“Oggi lo stato non esiste più solo il mercato è sovrano”

Michele Smargiassi
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Paolo Prodi, professore emerito di storia moderna all’Università di Bologna, racconta i suoi 80 anni e come è cambiato il lavoro dello storico: “Dopo averlo legittimato, ora smascheriamo il trono vuoto”

Per secoli ha cercato il potere. Ora il compito dello storico è cercare dove il potere non è più. Smascherare il trono vuoto, “delegittimare il sovrano” dopo averne retto e cucito il manto. Ci vuole l’energia di uno studente ribelle per questi propositi, e Paolo Prodi ce l’ha. Entra nel suo studio di professore emerito di Storia moderna, una stanzetta con vista sull’antico carcere di San Giovanni in Monte, oggi una delle sedi dell’Università di Bologna, dove l’aula magna porta il nome del fratello Giorgio, e poggia su una sedia lo zainetto di jeans, portato con noncuranza sulla giacca grigia: “Con le borse da professore mi veniva il mal di schiena”. Ieri ha compiuto ottant’anni e sembra guardarli incredulo con quegli occhi che si stringono ironici quando fa una battuta, un tratto di famiglia.

Era lui, il politico designato della grande famiglia di Reggio Emilia. Sette anni maggiore del fratello Romano, ancora bambino, Paolo aveva invece l’età giusta, nei primi anni del dopoguerra, per appassionarsi dell'”onorevole di Dio”, il suo conterraneo Giuseppe Dossetti, e cercare di calcarne le orme. Ma si fermò all’impatto con una Chiesa “rimasta alla Controriforma”, e decise: “Il potere, è prudente studiarlo prima di praticarlo”.

Paolo Prodi è il più “tedesco” dei nostri storici. Per rigore, per scelta del campo di studio (il diritto e le istituzioni), per vicinanza intellettuale, amicizie, frequentazioni, maestri, come Hubert Jedin. I tedeschi lo hanno ricambiato assegnandogli nel 2007 il premio Von Humboldt, il Nobel germanico. Allievo di Delio Cantimori, ha dedicato la sua vita di studioso all’esplorazione del confine crepuscolare fra sovranità e sacro, dal potere temporale dei papi alla pratica del giuramento fino al recente studio sul tabù del furto come istituzione economica del mercato capitalistico.

Professore, in una sua recente lezione lei si è concesso un pessimismo quasi nicciano sulla funzione della storia: “Senza i libri di storia difficilmente i giovani europei avrebbero ucciso e si sarebbero fatti uccidere nelle trincee della Prima guerra mondiale “. Il suo mestiere non serve più alla società? Niente più magistra vitae?

“Il mio mestiere, come dice lei, nasce per dare fondamento e legittimazione al potere. Nelle società antiche gli storici di corte stendevano genealogie di regnanti, edificavano spesso dal nulla il fondamento della legittimità dinastica. Per la cultura tedesca, del resto, il politico è semplicemente lo “storico pratico”, lo storico applicato. E questo è stato vero a lungo, fino a tempi recenti, non importa se al servizio del re di Prussia o dell’Italia democratica. I libri di testo che studiavo nel dopoguerra avevano ancora la struttura ideologica di quelli del fascismo, semplicemente cambiata di segno e di riferimento. Ma a un tratto è successo qualcosa”.

Nella storiografia?

“Nel potere. È fuggito dai luoghi tradizionali, si è trasferito e si è nascosto. Gli storici oggi non sanno più dove cercarlo. Io ebbi un’autentica epifania di questa verità qualche anno addietro, mentre leggevo Il Sole 24 Ore. Mi capitò l’occhio su un titolo che parlava di “fondi sovrani”. Feci un salto sulla sedia: io ho dedicato una vita allo studio della sovranità, ed ecco, la vedevo trasferita su un meccanismo finanziario del mercato “senza fissa dimora”. Nell’era della globalità non c’è più lo Stato, o quel che ne è rimasto non è più il vero potere. E il vero potere non ha più bisogno della storiografia per legittimarsi, preferisce altre discipline “senza storia”, il marketing, la sociologia, la comunicazione”.

Fine della storia?

“Al contrario, liberazione dello storico. Siamo stati sollevati, forse oltre i nostri meriti, da un legame oppressivo, ora siamo del tutto senza potere, ma siamo liberi, e possiamo dedicarci alla nostra vera missione. Dopo aver legittimato il potere, ora dobbiamo de-legittimarlo”.

La vicinanza al potere fa male allo storico? Lei ha avuto un fratello premier…

“(Ride) L’unico consiglio che diedi a Romano, il nome di un ministro per l’università, non andò a buon fine… Invece io penso che un’esperienza ravvicinata con la politica faccia bene allo storico. Anche io ho avuto la mia, abbastanza fulminea ( fu deputato della Rete nel ’92, ma lasciò dopo pochi mesi per dissensi politici con Leoluca Orlando, ndr.), non rimpiango di averlo fatto. Come non rimpiango di esser stato nel ’72 il primo rettore di Trento, volevo farne un’università italo-germanica, ma erano anni caldi, anche se io presi al massimo qualche calcio… Chi non ha avuto un assaggio del potere non può scrivere di storia, chi si dedica solo alle carte non capisce la storia”.

I politici cattolici non hanno più un partito, la dottrina sociale della Chiesa evoca più le ingerenze legislative che il magistero morale… Ha ancora un senso definirsi storico cattolico, sempre che lei ci tenga?

“La Chiesa cattolica come istituzione che ambiva ad essere societas perfecta è stata più che altro l’oggetto dei miei studi, ne ho seguito l’evoluzione fino alla crisi attuale, quando assieme alle sovranità nazionali esplode anche il concetto di chiesa nazionale e territoriale. Le mie ricerche sulla dialettica fra sacro e potere, certamente, sono animate da una certa vibratilità di partecipazione personale. Essere cattolico, anche nel senso più banale di far parte di una comunità, di una chiesa, credo però mi abbia dato soprattutto questo grande vantaggio, preservarmi dalle ideologie, in particolare il marxismo e il crocianesimo. Mi fa ridere chi mi ha classificato fra i catto-comunisti, io che nel ’48 attaccavo i manifesti contro il Pci… “.

Quando uscì il suo Settimo, non rubare, tanti pensarono a un saggio nato per reagire alla lunga crisi della moralità pubblica dopo Tangentopoli. In mezzo ai nuovi ancor più miseri scandali dei rimborsi spese dei politici, il tema torna di attualità?

“Per la verità non era uno studio sull’etica, ma sull’economia. Cercavo di dimostrare che il tabù del furto era una funzione necessaria alla nascita del mercato capitalistico, che il “non rubare” della nuova economia internazionale non era più l’interdetto morale contro il furto di una pecora o di una mela della società di sussistenza, ma il requisito per l’instaurazione di un sistema garantito di regole per gli scambi. Detto questo, che si profili di nuovo, sulla scena pubblica, il rubare nella sua accezione più tradizionale di allungare la mano sul denaro che non ti appartiene, credo tradisca un fatale regresso della società italiana a una condizione premoderna, di egoismi privati e di familismi, che è poi la radice storica della mentalità mafiosa. Spero ci siano ancora nella società italiana anticorpi politici, oltre che morali, per evitare il tracollo”.