Come gestire (efficacemente) le emergenze

Massimiliano Boschi
www.micromega.net

Dai terremoti dell’Aquila e dell’Emilia all’uragano Katrina, la gestione delle emergenze ci insegna una sola cosa: che l’unico modo per affrontarle in maniera efficace è centralizzare il meno possibile e delegare le decisioni sul territorio. Esattamente il contrario di quel che è stato fatto.

“Ci sono molte cause, ma anche il territorio ha le sue responsabilità. Io ho visto un territorio, quello emiliano, molto diverso dalla mia esperienza aquilana. È sempre facile dare le responsabilità ad altri, a chi sta fuori. C’è in alcune comunità un attivismo, una voglia di fare, che sono insiti. La differenza, storicamente, in Italia non la fa la quantità di denaro destinato agli aiuti, ma la capacità di progettualità di ogni singolo territorio”. “E gli emiliani hanno reagito meglio”.

Queste parole del capo della protezione civile Franco Gabrielli hanno innescato un inevitabile vespaio. Tutti a discutere se gli emiliani siano più reattivi degli abruzzesi, mentre bisognerebbe concentrarsi sulla frase “è sempre facile dare la responsabilità ad altri, a chi sta fuori”. Perché esiste un metodo infallibile per evitare che le colpe vengano date a chi sta fuori: responsabilizzare chi opera sul territorio. Tanto che ha avuto gioco facile il sindaco dell’Aquila a ricordare che la Protezione civile ha avuto il potere assoluto sulla gestione del post terremoto, che poi è passata al commissario, mentre qualcun altro, come l’ex premier, usava il terremoto a scopi di propaganda, in occasione del G8 e del proprio compleanno.

Di fronte al rischio le autorità tendono quasi sempre a centralizzare decisioni e scelte con effetti spesso nefasti. I soccorsi per le persone colpite dall’uragano Kathrina in Lousiana, per esempio, furono centralizzati e disastrosi. Atul Gawande, nel suo “Checklist” (Einaudi) li definisce “una combinazione di anarchia e di burocrazia orwelliana, con conseguenze di un’assurdità rivoltante”. Da noi capita anche con le situazioni “ordinarie” ma Gawande precisa che il problema principale fu “l’incapacità di capire che di fronte ad un’emergenza straordinariamente complessa diventava necessario delegare quanto più possibile il potere decisionale”, per dare ai singoli la libertà di agire sulla base delle loro esperienze e competenze, chiedendo soltanto che si parlino tra loro e che si assumano le responsabilità. Chi prende il potere di decisione se ne deve anche assumere la responsabilità, non è complicato da capire.

Tornando a noi, in Emilia le cose sono andate un po’ meglio che a L’Aquila, ma anche lì non sono mancate lamentele e proteste. Le tendopoli sono state chiuse a cinque mesi dal sisma e ottocento persone saranno trasferite negli alberghi. La lentezza della macchina burocratica sembra essere ancora il problema principale. Troppo lontano il potere decisionale, troppo farraginosa l’organizzazione per la ricostruzione, leggi inadeguate etc, etc.

Da questo punto di vista, forse è utile ricordare un episodio del passato. Sempre in Emilia, a Bologna, il 2 agosto del 1980, un attentato terroristico uccise 85 persone e ne ferì 200. Un’intera ala della stazione ferroviaria crollò a causa dell’esplosione e l’intero edificio risultò gravemente danneggiato. Certo, si trattò di un contesto molto più ristretto di quello di un sisma, ma la rapidità dei soccorsi venne elogiata e indicata ad esempio. Ai tempi non esisteva la Protezione civile ma, come ha ricordato Renato Zangheri, allora sindaco di Bologna, per altro in vacanza al momento dell’esplosione: “La città si era levata in un moto spontaneo di soccorso e si era organizzata per le necessità del caso. Il piano dei soccorsi immediati, che fu unanimemente giudicato molto efficace, non esisteva. Un governo del Nord Europa ci richiese questo piano perché lo aveva trovato straordinariamente efficiente, ma ripeto non c’era. Ci limitammo a fare un lavoro di coordinamento”.