Questione morale: la vera priorità di E.Rindone

Elio Rindone
www.periodicoliberopensiero.it

Una lunga serie di scandali, culminata negli ultimi giorni con lo scioglimento del consiglio regionale del Lazio, ha posto al centro dell’attenzione quella che forse è la radice dei mali italiani: la questione morale.Senza una rivoluzione etica,il nostro Paese non potrà superare né la crisi politica né quella economica: tesi da moralisti sprovveduti e ingenui? Certamente sprovveduti e ingenui non erano, tra i tanti pensatori e uomini politici che sarebbe possibile citare in proposito, gli autori – un italiano contemporaneo, Bobbio, e un greco antico, Demostene – dei testi che seguono.
Sul sito di Libertà e Giustizia opportunamente Sandra Bonsanti ha riportato (25/9/12) alcune parole scritte da Norberto Bobbio nel 1991 ma pubblicate solo nel 2011, sette anni dopo la sua morte, che mettevano a nudo il disarmo morale che corrodeva le nostre istituzioni.

Ma dov’è il nemico? Il nemico – scriveva Bobbio – è dentro di noi. Disfacimento indica una lenta inesorabile decadenza delle nostre istituzioni per insipienza, superficialità, disonestà degli uomini che se ne servono.Mi sembra di assistere, ormai vecchio, sfiduciato, spenta ormai ogni volontà di combattere, al fallimento di una classe politica, e non solo quella di governo (la crisi del comunismo non ha generato una nuova forza politica ma un coacervo di debolezze).Se questa prima Repubblica è alla fine, finisce male, malissimo. Per chi come me appartiene alla generazione che ha assistito piena di speranza alla sua nascita, questa constatazione è molto amara”.

Chi non vuole illudersi sulle condizioni dell’Italia di oggi ha più che mai la sensazione di un Paese in ‘disfacimento’, e la causa di questo sfacelo è ‘dentro di noi’.La legalità, il senso civico, il gusto del dovere compiuto non sono mai stati – è vero – una caratteristica del popolo italiano, ma il degrado pare che abbia raggiunto livelli ancora più terrificanti di quelli di venti anni fa. Solo una popolazione di scarsa moralità poteva eleggere per decenni un ceto politico responsabile della ‘lenta inesorabile decadenza delle nostre istituzioni per insipienza, superficialità, disonestà degli uomini che se ne servono’.

“La gestazione della Seconda Repubblica,scriveva ancora Bobbio, se dovrà nascere, sarà lunga. Forse non avrò neppure il tempo di vederne la fine. Ma poiché, se nascerà, nascerà con gli stessi uomini che non solo sono falliti ma sono inconsapevoli del loro fallimento, non potrà nascere che male, malissimo. Come male, malissimo è finita la Prima”.

In effetti, come era facile prevedere, la cosiddetta Seconda Repubblica è nata male perché ‘con gli stessi uomini che non solo sono falliti ma sono inconsapevoli del loro fallimento’. E, come ora possiamo constatare, sta finendo ancor peggio, ‘come male, malissimo è finita la Prima’, perché i protagonisti della scena politica degli ultimi due decenni, anche quando si presentavano come uomini nuovi,non hanno fatto altro che portare a compimento il disegno di occupazione del potere per usarlo a proprio esclusivo vantaggio.

Mentre Bobbio descrive l’Italia della fine del secolo scorso, Demostene parla dell’Atene del IV secolo ed è allarmato per la decadenza della sua città, che non sa opporsi alla politica espansionistica di Filippo II. Le cause della crisi sono molteplici, riconosce Demostene (Terza Filippica, 341 a. C.), ma la responsabilità principale è da attribuirsi “a coloro che preferiscono compiacere la gente piuttosto che fare le proposte migliori. Di questi, alcuni, o Ateniesi, sono impegnati solo a salvaguardare quello stato di cose che garantisce loro prestigio e potere e non si curano affatto delle conseguenze future”(n 2). Anche noi conosciamo politici che vendono sogni, promettendo riduzione delle tasse e creazione di nuovi posti di lavoro, e intanto consolidano il loro potere e i loro privilegi.

Il successo di questa classe politica, prosegue Demostene, è dovuto al fatto che è cambiata la mentalità dei cittadini: prima “tutti quanti avevano in odio quelli che prendevano denaro […], ed era pericolosissimo essere riconosciuti colpevoli di corruzione e severissime erano le pene con le quali si puniva questa colpa, senza indulgenza alcuna e senza remissione”(n 37). Ad Atene non si usavano mezzi termini: è necessario che chi corrompe o si lascia corrompere sia oggetto di ‘odio’, subisca una dura sanzione da parte dell’opinione pubblica. Solo questa condanna sociale, infatti, rende poi praticabile la repressione penale della corruzione.

Ora, invece, succede tutto il contrario: “L’invidia se qualcuno si lascia corrompere; il riso, se lo confessa; il perdono per chi è dimostrato colpevole; l’odio per chi lo rimprovera”(n 39). Sembra la puntuale descrizione dell’Italia di oggi: essere indagati o condannati è un titolo per fare carriera politica. Chi nega ogni addebito e resiste senza dare le dimissioni è ammirato e invidiato, mentre chi confessa e si ritira dalla scena pubblica viene deriso ed emarginato. I mezzi d’informazione giustificano in tutti i modi anche chi è preso con le mani nel sacco, mentre i magistrati che esercitano il controllo di legalità sono costantemente attaccati e diffamati.

Se questo è diventato il senso comune, si capisce che faranno carriera non uomini interessati al bene della collettività ma i peggiori tra i cittadini: “uomini prezzolati” che si distinguono“per le villanie di cui sono capaci, o per le loro parole di astio o di scherno”(n 54). E non abbiamo fatto esperienza dell’incultura, della volgarità di parole e di gesti, di uno stile di vita a dir poco indecente del nostro ceto politico?

Per Demostene, tuttavia, il cambiamento è possibile, ma a una condizione: che ogni cittadino faccia la propria parte e si assuma le sue responsabilità: “Se invece ciascuno se ne starà inerte a perseguire quello che desidera e a cercare il modo di non fare nulla personalmente, in primo luogo non è immaginabile che possa trovare mai chi lo farà”(n 75).Certamente nulla può cambiare se ciascuno si occupa solo dei propri affari, perché tanto le cose sono andate sempre così, perché noi italiani siamo fatti in questo modo, perché in fondo tutti rubano, perché è meglio aspettare che sia qualcun altro a prendere l’iniziativa, perché i pochi idealisti alla fine saranno sconfitti, perché il nuovo che non si conosce può essere peggio del vecchio conosciuto…

Forse però oggi la misura è colma e non è più rinviabile un moto di rivolta morale. Basta col disfacimento delle istituzioni repubblicane: è ora che i cittadini italiani prendano l’iniziativa senza attendere stimoli che vengono dall’alto. E da chi poi dovrebbero venire?

Inutile contare sulla gerarchia ecclesiastica, che si attribuisce il ruolo di guida morale del Paese ma che sembra non veder nulla sino a che non scoppia lo scandalo. Il cardinale Bagnasco, per esempio, aprendo il 24 settembre i lavori del Consiglio permanente della Cei, ha osservato: “Che l’immoralità e il malaffare siano al centro come in periferia non è una consolazione, ma un motivo di rafforzata indignazione, che la classe politica continua a sottovalutare”.Ma non sono anche i vescovi che commettono l’errore di ‘sottovalutare’, soprattutto quando nel malaffare sono implicati politici e faccendieri ‘cattolici’ da cui non prendono mai le distanze, compromettendo così la loro già scarsa credibilità?

E il Presidente della Repubblica, il quale è il custode della nostra Costituzione, che esige che “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”(art. 54)? Tutti sappiamo che spesso ciò non accade, ma il capo dello Stato, inaugurando il 25 settembre il nuovo anno scolastico, mostrava una certa sorpresa di fronte al precipitare della situazione:“Troppi vergognosi fenomeni di corruzione”. E per accorgersene erano necessari gli ultimi interventi della magistratura?

Poiché è impensabile che un ceto politico tanto squalificato possa autoriformarsi, spetta ai cittadini il compito di preparare una nuova classe dirigente che operi secondo i principi della Costituzione.