli che una volta si chiamavano semplicemente fascismo e clericalismo. Così, esplode l’affannosa ricerca di una identità politica e culturale, e la corsa ad accaparrarsi il ruolo di paladino dei ‘valori tradizionali’: cioè – manco a dirlo – quelli cattolici, blandendo sempre più sfacciatamente il potere di oltre Tevere.

In questa fase della deriva, è stato presentato il «Manifesto per il bene comune della Nazione», sei paginette di principi, vaghi come solo nei manifesti programmatici, ancorati proprio a quelle logore idee. Il manifesto è stato firmato dalle associazioni Magna Carta, Italia protagonista, Rete Italia, Liberamente e Nuova Italia; ovvero da nomi come Gaetano Quagliarello, Maurizio Sacconi, Maurizio Gasparri, Roberto Formigoni, Mariastella Gelmini, Gianni Alemanno. La crema dei reazionari italiani.

Il manifesto affronta i temi consueti della famiglia, ma anche di immigrazione, lavoro e giustizia, e la frase chiave è sempre ‘bene comune’: vediamone alcuni stralci.

E’ un manifesto che « si propone di contribuire alla rielaborazione delle idee liberali e comunitarie, per declinare alla luce delle sfide del presente e del futuro i valori della nostra tradizione nazionale. Solo dai conservatori delle cose buone, infatti, può venire un’autentica spinta al cambiamento e alla modernizzazione». Secondo i suoi redattori, il Manifesto vuole «risvegliare nel corpo vivo della nazione quel principio di verità e di responsabilità che deriva dalla tradizione dei padri […] E’ nel riferimento alla tradizione che credenti e non credenti possono rintracciare una verità condivisa sulla quale fondare il laico esercizio delle funzioni pubbliche». Di fronte alla sfida posta dall’immigrazione, poi, bisogna ritrovare «le proprie radici» e affermarle «nel dialogo con le altre culture […] Da questa concezione, oltre che da una nozione identitaria dell’Italia e dell’Europa, deriva una idea di cittadinanza ben diversa da quell’attribuzione meccanica e burocratica di diritti che tanti guai ha provocato nei Paesi che hanno ceduto all’abbaglio del multiculturalismo. Ne discende, piuttosto, una idea della cittadinanza quale risultato di un libero e motivato percorso di ingresso nella comunità nazionale della quale, fermi restando i diritti fondamentali di ogni persona in quanto tale, si conoscano e riconoscano gli elementi fondativi».

Niente di nuovo sotto il Sole: a parte la retorica stantia che sembra presa dalla pubblicità del Mulino Bianco (le buone cose, la tradizione dei padri; il che fa anche ridere visto come si sono comportati tanti dei difensori di questi valori, Berlusconi in testa), come si fa a non osservare che, se questa continua ad essere la bussola della politica dei conservatori italiani, essa è solamente e totalmente ideologica, e quindi destinata solamente a creare frustrazione e conflitto sociale? Infatti, non c’è nulla di più ideologico che traslare in politica la morale di una religione dogmatica, completamente avulsa dalla realtà, ed è piuttosto difficile cambiare e ‘modernizzare’ una società su queste basi. Dopo tutto, di era ‘post-ideologica’ – questa – parla nel suo sito proprio l’associazione Magna Carta di Quagliarello e Sacconi, tra i firmatari del Manifesto: «Con l’ingresso nell’era post-ideologica, la politica si è lasciata alle spalle la dimensione totalitaria che ne aveva a lungo caratterizzato pensiero e azione. Oggi però si sta correndo il rischio che la politica, smarriti valori e idealità, divenga casta e si riduca a mera gestione del potere. Oppure a trovare delle scorciatoie che limitano i diritti della persona». Per inciso, che la politica divenga casta non è un rischio, ma una realtà consolidata; anche grazie ai cattolici.

Le radici propugnate nel Manifesto sono inevitabilmente quelle cristiano-cattoliche, e si vogliono usarle come lancia e scudo contro le altre culture, riprendendo l’idea di ‘crociata 2.0’ di Oriana Fallaci: contrapporre un fondamentalismo ad un altro (soprattutto l’islamismo portato dall’immigrazione), mettendo così tutto il paese (e il continente) in una guerra perenne di ideologie. Invece che affermare e difendere uno spazio di laicità che solo può garantire libertà e diritti per tutti. Ci si dovrà pur spiegare, prima o poi, come conciliare i ‘diritti’ richiamati nel Manifesto con la presunta identità nazionale fondata sul dogmatismo cattolico, che molti di quei diritti nega da sempre con grande pervicacia.

Per questo, venendo al tormentone cattolico-reazionario del ‘bene comune’, bisognerà ammettere una volta per tutte che questo bene non è affatto ‘comune’: è particolare, e basta. Per favore: chiamatelo ‘bene particolare’, per dovere di onestà, perché è fondato sull’esclusione di alcuni e sul privilegio di altri, invece che sull’inclusione e sul pluralismo dei diritti.

Interessante, infine, rilevare la reazione di Fabrizio Cicchitto, Pdl, che azzarda un indirizzo diverso in nome di chi non ha mai avuto spazio nel centrodestra, soffocato dalla costante rincorsa al moderatismo reazionario cattolico: il Manifesto «costituisce uno stimolo [… ] per stilarne un altro di impostazione riformista e liberal socialista», perché «nel Pdl è presente sin dalle origini un pluralismo di tendenze politico-culturali sinora purtroppo rimaste soffocate». Ne vedremo delle belle.