Obama, un secondo passo nella storia

Emilio Carnevali (*)
www.micromega.net 8 novembre 2012

Al termine di una competizione elettorale incerta fino all’ultimo, Barack Obama ha sconfitto il suo sfidante repubblicano Mitt Romney. Ora sarà anche possibile gettare una nuova luce sul suo primo mandato, troppo spesso liquidato come una “delusione”. Ma le sfide all’orizzonte non sono finite. A partire dall’incubo del “burrone fiscale” che incombe sull’America e sul mondo.

«Four more years», altri quattro anni. Obama ce l’ha fatta. Ha vinto una competizione elettorale durissima ed incerta, contro uno sfidante che si è rivelato via via molto più abile del previsto.
Ma «questa vittoria non è un caso», come lo stesso presidente ha commentato a caldo, appena hanno preso forma i numeri del suo trionfo. Forse il secondo grande passo nella storia che Obama compie con la sua rielezione contribuirà ad illuminare con luce diversa anche la prima parte del suo tragitto. Con troppa superficialità, infatti, si è spesso parlato della “grande delusione” legata al suo primo mandato. È l’errore in cui si incorre quando si sostituisce la fatica dell’analisi con la tranquillità di un moto a favore di corrente. Quando si formulano giudizi del tutto sganciati dalla valutazione del contesto reale con il quale una iniziativa politica si trova a fare i conti.

Barack Obama ha senza dubbio compiuto molti errori. Ma ha avuto meriti che sono stati fin qui sottovalutati. Ecco quali sono.

Nel 2008 si è abbattuta sugli Stati Uniti (e sul mondo) la peggiore crisi economica dalla Grande Depressione degli Anni Trenta. I 700 miliardi di dollari del Piano Paulson (dal nome del Segretario al Tesoro di George W. Bush, Henry Paulson) hanno salvato un settore finanziario sull’orlo del collasso, ma l’impatto sull’economia reale dello scoppio della bolla immobiliare e dei successivi crolli di borsa ha avuto conseguenze durature e devastanti. Nel 2009, il primo anno della nuova amministrazione, il Pil è caduto del 3,5%, la produzione industriale è crollata del 13,8%, il tasso di disoccupazione è giunto a lambire quota 10% (un numero quasi inimmaginabile per gli Usa).

Obama ha risposto con la più classica delle misure keynesiane, di quelle che nell’Europa dell’austerity sarebbero state considerate una eresia o una bestemmia: uno stimolo fiscale da circa 800 miliardi di dollari (l’American Recovery Act, il più grande della storia del Paese).

Ha poi messo in campo una clamorosa iniziativa per il salvataggio dell’industria automobilistica americana. Mentre Mitt Romney e i repubblicani sentenziavano «Let Detroit go bankrupt», il presidente dichiarava: «Gli Stati Uniti non devono e non permetteranno che il settore dell’auto Usa, semplicemente, finisca con lo svanire». E così sono stati stanziati 80 miliardi di dollari di finanziamenti e il governo federale è entrato direttamente sia nel capitale di General Motors (della quale è ancora azionista con una quota pari al 26%) che in quello di Chrysler. Oggi i due marchi di Detroit sono tornati competitivi: la Gm, in particolare, si è ripresa il primo posto per auto vendute nel mondo, scavalcando la giapponese Toyota, con oltre 9 milioni di vetture.

Nel gennaio del 2009, come primo atto della sua presidenza, Obama ha posto la sua firma in calce al Lilly Ledbetter Fair Pay Act per la parità retributiva fra uomini e donne. Nel luglio del 2010, poco prima che i democratici perdessero la loro maggioranza alla Camera, è stato approvato il Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act per la riforma del sistema finanziario. Sebbene molti dei regolamenti attuativi ad esso collegati sono stati fin qui bloccati dall’opposizione repubblicana nel Congresso, il tasso di gradimento di questa riforma da parte dei «fat cats» della finanza Usa è testimoniato dal fiume di denaro che Goldman Sachs, JP Morgan, Citigroup, Bank of America, Morgan Stanley – in passato molto generose con i democratici – hanno riversato nei forzieri della campana elettorale di Mitt Romeny.

Il veto repubblicano è anche riuscito anche ad impedire la nomina di Elizabeth Warren (docente di Harvard e paladina dei diritti dei risparmiatori) al vertice del Bureau of Consumer Financial Protection, l’agenzia federale creata dal Dodd-Frank Act per la protezione dei consumatori di prodotti finanziari. Ieri la Warren si è presa la sua rivincita, conquistando il seggio occupato per moltissimi anni da Ted Kennedy e poi espugnato dai repubblicani nelle elezioni suppletive seguite alla morte dell’anziano senatore democratico (gennaio 2010).

Oggi l’economia Usa si sta (lentamente) riprendendo: + 2,2% del Pil per il 2012 e +2,1% per il 2013 secondo le ultime stime del Fondo monetario (la zona euro farà registrare rispettivamente un -0,4% e un + 0,2%). Ad ottobre sono stati creati 171.000 nuovi posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è intorno ai minimi dal gennaio 2009 (7,9%: superiore di un decimale di punto rispetto a settembre a causa della diminuzione della quota degli inattivi).

Ma la grande impresa sulla quale Obama ha investito tutto il capitale politico accumulato con l’elezione del 2008 è stata la riforma sanitaria (Patient Protection and Affordable Care Act), approvata nella primavera del 2010. Grazie ad essa 34 milioni di americani prima completamente sprovvisti di qualsiasi assistenza medica saranno coperti da una assicurazione. Questa è la vera svolta epocale che ha segnato il suo primo mandato, nonostante i compromessi cui ha dovuto cedere per venire a capo delle resistenze presenti all’interno del suo stesso partito.

Sul fronte della lotta alla discriminazione il presidente ha abolito il “Don’t ask, don’t tell” nell’esercito (letteralmente “Non domandare, non dire”): le persone omosessuali o bisessuali che prestavano servizio militare non potevano rivelare il proprio orientamento e parlare di questioni relative alle relazioni omosessuali perché questo avrebbe creato «un inaccettabile rischio all’alta morale, all’ordine, alla disciplina e alla coesione che sono l’essenza della potenza militare».

Inoltre Obama è intervenuto sull’annosa questione delle rette delle università, uno dei fattori di maggiore discriminazione sociale all’interno della società statunitense. A dispetto di una certa retorica sul “sogno americano”, infatti, gli Usa non solo hanno fra i più alti indici di disuguaglianza fra i paesi avanzati, ma anche fra i più bassi livelli di mobilità sociale (insieme a Regno Unito e Italia). Come aveva promesso nella campagna elettorale del 2008 il presidente ha abbassato i tassi di interesse sui mutui governativi per le spese universitarie, fissato a un massimo del 10% del reddito per i rimborsi annuali, e ridotto da 25 a 20 anni il periodo di tempo dopo il quale la parte di mutuo ancora da pagare verrà considerata estinta.

Obama, infine, ha posto fine alla guerra in Iraq, ha preparato il ritiro dall’Afghanistan, ha accompagnato la primavera araba abbandonando storici alleati degli Usa come il presidente egiziano Mubarak, ha tentato di aprire una nuova stagione di dialogo con il mondo islamico con lo storico discorso del Cairo (4 giugno 2009).

Eppure il riconfermato presidente non avrà molto tempo per festeggiare.
Nel suo secondo mandato il Congresso continuerà ad essere diviso fra una maggioranza democratica al Senato ed una repubblicana alla Camera. E l’incubo che ora incombe sull’America – e sul mondo – è quello del cosiddetto Fiscal Cliff (burrone fiscale). Si tratta di un piano di colossali tagli alla spesa ed incrementi delle tasse che scatteranno automaticamente dal 1 gennaio 2013 se i due partiti non troveranno un accordo su misure alternative.

Il pacchetto fu approvato nell’estate del 2011, quando gli Stati Uniti si trovarono a ridosso del default tecnico. Dal 1917 in Usa è in vigore una legge che fissa un tetto massimo all’indebitamento pubblico, per il alzare il quale – e continuare così a emettere titoli di debito necessari a pagare gli stipendi dei dipendenti statali, le pensioni e tutti gli altri capitoli della spesa federale – è necessario un voto del Congresso.

Durante la presidenza Reagan il tetto è stato innalzato 18 volte, 7 negli anni di Clinton e altrettante con George W. Bush. Diversamente da ciò che sta succedendo in Europa, dunque, i problemi del debito americano non sono dettati dalla sfiducia dei mercati – i quali, con l’attiva collaborazione della Fed, hanno del tutto ignorato lo storico declassamento da Aaa a Aa+ decretato dall’agenzia di rating Standard and Poor’s ai Treasury bonds americani – ma da vincoli legali, resi ancor più stringente dal clima di forte contrapposizione ideologica cretosi dopo le elezioni di midterm del novembre 2010 ed il grande successo dei candidati del Tea Party.

Alla fine il Congresso, già allora dominato da maggioranze diverse nelle due Camere, ha optato per un accordo di “deterrenza” contenente misure inaccettabili da entrambe le parti, con l’obiettivo di incentivare in questo modo un futuro percorso di convergenza.

Fino ad oggi, però, il nuovo accordo non c’è stato, e il ciglio del burrone si è avvicinato in modo spaventoso. Dal gennaio del 2013 scatterebbe automaticamente la fine delle esenzioni fiscali contenute nel Tax Relief, Unemployment Insurance Reauthorization, and Job Creation Act, approvato nel dicembre 2010, il quale prorogava di altri due anni i tagli fiscali varati da Bush (sopratutto per i ceti medio alti) e introduceva una serie di nuovi sgravi per il ceto medio e i lavoratori dipendenti, oltre ad una estensione dei sussidi di disoccupazione.

La pressione fiscale salirebbe così del 19.6%: il prelievo federale passerebbe dal 15.7% del Pil nel 2012 al 18.4% nel 2013. Contemporaneamente si avrebbero tagli alla spesa – quelli contenuti nel Budget Control Act approvato nell’estate del 2011 – pari a 1200 miliardi di dollari in dieci anni. Insomma, un piano di austerità quasi in “salsa greca” che secondo alcuni studi avrebbe un impatto negativo sul Pil nell’ordine del 3% (sostanzialmente lo stesso tasso col segno meno subito dagli Usa nell’anno peggiore della crisi, il 2009). L’economista Stepehn Fuller ha calcolato che sarebbero 2,14 milioni i disoccupati in più creati dalla tenaglia dell’incremento fiscale e dei tagli alla spesa del Fiscal Cliff: il tasso complessivo dei disoccupati tornerebbe oltre la soglia del 9%.

Barack Obama ha di fronte a sé un’altra sfida enorme. Ma ieri ha dimostrato all’America e al mondo che queste sfide può vincerle.