Il Regno di Dio è vicino di Il Vangelo che abbiamo ricevuto

Adista n. 38 del 27/10/2012

Breve rassegna di alcuni interventi proposti dal collegamento “Il Vangelo che abbiamo ricevuto”, in vista del prossimo incontro annuale, che si terrà a Brescia il 27-28 ottobre 2012, sul tema: “Il Regno di Dio è vicino” (www.statusecclesiae.net).

 

Il Regno di Dio e i regni degli esseri umani

Enrico Peyretti

In una rapida ricerca, forse incompleta, sull’espressione “Regno di Dio” nei Vangeli, vediamo che è predicato (4 volte); è un Vangelo, cioè un lieto annuncio (3 volte); è vicino (3 volte); è venuto (2 volte); è annunciato (2 volte); guarisce (2 volte); e poi (una volta ciascuna di queste seguenti espressioni) è invocato, è vostro, è già tra voi, non è ancora venuto, Gesù va in questo Regno, non è come il mondo. Una volta l’Apocalisse dice che è instaurato.

Questo Regno c’è già e non c’è ancora del tutto. È vicino ed è invocato. Si vede e non si vede. Non è un gioco a nascondino: è come la vita, il movimento, la crescita, la rivelazione, la nuova luce dell’alba. Se provi a dirlo, a indicarlo, ti sfugge. Se credi di dimenticarlo, ti appare. Ma in questo convegno di Brescia, promosso dal collegamento “Il Vangelo che abbiamo ricevuto”, vorremo pensare soprattutto su quella affermazione consolante e incoraggiante: il Regno di Dio è vicino. Che cosa significa per noi?

Non inganni noi postmoderni la parola Regno come forma politica e rapporto di potere assoluto alto-basso. Sarebbe uno stupido malinteso. Regno di Dio non vuol dire monarchia del tipo vigente ai tempi di Gesù. Egli usa la parola Regno come paragone con una realtà sostanzialmente diversa: sembra che usi un’immagine rovesciata, un negativo fotografico, per dire una umanità secondo il sogno di Dio, un modo di vivere delineato in Lc 22,25-30 proprio a confronto dei regni politici.

Ai discepoli che litigano per fare carriera nel regno come essi lo immaginano, Gesù chiarisce le idee con una chiara antitesi: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele».

Il Regno inaugurato da Gesù è tutt’altra cosa dai regni politici prevalenti nella storia umana, che sono il dominio dei prepotenti sui popoli e la pretesa di essere anche ringraziati e glorificati. Invece, con Gesù, chi governa serve. Gesù che è il maggiore è colui che serve. Sarà con lui in quel Regno chi ha perseverato con lui nelle sue prove, che non sono imprese di re guerrieri e potenti, ma la passione di un escluso, condannato, torturato e ucciso dai potenti. Il Regno che prepara per loro, che il Padre ha preparato per lui, è un mondo diverso e una vita giusta e vera, in cui si vive in comunione con lui (mangiare e bere alla sua mensa): è la nuova umanità liberata dal dominio dei re. Allora i cittadini di questo regno-repubblica avranno anche la capacità superiore di vedere la verità – giudicare, discernere, non è detto che sia condannare – sui popoli e sulla storia, sui segni dei tempi.

Le «chiavi del Regno dei cieli» promesse a Pietro (Mt 16,19) nella sua speciale missione di unità non possono essere nulla di simile al governo dei re delle nazioni. Anche per Pietro vale, e più che mai, il «tra voi non è così».

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La necessità della parresìa evangelica

Gruppo biblico della CdB di S. Paolo (Roma)

 

Abbiamo ricevuto con piacere l’annuncio di un nuovo incontro, a Brescia, sulle tematiche che da sempre lo caratterizzano e nelle quali ci sentiamo coinvolti. È come un ritrovarsi tra amici e amiche che perseguono, sia pure per strade a volte diverse, la stessa meta e si narrano delle esperienze fatte e degli eventi sopravvenuti. Accogliamo quindi volentieri l’invito a contribuire alla sua preparazione con qualche nostra riflessione.

Condividiamo pienamente lo spirito e le motivazioni della Lettera annuncio, e se qualche osservazione facciamo è nell’intento di potenziare taluni significati che a noi sembrano in essa impliciti ed iniziare un approfondimento che naturalmente potrà svilupparsi pienamente solo a Brescia e dopo aver ascoltato tutte le voci che vorranno intervenire in merito.

È chiaro, ad esempio, a un sempre maggior numero di persone, che si è passati, come dice la lettera, «da una Chiesa preoccupata soprattutto di ascoltare (quella che programmaticamente era uscita dal Concilio) ad una Chiesa che solo parla». Va de plano aggiungere che questo parlare è quasi solo per dire no, per contrastare, sopprimere ed emarginare le voci preoccupate di questa deriva, oppure si esprime in modo troppo generico e debole, senza far seguire fatti concreti ed esemplari quali sarebbero necessari in una situazione di degrado sociale nella quale ci troviamo. Il rapporto tra Vangelo, povertà e potere è un problema che ha sempre travagliato la Chiesa e del quale bisognerà ancora discutere.

È anche vero che «si assiste attualmente al parcellizzarsi delle esperienze di prassi di fede: una somma di solitudini (simili o “gruppi di simili”) a loro volta generative di paure e chiusure da cui sovente rifluisce un’aggressività di linguaggio». Ma, se da un lato dobbiamo con soddisfazione rilevare anche che questi gruppi e persone critiche sono in continuo aumento e fermento, molto più di quanto appaia dai mezzi di comunicazione di massa, distratti o complici della strategia del silenzio, dall’altro dobbiamo confessare una certa nostra inerzia a costituirci in “rete”, come pure si auspica che avvenga nella parte finale della lettera. E bisognerà indagare le cause di questa riluttanza. Farsi “rete” non significa naturalmente con-fondersi, ma agire insieme, quando occorre, per importanti eventi o progetti comuni, come ad esempio è stato l’incontro, a 50 anni dall’apertura del Concilio, dello scorso 15 settembre a Roma [v. Adista Notizie n. 34/12 e Adista Documenti n. 27/12].

Cosa vuol dire «essere accettati nel cammino che andiamo dipanando»? Essere accettati da chi? Di chi è la responsabilità della evidente latitanza dai nostri incontri e convegni non solo dei vescovi, ma anche di ogni persona che nella Chiesa ricopra un incarico ufficiale (parroci, superiori religiosi ecc., a meno che non vengano in incognito) anche solo per criticare? Cosa dobbiamo fare? Attenuare il linguaggio? Astenerci da quelle iniziative alle quali aderisca, tra i tanti, anche uno solo dei gruppi o associazioni iscritti tra i “cattivi”? Ma allora dov’è il pluralismo? Dov’è la “franchezza”, quella parresìa che una volta era una virtù, anzi un modo imprescindibile per annunciare il Vangelo? Certo, il “raccolto è a lungo termine” e non bisogna avere impazienze. Ma fino a quando, chiedendo pane, continueremo, secondo un’efficace espressione usata da Marinella Perroni, a ricevere pietre tacendo? Certo, sappiamo che «il Regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce, come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,26). Ma l’essere umano dovrà pure aver arato la terra, e seminato, e concimato. Quindi la vita non è solo un fatale attendere, bensì un impegno quotidiano senza pretese di immediato successo, ma nutrito di speranze. Per questo l’invito, contenuto nella chiusura della lettera, «a porci interrogativi piuttosto che tentare risposte» ci pare che sia condivisibile se con la parola «risposta» intendiamo posizioni di rigidità contrapposte ad altre rigidità che critichiamo, ma non nel senso che dobbiamo rinunciare alle nostre esperienze e a proclamarle, pur nella loro precarietà e parzialità.

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La Chiesa non è il Regno di Dio

Consiglio direttivo dell’associazione “I Viandanti”
Nel confrontarci sul tema di questo appuntamento è emersa la necessità di distinguere tra Chiesa e Regno di Dio. Un equivoco ricorrente, che finisce con l’anteporre l’istituzione alle persone e al Vangelo stesso, con tutte le conseguenze che si possono immaginare in termini di connubio e compromesso con Cesare.

A proposito del Regno, risuona ancora valido quanto scriveva Luigi Rosadoni, sottolineando che esso non è affatto la Chiesa. Nel Nuovo Testamento, l’uno non è uguale all’altro; è anzi molto più ampio. «Il regno di Dio – ha scritto Rosadoni – è dunque la totalità di ciò che esiste, la Chiesa invece solo la piccola assemblea dei discepoli di Gesù; tutt’al più l’inizio e l’anticipazione del Regno come nel suo evangelo sottolinea Luca: “Non temere, piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre vostro di dare a voi il regno” (Lc 12,32). È il gruppo di seguaci che si è venuto a costituire attorno a Gesù di coloro che ne hanno ascoltato la chiamata che gli veniva esplicitamente rivolta».

La Chiesa è in funzione del Regno, e non viceversa. Rendersene conto è un antidoto alla tentazione di emergere e di contare, di porsi come setta o gruppo autoreferenziale. Annunciare il Regno significa affermare il primato della fede, non di se stessi. Vuol dire, proprio a partire dalla Chiesa degli apostoli, annunciare il dono di una comunione nuova, al proprio interno e con gli altri, che è resa possibile per grazia di Dio dal dono dello Spirito. La Chiesa si riscopre così come “comunità alternativa” nel senso dell’Evangelo, alternativa alle organizzazioni votate al profitto, alle lobby, ai partiti che finiscono con il cercare la propria affermazione.

La Chiesa come comunità alternativa instaura una rete di relazioni evangeliche, ponendosi come «città sul monte», «sale della terra», «lucerna sul lucerniere» (cfr. Mt 5,13-16). Leggiamo nella lettera pastorale del 1995 di Carlo Maria Martini: «Anche con tutti i suoi peccati la comunità alternativa rimane un ideale di fraternità in divenire, destinato a mostrare a una società frammentata e divisa che possono esistere legami gratuiti e sinceri, che non ci sono solo rapporti di convenienza o di interesse, che il primato di Dio significa anche l’emergere di ciò che di meglio c’è nel cuore dell’uomo e della società».

Resta indispensabile la lettura dei “segni dei tempi”, per saper distinguere il “già”, così come il “non ancora”. Come Chiesa non ne siamo esentati, non siamo degli arrivati che osservano e giudicano il cammino altrui da una posizione privilegiata. Le esigenze del regno ci riguardano in pieno.

Dentro la Chiesa e al di fuori possiamo riconoscere tendenze contrastanti. Nella comunità cristiana è cresciuta l’attenzione per la Parola di Dio, c’è una maggiore ricerca di esperienze spiritualmente significative, ci sono laici formati e pronti a una vera corresponsabilità. D’altra parte ci sono anche spinte clericali e il freno posto alle istanze di rinnovamento. Nella società, ci sono contesti in cui è elevata la sensibilità per l’ambiente, per le persone svantaggiate e fragili, per la giustizia. Fanno da contraltare le spinte all’imbarbarimento della cultura, dei rapporti economici e di quelli sociali, per cui tanti si rifugiano in un tribalismo che riconosce solo i propri simili e vede i diversi come nemici. Siamo in mezzo a un guado, dove non sembra esserci uno sbocco univoco, anche se è diffuso il clima di angoscia per i “tempi difficili” che stiamo attraversando.

In uno scenario del genere, la comunità cristiana è chiamata a una revisione di vita che consenta di maturare parole e gesti profetici. È ciò di cui si sente maggiormente la mancanza. Si tratta di riconoscere il bene che c’è dovunque, cogliendo ciò che lo Spirito suscita al di fuori dei confini posti dagli esseri umani, senza però omologarsi a mode e mentalità estranee al Vangelo.

Nella confusione generale, non è facile riconoscere la strada giusta. Si rischia di rinchiudersi nel particolarismo delle proprie “isole felici” o di assecondare tentazioni identitarie e nostalgie di riconquista. Si può trovare una guida in queste parole di frère Roger, il fondatore di Taizé: «Senza fiducia siamo vivi a metà».

L’annuncio del Regno da parte di Gesù voleva suscitare fiducia e speranza. Vanno nella stessa direzione i messaggi e le scelte operative che alimentano la fiducia. In tutti, senza confini di appartenenze confessionali, etniche, nazionali o politiche. Annunciare il Regno significa annunciare fiducia per tutti – quale che sia la loro condizione, fosse anche la più misera – e agire di conseguenza.