Insegnamento della religione: tanto rumore per nulla? di E.Damiano

Elio Damiano *
www.viandanti.org

Settembre volgeva al termine quando il nostro ministro dell’istruzione, forse ignaro di quale tasto andava a toccare, partoriva l’idea di cambiare l’ora di religione nella nostra scuola divenuta multiculturale. Intimorito dalle reazioni, cercava di rimediare dichiarando nel giro di poche ore che non intendeva modificare alcuna norma o patto al riguardo. Oggi, poco più d’un mese dopo, l’eco s’è rarefatta, ma al tempo il chiasso è stato enorme. Ed è il caso di chiedersi se – shakespearianamente – tanto rumore sia stato sollevato per nulla…

Sale su una ferita aperta

La prima impressione è quella di una tragi-commedia già vista. Immediatamente, come in un simultaneo risveglio, si sono alzate le voci – tutte, nessuna esclusa – che avevano preceduto e accompagnato il patto craxiano sulla religione concordataria del 1984. Non certamente un coro, quello d’epoca come questo di primo autunno, ma grida appassionate di un alterco furioso che non riesce a sedarsi – nonostante vari tentativi. Un andante discontinuo, con i duellanti che ancora combattono – solo rinnovandolo con armi dialettiche – lo scontro intorno alla breccia di porta Pia. Il prof. Profumo, da ingegnere elettrotecnico di fama internazionale, è probabile che sappia poco di storia politico-religiosa italiana – colpa delle incestuose specializzazioni accademiche – e spinto dall’evidenza cromatica degli scolari immigrati ha spolverato del sale su una ferita nazionale mai cicatrizzata.

Il compromesso della religione confessional-scolastica

Non staremo qui a dar conto di tutte le tesi discordi che si contendono il campo: me la caverò dicendo, sommariamente, che coprono l’intera area delle soluzioni immaginabili, una ridda insieme creativa e incompossibile. Basterà tener presenti gli estremi: fra chi raffigura l’IRC, crocianamente, come la necessaria radice identitaria della cultura nazionale e chi la esclude dalla scuola come il focolaio delle intolleranze fra religioni monoteiste. Ovviamente si danno prese di posizione mediane ispirate dalla tolleranza, ma quanto a compromesso disponiamo della soluzione in vigore: una sorta di ossimoro all’italiana, che andiamo a richiamare pur esso schematicamente. Si tratta di insegnare, nei suoi aspetti oggettivabili – riferiti alla sua conoscenza – la religione: ma non in termini generici – come si può dire con il termine neutro di religiosità – bensì una confessione religiosa specifica – la cattolica: quindi così come tramandata e custodita dalla Chiesa; e tuttavia, secondo le finalità della scuola pubblica, governata dallo Stato italiano, che è costituzionalmente laico.

Il combinato delle tre categorie – oggettività, confessionalità, laicità – hanno rappresentato la consegna agli insegnanti incaricati di una missione, a dir poco, onerosa e dialettica: coniugare, rispettivamente, i valori della scienza, della religione ecclesiastica e della politica nella versione definita dalla Rivoluzione francese. In ogni caso, l’aspettativa era chiara: non si trattava di portare gli alunni a credere, diventando dei buoni cattolici, bensì – ed è tutt’altro – di far conoscere la religione cattolica. Il problema da risolvere si poteva formulare così: trasformare la catechesi di una confessione religiosa in una materia rigorosamente scolastica.

Una coppia mal assortita

Una bella impresa, una sorta di sesto grado pedagogico. Peraltro da realizzare in cordata comune, fra le due istituzioni interessate: Chiesa & Stato. La prima competente su un sapere da trasporre didatticamente, l’altro garante della sua finalizzazione scolastica. Una collaborazione che doveva riguardare, principalmente: (a) il curricolo; (b) la formazione degli insegnanti; (c) la produzione di strumenti didattici, in particolare i libri di testo; (d) l’assetto amministrativo, ovvero il tipo di offerta formativa, gli orari, lo stato giuridico degli insegnanti e così via.

La collaborazione si è ridotta però in una sorta di divisione dei compiti: mentre la Chiesa si occupava dei primi tre aspetti – diciamo il software del neo-insegnamento – lo Stato si è limitato a mettere dei paletti, peraltro non proprio perspicui, a cominciare dalla figura ibrida di una materia offerta a tutti, ma accessibile solo su richiesta (delle famiglie o degli studenti stessi, a seconda dell’età), esponendo così gli insegnanti ad una sorta di referendum annuale evidentemente destabilizzante per un ruolo d’autorità. Ma gli insegnanti sono stati anche all’incrocio di una loro peculiare ibridazione: formati in istituti di pertinenza ecclesiastica, reclutati dal vescovo secondo criteri dedotti dal diritto canonico, ma pagati dallo stato e, a séguito di un negoziato sofferto (e ovviamente contestato), associati ai ruoli dell’amministrazione scolastica. Aggiungete la precarietà di una disciplina scolastica senza valutazione, che più fragile non si può. Più altre amenità, come quella della cosiddetta ora alternativa per quanti non avessero optato per l’IRC, che nella stragrande maggioranza dei casi è stata solo immaginata – con una fantasia tutta italica – senza essere effettivamente disponibile se non come ora buca.

Una catechesi camuffata?

Al di là di tutti questi paradossi compromissori – che fanno pensare all’ornitorinco, l’uccello/mammifero prova dell’umorismo di Dio – il punto critico dell’IRC è costituito dal fatto che gli aspetti più propriamente didattici – programmi d’insegnamento, insegnanti, libri di testo – sono stati gestiti principalmente, se non esclusivamente, dalla Chiesa, fino al punto da confermare gli oppositori – i quali non avevano certamente bisogno di questa opportunità – nell’idea che si sia trattato di una concessione indebita alla CEI, da parte di uno Stato che ha abdicato alle norme da esso stesso stabilite, favorendo così la messa a regime di una catechesi nient’affatto scolastica.

Una denuncia di inadempienza colpevole, peraltro avvalorata dal fatto che lo Stato non ha eseguito alcuna valutazione dei risultati ottenuti con la soluzione adottata con l’IRC. Nemmeno in un contesto in cui la valutazione del rendimento scolastico sta diventando un affare di stato con i confronti internazionali in un mondo che – proprio attraverso una governance con le classifiche prodotte dalla valutazione – si vuole far diventare un unico totalitario laboratorio educativo. Iniziative di valutazione che non sono mancate, invece, da parte di istituzioni scientifiche di ispirazione religiosa come l’Università Pontificia Salesiana, quando non promosse direttamente dalla Conferenza Episcopale Italiana (si veda in proposito: A. Castagnaro, a cura di, Apprendere la religione. L’alfabetizzazione religiosa degli studenti che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica, EDB, Bologna 2005).

Una metamorfosi incompiuta

Così, a fronte di sospetti giustificati dal modo in cui i governi nazionali hanno gestito una materia incandescente, il dibattito innescato dall’uscita –più o meno di buon senso- del ministro Profumo ha visto sollevarsi lo scudo del quotidiano della CEI che ha attribuito all’esperienza dell’IRC di aver tenuto in vita l’anima dell’Italia, argomentando con l’alto numero di adesioni all’insegnamento da parte delle famiglie e dei giovani (anche di immigrati), e riaffermando il suo carattere non catechistico.

In realtà, i problemi non mancano, come per lealtà scientifica attestano le stesse indagini realizzate – per così dire – dall’interno, se già i titoli avvertono che siamo dinanzi ad una disciplina scolastica “incompiuta”. E non mancano, insieme ai meriti, di segnalarne i limiti, in fatto di alfabetizzazione religiosa e di approcci didattici. Per alcuni anni ho avuto anche l’opportunità di dirigere la prima rivista che si rivolgeva professionalmente agli insegnanti di religione, un osservatorio privilegiato per conoscere da presso quel mondo. Ebbene, i primi tentativi di mettere in piedi una religione scolastica non sempre trovavano corrispondenza nella formazione degli insegnanti in servizio, mentre i primi libri di testo – esaminati a fondo, anche attraverso tesi di laurea – mostravano caratteri inequivocabilmente catechetici (ne avremmo salvato, come correttamente ‘scolastico’, soltanto uno, confezionato da una associazione professionale d’orientamento cattolico, che giunse – pensate un po’, incredibilmente – a rimproverarci di aver messo in evidenza… l’anomalìa!).

Questioni di credibilità

Non so se la situazione è cambiata. Il fatto è che non lo sa nemmeno l’amministrazione scolastica. E presumibilmente nemmeno, o non del tutto, il Servizio Nazionale IRC della CEI. Perché anche le indagini realizzate – pur con rigore statistico e palese onestà d’intenti – sono segnate da non pochi limiti, peraltro riconosciuti dagli stessi ricercatori e dagli esperti chiamati a commentarle. Rivolgerò, perciò, l’attenzione al problema della credibilità, che nel caso di ricerche valutative, peraltro su questioni controverse come quelle svolte finora a riguardo dell’IRC, è difetto radicale. Non solo la committenza è di parte, ma la somministrazione è stata curata dai diretti interessati –gli insegnanti di religione- durante le ore di religione. E per quanto, almeno in un caso, siano state prese precauzioni utili a non rendere riconoscibile il materiale raccolto, bisogna tener presente quel che l’esperienza internazionale rivela sulla fenomenologia dei comportamenti degli insegnanti-rilevatori (e dei condizionamenti presso gli studenti) per evitare di essere ingenui. Ma è ancora un altro il punto critico, che tocca invece l’oggetto della ricerca: che consiste nella verifica della effettiva pratica, in aula, di un insegnamento della religione cattolica secondo le finalità della scuola. Cercando evidenze nella ecologia delle interazioni di aula; costituendo gruppi di ricerca secondo criteri di competenza, necessariamente, ma anche pluralistici, ovvero a prova di credibilità; con supervisione esterna e regole plausibili di trasparenza. Non mancano in Italia, ed in Europa, le professionalità all’altezza. E l’Invalsi potrebbe essere l’istituzione giusta, se almeno fosse reso effettivamente indipendente dal ministero.

Tanto rumore per qualcosa

Nell’opera di Shakespeare che abbiamo richiamato in apertura, la protagonista è una bella, chiacchierata nella sua virtù da intriganti che si opponevano dolosamente al matrimonio con il suo amato, fino a provocarne una finta morte. Ma tutto si risolve nel lieto fine. L’IRC è questione troppo importante, nel nostro paese, come ha mostrato la discussione di questi giorni. Perché non valutare l’IRC come si fa, da tempo, con le altre materie? Per metterlo in condizioni di mostrare pubblicamente di non meritare l’accusa infamante di essere il cavallo di Troia della Chiesa nella scuola pubblica? Non è troppo tardi – anche se sono passati tanti anni – per provvedere a renderlo credibile agli occhi di tutti. Magari approfittando del rumore provocato da un incauto ministro.

* Professore Ordinario di Didattica generale presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Parma