No ai “prodotti” dell’occupazione israeliana. Chiese, ong, associazioni invitano l’UE al boicottaggio

Ingrid Colanicchia
www.adistaonline.it

È da anni che l’Unione Europea condanna gli insediamenti israeliani sottolineandone l’illegalità sotto il profilo del diritto internazionale. Ciononostante continua a importare merci qui prodotte per un totale di 15 volte superiore rispetto alle merci palestinesi. Una contraddizione che è ora di sanare.

Per questo, il 30 ottobre scorso, un folto gruppo di realtà operanti nei Territori occupati (tra cui diverse organizzazioni religiose come CCfd-Terre Solidaire, la Chiesa di Svezia, Pax Christi Olanda) ha diffuso un lungo documento – intitolato “Trading Away Peace: How Europe Helps Sustain Illegal Israeli Settlements” (“La pace svenduta. Come l’Ue contribuisce a sostenere gli insediamenti israeliani illegali”) – nel quale sollecita l’Ue e i singoli Paesi dell’Unione Europea ad adottare una serie di misure che colmino la distanza tra retorica e pratica.

«Finora ci siamo astenuti dall’impiegare la nostra considerevole capacità di pressione a livello politico ed economico nei confronti di Israele», scrive nell’introduzione all’appello Hans van den Broek, ex ministro degli Esteri olandese ed ex commissario europeo. «Ora, l’Ue si trova di fronte a una sfida cruciale, forse l’ultima possibilità di tradurre i suoi principi in azione: se vuole preservare la soluzione dei due Stati, deve agire senza indugio».

«Oggi più di 500mila coloni israeliani vivono in Cisgiordania e a Gerusalemme Est», denunciano le 22 organizzazioni: «Gli insediamenti controllano più del 42% del territorio della Cisgiordania e la maggior parte delle sue risorse naturali, acqua compresa». «Agricoltori e produttori degli insediamenti beneficiano di consistenti sussidi del governo israeliano e hanno facile accesso al mercato internazionale grazie a una rete stradale, costruita dal governo, che bypassa le aree abitate dai palestinesi. Al contrario, l’economia palestinese è pesantemente limitata dalle restrizioni imposte da Israele nell’accesso ai mercati e alle risorse naturali, cosa che causa al Prodotto interno lordo palestinese una perdita di circa 5,2 miliardi di euro (85% del totale).

Queste restrizioni hanno comportato una diminuzione delle esportazioni palestinesi: se nel 1980 costituivano più della metà del Pil ora non rappresentano che il 15%». «Secondo i dati più recenti forniti da Israele alla Banca mondiale – prosegue il documento –, il valore delle importazioni europee di merci prodotte negli insediamenti ammonta a 230 milioni di euro all’anno: 15 volte il valore delle importazioni di merci palestinesi. Se pensiamo che nei Territori Occupati vivono più di 4 milioni di palestinesi e 500mila coloni israeliani, significa che l’Ue importa 100 volte più da un colono che da un palestinese».

Ma non basta. «Nonostante abbia più volte ribadito che gli insediamenti non fanno parte di Israele, l’Europa ha accettato che merci qui prodotte fossero importate con indicata come origine “Israele”, avallando in tal modo l’estensione della sua sovranità sui Territori occupati». Inoltre, proseguono le 22 realtà, «molti di questi prodotti sono venduti nei negozi europei con l’etichetta “made in Israel”, negando ai consumatori il diritto di prendere decisioni informate nei loro acquisti. Come risultato molti consumatori europei stanno inconsapevolmente sostenendo gli insediamenti e le conseguenti violazioni dei diritti umani»

Anche l’accordo negli scambi commerciali tra Unione Europea e Israele, approvato a fine ottobre (l’Agreement on Conformity Assesment and Acceptance, con il quale, di fatto, i prodotti industriali europei potranno essere esportati in Israele e viceversa senza il bisogno di un’ulteriore certificazione nel Paese importatore, v. Adista n. 35 e 40/12), è un altro esempio, secondo le organizzazioni, della mancata insistenza da parte dell’Unione europea nel distinguere gli insediamenti israeliani legali da quelli illegali.

L’Unione europea deve passare dalle parole ai fatti, concludono i 22 gruppi, adottando misure che assicurino che le sue politiche non sostengano direttamente o indirettamente l’espansione delle colonie: l’Ue deve quindi garantire una corretta etichettatura delle merci prodotte negli insediamenti perché i consumatori siano correttamente informati nelle loro scelta; scoraggiare le aziende a investire negli insediamenti; bandire l’importazione di merci qui prodotte; assicurarsi che questi prodotti non beneficino di accesso preferenziale al mercato; escludere gli insediamenti da accordi bilaterali e strumenti di cooperazione; scoraggiare i cittadini ad acquistare proprietà negli insediamenti.

Misure, ci tengono a specificare le 22 organizzazioni, che non costituiscono un attacco a Israele ma al contrario, preservando la soluzione dei due Stati, in accordo con il diritto internazionale, sono l’unica via per la sua sicurezza.