L’orizzonte di guerra di Romney

Michele Paris
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In uno dei rari discorsi interamente dedicati alla politica estera, il candidato repubblicano alla presidenza degli Stati Uniti ha delineato lunedì in Virginia uno scenario bellicoso nel quale intende trascinare il suo paese nel caso venga eletto alla Casa Bianca il 6 novembre prossimo. A ben vedere, le posizioni di Mitt Romney non sembrano comunque discostarsi di troppo da quelle del rivale democratico, il quale, nel frattempo, continua a dovere fare i conti con un preoccupante calo nei sondaggi dopo l’opaca prova offerta nel primo dibattito presidenziale della settimana scorsa in Colorado.

Nel suo intervento presso il Virginia Military Institute, come hanno messo in luce molti commentatori d’oltreoceano, a poche settimane dal voto Romney ha dunque faticato a distinguersi dalle politiche messe in atto da Barack Obama su scala planetaria in questi quattro anni. Pur criticando il presidente da destra, il candidato repubblicano non è giunto infatti ad appoggiare apertamente un intervento americano per risolvere le più gravi crisi internazionali in atto, approvando perciò in gran parte la condotta dell’amministrazione democratica.

Il discorso tenuto da Romney lunedì di fronte ad un pubblico composto interamente da uomini in uniforme ha confermato in ogni caso che, chiunque si installerà alla Casa Bianca il prossimo gennaio, ciò che attende gli americani sono altri quattro anni di imposizione degli interessi imperialistici USA in ogni angolo del pianeta.

Attorno alla questione del nucleare iraniano, dopo aver affermato che la Repubblica Islamica “non è mai stata così vicina a possedere le capacità per costruire un’arma nucleare”, Romney ha ricalcato sostanzialmente il recente discorso di Obama all’Assemblea Generale dell’ONU. Romney, infatti, ha sostenuto di volere “avvertire i leader iraniani che gli Stati Uniti e i nostri alleati impediranno loro di ottenere le capacità per costruire un’arma nucleare” e per fare ciò non esiterà “a imporre nuove sanzioni e a rafforzare quelle già in vigore”.

L’ex governatore del Massachusetts ha poi fatto sapere che è sua intenzione ristabilire “la presenza permanente di portaerei americane nel Golfo Persico e nel Mediterraneo orientale”, così da tenere alta la pressione su Teheran. In questo caso le differenze con la strategia di Obama appaiono virtualmente annullate, dal momento che gli ultimi mesi sono stati segnati dall’applicazione di sanzioni durissime e da un vero e proprio accerchiamento militare dell’Iran.

La questione iraniana ha permesso a Mitt Romney di spiegare la diversità del suo approccio a Israele, verso il quale promette un’assoluta dedizione. Le divergenze tra l’amministrazione Obama e il governo di Tel Aviv peraltro, al di là della mancanza di sintonia tra il presidente americano e il premier Netanyahu, risultano puramente di natura tattica, visto che Washington non esclude l’ipotesi di un’aggressione unilaterale contro l’Iran, come chiede apertamente Israele. Il disaccordo emerge soltanto in relazione ai tempi di un’operazione militare, anche se lo stesso Netanyahu sembra essersi rassegnato ad attendere l’effetto delle sanzioni, con ogni probabilità dopo essere stato rassicurato dagli Stati Uniti su un possibile attacco nel prossimo futuro.

In merito alla crisi in Siria, Romney ha invece garantito che una sua eventuale amministrazione metterà in atto un maggiore sforzo per appoggiare i ribelli anti-Assad rispetto a quanto fatto finora da Obama, ricorrendo anche a forniture dirette di armamenti. Consapevole delle divisioni e dei dubbi diffusi tra i vertici militari e dell’intelligence americana attorno all’approccio da tenere nei confronti delle forze di opposizione siriana, tra le quali vi è una foltissima presenza di terroristi e integralisti islamici, Romney ha affermato che “si impegnerà con i nostri partner per identificare e organizzare quei gruppi che condividono i nostri valori, così da fornire loro le armi di cui necessitano per sconfiggere il regime”.

Per il momento, la posizione ufficiale di Washington prevede un sostegno di natura logistica ai ribelli, mentre la fornitura di armi viene delegata a paesi alleati come Arabia Saudita e Qatar. Il rischio che le armi possano finire nelle mani dei gruppi jihadisti, con conseguenze simili a quelle osservate a Bengasi lo scorso 11 settembre quando venne ucciso l’ambasciatore USA in Libia, non è stato in alcun modo affrontato da Romney nel suo discorso di lunedì.

Le critiche a Obama sono giunte anche in merito all’Iraq, dove il presidente avrebbe deciso di ritirare troppo in fretta le forze di occupazione, lasciando che “i progressi fatti dai nostri soldati vengano erosi dal riesplodere della violenza, dal ritorno di Al-Qaeda e dall’Iran”. Inoltre, il presidente sarebbe colpevole di non essere riuscito a siglare un accordo con Baghdad per mantenere nel paese un contingente americano oltre il 2011. Un possibile accordo era saltato lo scorso anno dopo che il governo del premier Nuri al-Maliki reputò politicamente impossibile garantire l’impunità ai soldati statunitensi presenti in territorio iracheno.

Come ha fatto notare qualche commentatore americano, la posizione espressa da Romney sull’Iraq appare diversa rispetto a quella da egli stesso esposta fino a pochi mesi fa. L’anno scorso, infatti, il candidato repubblicano alla Casa Bianca sosteneva che l’invasione dell’Iraq avrebbe dovuto essere evitata se gli Stati Uniti avessero saputo che il regime di Saddam Hussein non disponeva di armi di distruzione di massa, cosa che peraltro sapevano perfettamente. Ora, al contrario, Romney è tornato a parlare del conflitto in Iraq nel quadro della lotta per la democrazia, mentre allo stesso tempo prospetta in maniera implicita un possibile ritorno in questo paese di un contingente militare americano.

Gli ormai noti cambiamenti di opinione di Romney sono apparsi evidenti anche nella parte del suo discorso dedicato all’Afghanistan. Sempre lo scorso anno sosteneva che le truppe americane non erano tenute a combattere una guerra di indipendenza (dai Talebani) al posto di un’altra nazione, mentre l’altro giorno ha mostrato un sostanziale allineamento con Obama e con la sua tesi della “guerra giusta”, appoggiando in gran parte il piano presidenziale per il trasferimento delle responsabilità alle forze locali entro il 2014 e per la fine dell’occupazione in base alle condizioni sul campo e al parere dei vertici militari.

Ancora, sulla Primavera Araba Romney ha attaccato Obama per non essersi schierato in maniera più ferma dalla parte delle nascenti democrazie nel mondo arabo o, in altre parole, per non avere dirottato in modo più sicuro le rivolte dei mesi scorsi e i regimi appena nati verso la difesa degli interessi degli Stati Uniti di fronte ad una diffusa ostilità popolare nei confronti di Washington.

La questione palestinese, infine, ha fatto registrare l’ennesima inversione di rotta di Romney. Dopo avere proclamato solo qualche mese fa l’impossibilità di giungere ad un accordo di pace tra israeliani e palestinesi, poiché questi ultimi non sarebbero interessati ad una soluzione condivisa, lunedì il miliardario mormone ha confermato invece che la sua amministrazione continuerà a battersi per la creazione di “uno Stato palestinese democratico” in pace con quello di Israele.

Al contrario di quanto fatto nel faccia a faccia con Obama della settimana scorsa, nel quale aveva adottato toni relativamente moderati, Mitt Romney lunedì ha dunque sconfinato più volte nelle aggressive posizioni di politica estera tanto care ai “neocon” che dominavano l’amministrazione Bush jr.

Pur con l’esposizione di simili concetti, al termine del discorso di Romney si è avuta la netta impressione che, anche in caso di una sua vittoria a novembre, non si verificheranno cambiamenti significativi nemmeno in questo ambito rispetto al primo mandato di Barack Obama. Una conferma, questa, di come le politiche perseguite dal 2009 ad oggi dal presidente democratico siano state caratterizzate da una netta sterzata a destra che rischia di aprire nuovi e rovinosi conflitti internazionali nell’immediato futuro.