La disoccupazione intellettuale

Paolo Bonetti
www.italialaica.it| 25.10.2012

Recentemente la ministra Elsa Fornero ha definito choosy, vale a dire schizzinosi, quei giovani italiani che rifiutano i lavori ritenuti non all’altezza della loro preparazione culturale e delle loro aspirazioni sociali.

A parte il termine inglese usato che a molti (compreso il sottoscritto) è apparso snobistico e poco chiaro, mentre sarebbe opportuno che i nostri uomini e donne di governo usassero sempre la lingua italiana quando si rivolgono a noi cittadini, si può subito osservare che i giovani italiani, in questi ultimi anni di grave crisi economica, si sono abituati ad accettare qualunque tipo di lavoro. Il guaio è che molto spesso il lavoro che viene offerto non può essere definito tale e non garantisce quel minimo di guadagno che possa consentire a un giovane di vivere una vita autonoma dai genitori e magari di formarsi una famiglia.

Si concludono gli studi, magari con tanto di laurea, e ci si trova di fronte a un lavoro precario e mal pagato, quando va bene, oppure a collaborazioni che, con la scusa dei famigerati stage o di altri strani contratti, si rivelano essere vere e proprie forme di sfruttamento. Ci saranno certamente anche i cosiddetti bamboccioni che preferiscono continuare a vivere fino a quarant’anni sotto l’ala protettiva della famiglia, ma per fare una scelta simile occorre avere una famiglia che sia in grado di provvedere anche al mantenimento dei figli adulti, mentre sono sempre più numerose quelle che stentano a tirare avanti con un unico salario o stipendio, per non parlare di quelle che il lavoro lo hanno perduto e il cui capofamiglia, arrivato ormai a una certa età, ha scarsissime probabilità di trovarne un altro.

Sulla questione mi è capitato di leggere le riflessioni di Andrea Bitetto postate sul blog che egli tiene regolarmente sul sito Linkiesta. Conosco personalmente Bitetto, un giovane avvocato liberal/liberista sempre molto coraggioso e chiaro nell’esprimere le sue opinioni anche quando vanno contro tutto ciò che viene dai più considerato “politicamente corretto”. E ho avuto modo di conoscere (e anche di esserne stato amico) il grande storico di Cavour Rosario Romeo morto ormai da venticinque anni, e che Bitetto cita a suffragio della sue affermazioni circa l’inadeguatezza della politica universitaria italiana da parte di tutti i governi che si sono succeduti in Italia fin dagli anni Settanta. Bitetto parte, nelle sue argomentazioni, da un recente dato Istat particolarmente preoccupante: ci sono oggi in Italia 304 mila laureati in cerca di occupazione, con un aumento del 41,4% su base annua. La crisi economica non spiega tutto, ci sono altre gravi cause che risalgono indietro nel tempo e rimandano a precise responsabilità politiche.

La domanda che già Romeo si poneva sul finire degli anni Settanta a proposito della contraddizione fra una sempre maggiore richiesta di specialisti con studi di livello universitario e la crescente (anche allora) disoccupazione intellettuale, viene riformulata da Bitetto e la risposta che egli si dà, in sintonia con quello che diceva a suo tempo Romeo, è che, negli anni del grande sviluppo industriale, troppo si è svalutato il lavoro manuale e troppo si è puntato sul famoso pezzo di carta, la laurea avente valore legale e tale da garantire un impiego sicuro e soddisfacente. Ora non c’è dubbio che, per far fronte alla disoccupazione intellettuale, occorre una forte ripresa dello sviluppo economico e che il sistema bancario, piuttosto che dedicarsi alla speculazione finanziaria, dovrebbe tornare a sostenere le imprese, specialmente quelle dei giovani che hanno idee e coraggio per attuarle; ma bisognerebbe valorizzare di più anche il lavoro artigianale, che è sempre stato un segno di eccellenza di molti prodotti italiani, e quello agricolo, che non è qualcosa di superato e poco dignitoso, ma costituisce ancora, se esercitato con spirito imprenditoriale moderno, un sano canale di sbocco per molte energie giovanili.

Bisognerebbe, però, accantonare il mito della laurea a ogni costo, il cui valore non dipende dalla votazione conseguita in università che, per attirare studenti e ricevere fondi ministeriali, concedono certi voti con troppa facilità; il valore consiste nella serietà degli studi compiuti a cui dovrebbe corrispondere un adeguato riconoscimento sociale, anche monetario. La crisi economica che ci attanaglia è dovuta anche a una mentalità deleteria che ha invaso molti settori della nostra vita sociale, ha contaminato le istituzioni, ha corrotto le stesse famiglie. Troppo spesso il lavoro serio, la preparazione accurata, il merito conquistato sul campo vengono scavalcati dalla raccomandazione politica, dalle amicizie familiari e dalle protezioni mafiose. È un sistema che favorisce chi è già un privilegiato, chi è destinato a cadere sempre in piedi e con tanto di paracadute garantito, mentre chi può vantare soltanto la serietà del suo lavoro e del suo impegno resta indietro e magari è costretto a cercare all’estero quei riconoscimenti che gli vengono negati in patria.

Uno dei massimi riferimenti dell’etica e della politica laica dovrebbe essere quel Giuseppe Mazzini di cui oggi si è perduta quasi la memoria. Nel paese dei Fiorito la sua etica del dovere appare come una cosa ridicola, la fisima di uno che non aveva capito come concretamente funziona il mondo. Eppure non basterà un nuovo sviluppo economico per ridare ai giovani quella fiducia nell’avvenire che stanno progressivamente perdendo; ci vuole anche un cambiamento di mentalità in tutti gli strati della società italiana. La Costituzione dice che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, il che vuol dire che ogni lavoro ha la stessa dignità sociale, ma anche che non possono essere messi sullo stesso piano coloro che lo vogliono fare seriamente (e magari non lo trovano) e quelli che, sbandierando un pezzo di carta a cui non corrispondono vere competenze, vanno, per complicità politiche o di altro genere, ad occupare posti che ad essi non spetterebbero.