Il male oscuro di un’economia malata di A.Antonelli

Aldo Antonelli

Gli scandali a catena di senatori e deputati, consiglieri regionali e amministratori comunali, i lauti compensi, i vergognosi vitalizi, le rapine e le indebite appropriazioni da una parte e, dall’altra, i tagli allo stato sociale, il blocco dei salari, i licenziamenti, il salasso alle scuole e al sistema sanitario corrono il rischio di occupare la prima scena del dibattito pubblico, così come da tempo occupano le prime pagine dei giornali e dei settimanali, mettendo in ombra il male oscuro di un’economia liberista, liberalizzata e globalizzata, sottratta ad ogni pur minimo controllo della politica e delle istituzioni democratiche. «I make money by money» (faccio i soldi con i soldi) la risposta di Mickey Rourke a Kim Basinger in “Nove settimane e mezzo”, film simbolo degli anni Ottanta, potrebbe essere l’epitaffio sulla tomba dell’economia reale, negli anni che corrono. Si è come davanti ad un malato terminale. Ci si preoccupa degli effetti diretti e collaterali sull’organismo, dimenticando il tumore che lo devasta. Ci si perde in una ricerca disperata di una qualsiasi cura, ci si affida ad impossibili prognosi, mai elaborando diagnosi appropriate che identifichino la malattia. Da tempo gli analisti più acuti e gli osservatori più attenti hanno lanciato il loro grido d’allarme, inascoltati dai più e tacitati dalla propaganda spocchiosa delle destre all’insegna del detto “Più Mercato e meno Stato”.

Qualche citazione, del passato e del presente. Henry Ford: «È un bene che il popolo non comprenda il funzionamento del nostro sistema bancario e monetario, perché se accadesse credo che scoppierebbe una rivoluzione prima di domani mattina». Eduardo Galeano: «L’economia mondiale è la più efficiente espressione del crimine organizzato. Gli organismi internazionali che controllano valute, mercati e credito praticano il terrorismo internazionale contro i Paesi poveri e contro i poveri di tutti i Paesi con tale gelida professionalità da far arrossire il più esperto dei bombaroli». Federico Caffè: «Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica con le caratteristiche che presenta nei Paesi capitalisticamente avanzati favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio, che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori in un quadro istituzionale che di fatto consente e legittima la ricorrente decurtazione e il pratico spossessamento dei loro peculi». Piero Bevilacqua: «L’economia ha cessato da tempo di essere una scienza sociale. Nelle sue espressioni dominanti è diventata una “tecnologia della crescita”. Una pura tecnica dell’andare avanti, dell’incremento senza sosta del Pil. E la tecnica – e qui ci permettiamo di riprendere e modificare Heidegger – “non pensa”… L’ossessione della crescita ha trasformato l’economia in un’ideologia del dominio, ispiratrice della cultura del breve termine, dei tempi sempre più accelerati del produrre, consumare, inquinare, vivere». E potremmo riempire pagine di citazioni e di denunce, potremmo stilare una bibliografia interminabile di studi e di ricerche sul nonsenso e sulla contraddittorietà di una economia, quella liberalcapitalista, tutta tesa a ingrassare se stessa, spremendo sangue anche dalle arance.

Le voci che con lucidità hanno studiato i totalitarismi del ‘900 (da Horkheimer ad Adorno, da Foucault ad Arendt e a Girard) ci hanno avvertito: il sistema organizzativo che più minaccia la libertà umana e la vita comune, quello più pericoloso per forza, capacità di sovranità e di ricatto, è il sistema economico.

Le crisi in cui versano i Paesi Occidentali, l’America del Nord, il Giappone e soprattutto l’Europa, avrebbero potuto costituire l’occasione per un ripensamento, per una messa in discussione dei presupposti di una economia di mercato che mercanteggia di tutto: merci e beni, diritti e ideali, prodotti e produttori; avrebbe potuto essere anche l’occasione per un’inversione di rotta, una sorta di seconda rivoluzione industriale che qualcuno ha perfino battezzato come post-economy.

E invece no! Abbiamo fatto come gli struzzi: abbiamo ficcato la testa sotto la sabbia pur di non vedere e continuare a tirare avanti come se nulla fosse. La nostra democrazia è una democrazia formattata secondo i canoni del pensiero liberista. Abbiamo la coscienza e persino la fantasia colonizzate dall’idea del libero mercato come presupposto primo della vera democrazia.

È ancora fresco di stampa il libro di Marco Revelli I demoni del potere in cui si descrive questa situazione di fascinazione accattivante, richiamando i due miti fondativi di questa nuova schiavitù, quello di Medusa, poi sconfitta da Perseo, e quello delle Sirene, ingannate da Ulisse… Sia il volto accecante della Gorgone, sia il corpo ammaliante delle Sirene costituiscono una rappresentazione icastica dei demoni che non soltanto bussano alla nostra porta, ma nascono dentro di noi, come l’ombra lunga che sottende la nostra esperienza quotidiana. «Entrambe situate sul confine tra uomo e animale, entrambe simboli di un potere che schiaccia gli esseri umani sulla dimensione della cosa, la Medusa e le Sirene differiscono per lo strumento omicida che usano – lo sguardo la prima e la voce le seconde. Se la Medusa pietrifica chi la guarda, proiettando sul suo viso l’immobilità della propria maschera, le Sirene prosciugano la soggettività di chi le ascolta, dissolvendola nel loro canto di morte. Eppure, in questa simmetria, già traspare una prima, significativa, differenza. Piuttosto che la violenza bruta della Gorgone, le Sirene esercitano un potere più sottile e seducente. Esse non pongono direttamente le mani insanguinate sulla vittima, ma la attirano da lontano nel gorgo», ha scritto Roberto Esposito (la Repubblica, 5/10/2012).

Ebbene, la cura Monti, per l’Italia, si inserisce a questo punto.

Depurata la politica dai liquami limacciosi del berlusconismo sfacciato, restaurata l’immagine di una presentabilità in doppio petto, si pretende di curare la malattia con gli stessi veleni che l’hanno causata, confermando comunque tutti i presupposti dell’economia liberista, mitigandone magari gli eccessi ma, soprattutto, scaricandone le contraddizioni sulle spalle già duramente provate dei ceti meno abbienti.

Il sistema dei mercati, denuncia Roberto Mancini, con la finanza speculativa che domina incontrastata, si sta mangiando vive l’umanità e la natura. Eppure, in questa emergenza disastrosa governi, istituzioni, stampa e opinion-leader «continuano a pretendere che si faccia qualunque sacrificio per accontentare l’infinita avidità dei mercati».

Ciò che stiamo vivendo in Italia con Monti e ciò che stanno vivendo i Paesi più indebitati dell’eurozona ricalca alla perfezione ciò che hanno vissuto, nel corso dell’800 e del ‘900, decine di Paesi del Secondo e Terzo mondo, con il Fmi al posto del “Fondo salva Stati”, la Banca mondiale al posto di quella europea e il governo statunitense al posto dell’Unione europea. Tutti Paesi che, di fronte ad un debito pubblico sempre più grande e col rischio dell’insolvenza, si affidavano a strutture finanziarie sovranazionali che ne determinavano le riforme, ne garantivano la solvibilità e ne indirizzavano le politiche economico-sociali, privati del loro potere politico di indirizzo economico. Paesi posti sotto sequestro, in nome di uno sviluppo senza più futuro.

Non solo. Assistiamo anche ad un sadico accanimento tartassando i già tassati, infierendo sui già feriti, prelevando sangue agli anemici e lasciando immuni i grandi patrimoni, le transazioni finanziarie e gli evasori di ogni risma. Con il plauso gongolante delle destre ed il silenzio mugugnante della sinistra, Monti sta lentamente ma inesorabilmente trasformando l’Italia in un Paese da Terzo mondo, cancellando la media, arricchendo i sempre più ricchi e impoverendo i sempre più poveri. Nel suo giuramento davanti al presidente della Repubblica, Mario Monti si era impegnato per un programma di «rigore» e di «equità». Noi finora abbiamo visto il rigore ma non l’equità. La storiella del debito, dunque, è abbastanza vecchia da poter essere presa a modello per le nostre soluzioni. Forse pensava all’Italia Habermas, quando il 5 settembre scorso, davanti ai dirigenti del partito socialdemocratico tedesco, ebbe a denunciare: «I piani di austerità delineano, ovunque, un percorso post-democratico»?

Ciò di cui c’è bisogno, allora, è un altro modello economico, desiderabile più che auspicabile. È, per dirla con le parole di Paolo Cacciari, «quello della “sufficienza”, della cura dei beni comuni, della fruizione e non del consumo dissipativo, della cooperazione reciproca e non della competizione distruttiva, della sostenibilità e della solidarietà sociale».

Come cristiani, poi, sentinelle vigili a scrutare l’orizzonte, non possiamo non sognare, come don Gianni Fazzini, che su Mosaico di pace scriveva: «Una nuova visione del mondo, una nuova narrazione si affaccia alla ribalta: nuovi stili di vita vengono alla luce e sembrano essere tutti caratterizzati dalla esigenza di rimettere dentro gli argini il ruolo dell’economia e del denaro nella vita delle persone, per restituire dignità e tempo alle altre dimensioni, a ciò che ci fa stare meglio, a ciò che davvero molti stanno riscoprendo di desiderare; le caratteristiche della post-economy sono quelle di un’economia a cui è stato tolto il piedistallo. Con la dimensione economica le persone vogliono continuare a dialogare, ma non più con l’aria sottomessa ed ebete con la quale sono stati costretti a rapportarsi in questi ultimi venti anni. La post-economy è l’economia del ritorno alla lucidità e razionalità dopo la sbronza della global economy».

* Parroco ad Antrosano (Aq)