Se nulla può essere nascosto al profitto

Stefano Rodotà
Repubblica, 4 ottobre 2012

Insieme a molte altre garanzie, anche la tutela della privacy si sta avviando verso un mesto tramonto? Non penso alle ricorrenti certificazioni della “morte della privacy” che accompagnano quasi tutte le innovazioni tecnologiche. Mi riferisco, più concretamente, a quel che sta accadendo in Italia da qualche anno, con continue erosioni della legge sulla protezione dei dati personali, che l’hanno già svuotata di significativi contenuti. Ora questa deriva rischia di subire una violenta, e distruttiva, accelerazione con l’annuncio dell’approvazione da parte del Governo di una nuova norma che, in sostanza, esonererebbe gli imprenditori proprio dall’obbligo di rispettare aspetti essenziali della legge sulla privacy.

E allora, prima di tutto, bisogna rivolgere ad un legislatore così sbrigativo e improvvido alcune semplici domande.
Sa che l’articolo 8 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che ha lo stesso valore dei trattati e quindi è giuridicamente vincolante, considera la tutela dei dati personali appunto come un diritto fondamentale? Sa che norme come quella annunciata sono in contrasto con quanto è disposto dalla Direttiva 46 del 1995 dell’Unione europea? Sa che in ogni paese appena rispettoso dei diritti delle persone iniziative del genere sono sempre precedute da adeguate consultazioni e da discussioni pubbliche?

So bene che il desiderio mai nascosto del mondo imprenditoriale è sempre stato quello di liberarsi delle regole sulla privacy, ritenute un costo e un fastidio. Ma già la nostra Costituzione prevede che l’iniziativa economica privata non possa svolgersi in contrasto “con la sicurezza, la libertà e la dignità umana”, che sono poi i principi sui quali è fondata la tutela della privacy. Quella ostilità verso le regole è stata respinta per un lungo periodo, accompagnando tuttavia la ferma garanzia del diritto d’ogni persona con una forte eliminazione di inutili adempimenti burocratici. Ora, invece, sembra venuto il momento propizio a un assalto finale. L’imperativo economico, unica bussola riconosciuta in questo tempo confuso, sovrasta ogni altra considerazione, e quindi ogni riduzione di costi per l’impresa viene considerata legittima.

Si può ammettere che il mercato, suprema “legge naturale”, cancelli i diritti? Questa, in sintesi brutale, è la questione che abbiamo di fronte. Bisogna ricordare, allora, che la direttiva europea sui dati personali venne emanata proprio per trovare un giusto equilibrio tra l’interesse dell’impresa, libera ormai di stabilirsi in qualsiasi paese membro dell’Unione, e i diritti delle persone, i cui dati altrimenti avrebbero finito con il poter circolare nello spazio europeo privi di adeguate garanzie. Non a caso la competenza in materia di privacy è stata per lungo tempo attribuita al Commissario europeo per il Mercato interno. Si era consapevoli del fatto che l’Europa era pure terra di diritti, ed è stata questa consapevolezza che ha portato prima alla direttiva del 1995 e poi al riconoscimento della protezione dei dati come autonomo diritto fondamentale nella Carta dei diritti.

Non si può impunemente abbandonare questo cammino. Non solo perché si rischierebbe concretamente una procedura d’infrazione per violazione del diritto dell’Unione. Soprattutto perché non è mai segno di buona salute democratica considerare i diritti un lusso, si che essi potrebbero essere sospesi a piacimento di un legislatore. Insisto sulla dimensione europea perché svela la contraddizione, o l’insincerità, di chi invoca in ogni momento l’Europa e poi la dimentica proprio quando essa indica la via dei diritti. Una via che l’Unione continua a percorrere: basta dare una lettura veloce proprio al nuovo regolamento in materia di privacy attualmente in discussione.

Bisogna aggiungere che la consapevolezza dei problemi posti dall’attività delle imprese, quando trattano dati personali, si manifesta con nettezza anche al di là del perimetro europeo. Un solo esempio. Gli Stati Uniti hanno sempre manifestato una forte ostilità ad intervenire con legge in materie come questa, ritenendo che dovessero essere affidate piuttosto alle libere determinazioni dei privati. Oggi, però, il Congresso si sta occupando di un Social Networking Online Protection Act, che vieta alle imprese di accedere ai dati personali che i dipendenti o gli aspiranti all’assunzione abbiano posto su una rete sociale. Un limite netto, sanzionato severamente, che riflette i nuovi problemi posti dal passaggio al Web 2.0, appunto l’Internet delle reti sociali, che amplifica il potere delle imprese e che, di conseguenza, non può essere lasciato senza controllo. Invece, il legislatore italiano che cosa fa? Si rifugia in un’epoca non solo pre-direttiva europea, ma pretecnologica.

È troppo chiedere a un governo “tecnico”, che ha appena lanciato una consultazione pubblica sui principi fondamentali della rete, di fermarsi un momento, di non cambiare di soppiatto regole essenziali, di gettare uno sguardo sull’Europa e sul mondo, e di non dare il desolante spettacolo di arrendersi agli interessi economici, di contribuire al degrado culturale e civile che sempre accompagna l’abbandono della logica dei diritti?