I giudici e il Presidente

Nicola Tranfaglia
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E’ necessario, ancora una volta, essere molto chiari, a proposito del conflitto in corso tra il Capo dello Stato Giorgio Napolitano e la procura di Palermo che è sfociato qualche mese fa in un conflitto di attribuzioni davanti alla Corte Costituzionale e che il presidente ha presentato ieri sera presso Firenze, inaugurando un corso di formazione dei giovani magistrati.

Napolitano ha attaccato a fondo i magistrati che non hanno distrutto le telefonate scambiate con l’ex presidente del CSM e ministro degli Interni Nicola Mancino che si era rivolto a Loris D’Ambrosio, consigliere del Capo dello Stato per la giustizia, morto per infarto il 26 luglio 2011 e allo stesso presidente di fronte all’eventualità di essere indagato a Palermo per le stragi del 92-93 che colpirono, con le loro due scorte, i giudici Falcone e Borsellino.

Ha detto che bisogna archiviare, ad ogni costo, concezioni che raffigurano politica e giustizia come due “mondi ostili guidati dal reciproco sospetto”, ha negato che i pareri del CSM possano configurarsi come un sindacato preventivo di costituzionalità delle leggi, ha sottolineato che le sentenze non devono mai ospitare valutazioni estranee ai fatti processuali. Ed ha criticato l’esposizione mediatica di alcuni magistrati, i contenuti impropri di alcuni discorsi e anche l’inopportunità (per non dir altro)di carriere politiche inaugurate nel medesimo distretto nel quale un’ora prima il candidato indossava la toga.

Dallo scambio di lettere tra Napolitano e il consigliere D’Ambrosio emerge che quest’ultimo afferma di non aver mai esercitato pressioni sui magistrati che indagano sulle stragi del 92-93 ed avanza alcune riserve per così dire “tecniche” sulle inchieste riguardo alle prove di complicità da parte di politici o di estranei all’ordine giudiziario.

Reagisce con durezza alla campagna di stampa che i giornali di opposizione al governo Monti hanno orchestrato (da Il Fatto quotidiano a Libero, al Tempo e al Giornale di Sallusti ) e riafferma che il suo obiettivo di fondo è quello di tutelare il Quirinale da una campagna livida e impietosa.

Come si fa a respingere il monito severo e, nello stesso tempo chiaro e ragionevole, del Capo dello Stato di fronte alle polemiche che hanno percorso gli ultimi mesi e che ancora oggi anche nella sede della commissione Antimafia in carica non accennano a spegnersi?

Saremmo noi gli ultimi a farlo conoscendo da molti anni personalmente il Presidente, avendo condiviso con lui un lavoro politico prima nel vecchio partito comunista italiano e quindi nel partito democratico. Siamo d’accordo e non da oggi sulle sue considerazioni che attengono alla necessità di tenere il Quirinale fuori dalle polemiche e di rispettare la magistratura inquirente e giudicante che deve, a sua volta, attenersi alla costituzione e alle leggi che la riguardano, come d’altra parte fecero fino al sacrificio della propria vita non soltanto Falcone e Borsellino ma anche i giudici Livatino, Saitta e molti altri nella loro lotta accanita contro la mafia.

Il problema, tuttavia, la necessità ineluttabile di perseguire la verità che i giudici devono seguire nella ricerca degli autori materiali e dei mandanti delle stragi: una ricerca ancora in corso dopo più di vent’anni e che non per volontà dei giudici ma per le circostanze effettive incontra personaggi come quelli oggi all’attenzione degli inquirenti, politici, ex ministri e anche titolari di cariche di altissimo prestigio come quella di vicepresidente del Consiglio Superiore della magistratura.

Il fatto è, come il presidente Napolitano sa bene, che non esistono persone nel nostro ordinamento che sono fuori della legge a cominciare da lui stesso e su questo i costituzionalisti non hanno nessun dubbio. Il problema è quello di rispettare forme e sostanza della Carta e delle leggi e a me non pare che questo rispetto finora sia mancato.

E allora si tratta di aspettare che il processo vada avanti, che le procedure siano rispettate e che si vedano prove e testimo nianze portate dalle parti contrapposte per arrivare alla verità.
E’ questo l’atteggiamento che-io credo- dobbiamo tenere in un paese democratico con la fiducia necessaria nei giudici giudicanti come in quelli che hanno portato avanti finora l’istruttoria.

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Napolitano, ora basta!

Saverio Lodato
AntimafiaDuemila

C’è un’enfasi quirinalizia, in questa ennesima puntata dell’affaire del conflitto d’attribuzione dei poteri, che lascia perplessi. Il capo dello Stato non perde occasione per definirsi il bersaglio di una dura campagna contro di lui. Non fa mistero di indicare in “magistrati, giornalisti e politici” i sapienti tessitori di una trama di denigrazione, calunnie e insinuazioni sospettose a danno della sua persona e dell’incarico istituzionale che si trova ad occupare. Che lo pensi, non è una novità. Sin dal momento in cui trapelò la notizia dell’esistenza di colloqui telefonici fra lui e il cittadino Mancino Nicola – prima indagato e poi imputato dalla Procura di Palermo per falsa testimonianza nell’ambito della trattativa Stato-mafia – il capo dello Stato scelse quella strada. Disse quello che pensava. E continua a pensarla allo stesso modo.

Assolutamente superfluo ribadire che è suo pieno diritto pensarla come vuole.

La sintesi del suo pensiero sull’intera vicenda, d’altra parte, ormai è agli atti. E, fra l’altro, è alla base della decisione fragorosa di sollevare conflitto di attribuzione dei poteri di fronte all’Alta Corte a riprova dell’illiceità – da lui asseverata – dei comportamenti dei pubblici ministeri palermitani.

Però, verrebbe da dire che a tutto, anche agli affari di Stato, dovrebbe esserci un limite.

Siamo alla vigilia di quel verdetto della Corte Costituzionale tanto auspicato dal Capo dello Stato e dai giuristi a lui vicini, e invocato come taumaturgico. Siamo alla vigilia dell’inizio, a Palermo, del dibattimento di fronte al gup dal quale scaturirà il destino dell’inchiesta sulla trattativa. Siamo alla vigilia del trasferimento in Guatemala del procuratore Antonio Ingroia indicato, da più parti, come la <> che avrebbe derazzato dal bon ton istituzionale. Siamo, in altre parole, al rush finale.

Ora, mentre nessuno se lo aspettava, ed esclusivamente per unilaterale decisione del capo dello Stato, la temperatura è tornata a surriscaldarsi. Il capo dello Stato, in occasione della pubblicazione di un suo libro, ha infatti reso pubblico il carteggio fra lui e il consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio, alla vigilia della scomparsa di quest’ultimo. Opera meritevole, trattandosi della divulgazione di atti che male avrebbero fatto a restare segreti.

Le lettere, basta leggerle, come vale per qualsiasi carteggio. Ma accompagnarle, come è avvenuto in questo caso, ancora una volta con la colonna sonora della voce del Quirinale che torna a denunciare l’esistenza di un complotto ai suoi danni, rientra, a nostro giudizio, in quell’enfasi quirinalizia di cui dicevamo all’inizio e che a lungo andare rischia di produrre un involontario rumore sinistro.
Siamo tutti uomini, capi dello Stato compresi. E per ciò fu legittimo lo sdegno di Napolitano alla notizia della morte improvvisa di Loris D’Ambrosio. Le sue parole di condanna, rivolte a chi, a suo giudizio, aveva provocato la morte del consigliere, nonché amico, furono umanamente comprensibili. Anche se incondivisibili, perché fuori dalle righe e inopportune nel contesto di dolore di una tragedia innanzitutto privata.

Prova ne sia che quelle parole indussero Giuliano Ferrara ad indicare in televisione, di fronte a milioni di spettatori, proprio in Antonio Ingroia il principale assassino dello stesso D’Ambrosio.

Non si levò una mosca (meno che mai dall’alto delle istituzioni) a condanna del macabro sproloquio dell’opinionista Ferrara.
In altre parole, il nostro Capo dello Stato, che conosce bene il paese in cui ci troviamo tutti a vivere, non dovrebbe mai dimenticare che le cose si dicono una volta sola e che le cause – quando sono delle buone cause – si difendono da sole.