A partire da me, a partire da noi. Riflessioni per un approccio diverso all’alterità, qualunque alterità

Rosanna Marcodoppido
www.womenews.net

Quando iniziamo a parlare dicendo “A partire da me”, mi viene spontaneo farmi la domanda: chi è quel me da cui giustamente non vogliamo prescindere? Quel me in realtà è riferibile ad un soggetto segnato da un contesto storico/culturale/politico e, soprattutto, dalle relazioni concretamente vissute.

L’io perciò in buona parte è l’esito dello scambio con gli altri e le altre. Per questo essere in relazione vuol dire per un soggetto avere già in sé il noi, un noi anche politico se basato su relazioni politiche, un noi parziale ovviamente e non necessariamente consapevole. Occorre invece prendere coscienza di questo noi che ci abita e condiziona.

Mi chiedo anche: come si è in relazione, con quali modalità, attraverso quali processi razionali ed emotivi? Nei rapporti umani, in primo luogo in quelli affettivi, esistono dinamiche non sempre trasparenti anzi spesso nascoste nell’inconscio, ricche di ambivalenze e contraddizioni.

Partiamo dalla relazione primaria, quella con la propria madre. Sappiamo che esiste una profonda differenza tra maschi e femmine nell’uscire dalla con-fusione simbiotica: mentre la bambina diventa donna attraverso una separazione tutta giocata all’interno del proprio genere che la lascia in una interconnessione di somiglianza, il bambino diventa adulto in una difficile operazione di allontanamento dalla madre, che per lui rappresenta un impossibile modello di riferimento identitario. In questo scenario così traumatico per il bambino, il disconoscimento è una delle risposte possibili, certamente una scorciatoia destinata però a segnare vita e identità; per la bambina resta il rischio di non saper fare i conti in generale con l’esperienza della separazione e con il riconoscimento pieno della propria individualità.

All’interno di una complessa e millenaria cultura patriarcale fondata sul depotenziamento religioso, sociale e politico della madre, il tragitto di individuazione per il figlio maschio si è configurato necessariamente come separazione violenta e senza riconoscimento dell’altra da sé. Operazione difficile e dolorosa che ha richiesto nel passato presso tutte le culture riti anche cruenti per consentire ai ragazzi di diventare “veri uomini” assumendo valori e simboli maschili (l’ordine simbolico del padre) in contrapposizione a quelli materni della cura e dell’accudimento.

Questa modalità di individuazione non risolve del tutto il problema del divenire individui: senza reciproco riconoscimento, ciascuna/o nella propria verità e finitezza, non ci può essere vera separazione e reale autonomia. La vera o presunta onnipotenza materna non si sconfigge col disconoscimento, né con l’idealizzazione. Inoltre questa modalità di separazione/individuazione finisce col diventare modello per un certo modo di guardare a sé, all’altra e al mondo secondo logiche binarie e dà origine ad un ordine basato sul potere. La stessa conoscenza è stata vista come atto di appropriazione delle leggi che regolano l’universo in un rapporto gerarchico tra il soggetto e l’oggetto, l’uomo e la natura. Nella cultura patriarcale la donna si è trovata associata alla parte negativa e passiva di ogni dualismo: mente/corpo, cultura/natura, spirito/materia, ragione/sentimenti….L’alterità rispetto al genere è stata compressa nel suo potenziale generativo e arricchente, come pure è stato compromesso l’amore e la stessa sessualità.

Sto sintetizzando, e me ne scuso, una riflessione molto più articolata e ricca che parte da numerosi studi in vari campi del sapere, animati negli ultimi decenni in primo luogo dalle studiose femministe: psicologhe, psicoanaliste, storiche, antropologhe, teologhe, scienziate, filosofe.

Ma oggi che le donne sono presenti in ogni contesto e spesso con livelli di istruzione e competenze di eccellenza, anche i processi intrapsichici di individuazione dovrebbero aver subito evidenti cambiamenti: non dovrebbe più essere possibile svalutare la madre a vantaggio del padre, sia per le bambine che per i bambini; oggi, è del tutto evidente, nella concreta esperienza quotidiana non è solo il padre che dà l’accesso alla polis. Ma siamo sicure che la madre abbia la possibilità di agevolare a figlie e figli un accesso basato sui valori del materno? I valori della cura, l’empatia, sono diventati parte integrante della polis? Penso proprio di no.

Credo che nella nostra cultura molto sia rimasto del sistema patriarcale, nonostante l’emancipazione e la libertà femminile abbiano segnato di sé questa nostra contemporaneità. Ad esempio mi sembra ancora egemone purtroppo l’approccio dualistico alla conoscenza. Anche noi donne fatichiamo ad uscire dalla logica del pensiero binario e fissiamo in contrapposizioni gerarchiche elementi della realtà che al contrario agiscono e interagiscono in dinamiche più complesse e forse per questo meno leggibili.

In Italia tra la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta nasce il neofemminismo: il partire da sé, grazie alla pratica dell’autocoscienza, ha significato un viaggio tra donne nel profondo per riconoscere le radici maschili della cultura, ma anche i segni della svalutazione presenti dentro ciascuna. L’intento era di dare una misura femminile all’esistenza, guardare diversamente la realtà sociale, culturale e politica costruita dagli uomini. In nome della differenza assunta come valore.

Ma come ci si è poste nei confronti delle donne del movimento di emancipazione che avevano lottato e lottavano da tempo per ottenere diritti per sé e il proprio genere in nome dell’uguaglianza? Questo a mio avviso è un passaggio della esperienza storica delle donne italiane su cui vale la pena tornare, se vogliamo meglio capire problemi che ancora oggi abbiamo di fronte.

Leggere la politica dell’emancipazione come piatta omologazione al maschile è un grossolano errore storico ed è ingeneroso nei confronti di quante si sono battute per eliminare discriminazioni e forme di oppressione, per ottenere leggi che non sono ascrivibili automaticamente ad un simbolico maschile ( il riconoscimento del valore sociale della maternità, il nuovo diritto di famiglia), ma ad un nuovo senso di sé in quanto soggetti sessuati in cerca della propria libertà e autonomia.

Da tempo sostengo, e ovviamente non sono la sola, che il processo di individuazione attivato dalle donne del neofemminismo ha ricalcato i modi della separazione maschile dalla madre, nel segno di una svalutazione senza appello delle donne che le hanno precedute. La pratica discorsiva e alcune elaborazioni teoriche, pur molto arricchenti e seduttive, hanno assunto un andamento binario e contrappositivo: la differenza contro l’uguaglianza, la libertà femminile contro l’emancipazione, l’ordine simbolico della madre (quale?) a fronte dell’ordine simbolico del padre. La differenza diventa l’unica chiave di lettura per parlare di sé e del proprio genere, finisce con lo scavare solchi impressionanti persino nella relazione tra donne, una volta che la categoria dell’eguaglianza –che portava con sé la solidarietà, l’assonanza- viene gettata nel cestino, inservibile. Il neofemminismo degli anni settanta è una epifania che si genera dal nulla, almeno così pare da quanto viene detto, a partire da sé.

Debbo dire che in genere le storiche femministe, per fortuna, non la pensano così e lo dimostrano con le loro ricerche e i loro studi. Penso ad Annarita Buttafuoco, Anna Rossi Doria, Emma Baeri, per citarne solo alcune.

A partire da me, posso raccontare che, pur priva di una cultura politica, ho avuto fin dall’adolescenza la certezza che avrei lavorato, volevo fare la maestra, ma anche l’artista, eppure quasi tutte le mamme delle mie amiche, compresa la mia, erano casalinghe. Non avevo modelli a cui riferirmi, ma evidentemente qualcosa c’era nell’aria che mi autorizzava ad attribuirmi una soggettività piena e differente. All’inizio degli anni cinquanta mio padre, meridionale e con poco studio, aveva scommesso sulla istruzione dei figli, senza distinzione tra maschio e femmine. Tra la fine degli anni sessanta e i primissimi anni settanta insegnavo, tenevo aperta una (inutile) quotidiana contrattazione con il mio ex marito per la condivisione della manutenzione degli spazi comuni, dipingevo, scrivevo poesie e, soprattutto, mi prendevo cura dei miei due figli maschi: cercavo di essere madre in un altro modo. Giocavano anche con la lavatrice, la bambola, giocattoli che avevano voluto loro e che io ritenevo essenziali per un apprendimento della cura come valore umano per tutte/i, cercavo una possibile e definitiva rottura di una eredità maschile che non approvavo . Ci hanno pensato poi l’insegnante della cosiddetta scuola materna e gli altri bambini a far capire che quelli erano giochi da femmina (orrore!). Così la bambola è stata abbandonata e io ho fatto i conti per la prima volta con la mia impotenza di madre in una società che mi era profondamente ostile.

Poi ho conosciuto l’Udi. Nel 1974, invitata da alcune amiche, mi sono iscritta al costituendo circolo Udi di Potenza, dove allora abitavo, e ho cominciato a scoprire che il mio profondo disagio di donna era condiviso, che insieme si poteva lottare per cambiare, che esisteva una realtà e una storia che mi riguardava e che mi era stata sottratta: ho scoperto la politica dal punto di vista delle donne. Due anni dopo c’è stato l’incontro/scontro con il neofemminismo e la sua radicalità.

Contemporaneamente aveva avuto inizio anche la mia sperimentazione didattica antiautoritaria, che partiva dal vissuto delle bambine e dei bambini (a partire da sé), dall’utilizzo di tutti i linguaggi espressivi e si arricchiva delle riflessioni sulle differenze, legate anche all’inserimento dei portatori di handicap, fino ad allora esclusi dalle classi cosiddette normali. C’è voluto del tempo e una appartenenza forte ad un luogo politico di donne e ad un universo femminile ricco e variegato, per riuscire ad assumere una pedagogia e una didattica della differenza, per una critica radicale a tutti i saperi maschili.

Quando ho cominciato a conoscerla, la storia dell’Udi era sotto attacco di chi ne vedeva solo la poca autonomia e l’accusava di dipendenza dal maschile. Intanto avevo modo di conoscere negli incontri nazionali donne dei Gruppi di Difesa della Donna, i loro documenti, alcune partigiane e le loro storie, alcune Costituenti: una presenza consapevole di sé, che restituiva valore culturale, storico, politico al mio genere. Altro che dipendenza dagli uomini! Certamente c’è stata in più passaggi della storia di emancipazione una insufficiente autonomia di pensiero e non solo, ci sono stati errori, le forme della politica erano mutuate da quelle del movimento operaio e il rischio di omologazione è stato sempre presente, ma sempre parallelo anche ad una volontà di autonomia che ha permesso in più occasioni pratiche feconde di trasversalità tra donne al di là delle appartenenze partitiche. Nessuna voleva essere come un uomo.

Ho capito a un certo punto che io ero collocata nel posto in cui ero grazie alle tante donne che sono venute prima di me e me lo hanno consentito con la loro passione politica, la loro tenace lotta contro ogni forma di violenza. Il neofemminismo è stato per me un passaggio fondamentale per capire più a fondo le ragioni del mio disagio: mi ha dato occhi capaci di vedere meglio le radici culturali e politiche del sistema patriarcale, le complicità femminili; ha rafforzato la consapevolezza del valore politico della relazione tra donne. Ha però demolito la mia pratica politica mettendo sotto accusa la delega, la rappresentanza, il rapporto con le istituzioni. Le giovani del neofemminismo avevano in genere una forte carica antiistituzionale e parlavano di sentimento di estraneità rispetto al mondo degli uomini. Io ero tra quelle che riflettevano invece sulle nostre complicità con il sistema patriarcale e vedevo nella madre oblativa uno dei suoi pilastri più solidi, nella diffusa pratica della seduzione del corpo femminile una forma di potere incompatibile con la libertà femminile e una forma di legittimazione del dominio maschile. Altro che estraneità!

Ma la forza del neofemminismo, la sua radicalità aveva un forte fascino e una sua verità e nel 1982 con l’XI Congresso l’Udi azzerò tutto l’assetto organizzativo piramidale in nome di una più libera comunicazione tra donne. Senza organismi dirigenti, senza tessera, senza deleghe, né rappresentanti, alla ricerca di una reale autonomia dai partiti, una organizzazione nazionale come la mia ha avviato una difficile sperimentazione delle forme della politica lavorando sulla costruzione della titolarità di sé di ciascuna, sulle dinamiche del conflitto, sulla gestione politica delle differenze non componibili, sulla costruzione di un noi che non occultasse l’io. Un lavoro faticoso per trovare insieme una misura femminile della politica e della democrazia. C’è stata anche, bisogna riconoscerlo, una insufficiente capacità di gestione dei passaggi necessari per realizzare il cambiamento: un approccio dualistico alle differenze tra noi ha reso spesso prevalente la contrapposizione a scapito dell’empatia e della relazione.

Il prezzo che abbiamo pagato: venti anni di silenzio dell’Udi nella sua dimensione nazionale, essendo pressoché vietato parlare a nome della altre; venti anni di silenzio sull’Udi che pure esprimeva nella sua dimensione territoriale una ricchezza di pratiche e di saperi. Siamo passate nel 2003 con il XIV congresso a riattivare le tessere, a riproporre il tema della rappresentanza e del mandato per consentirci una parola pubblica che segnasse di sé la realtà, per rendere possibile quella articolazione tra l’io e il noi che è la base di ogni comunità politica.
Sono convinta che dobbiamo tutte saper riconoscere le trappole dell’emancipazione (che pure dobbiamo attraversare: penso alla scuola ancora innervata dai saperi monosessuati) per non farci risucchiare nel simbolico patriarcale, ma dobbiamo tenere a bada, nello stesso tempo, i numerosi trabocchetti della libertà femminile, soprattutto in mancanza di una tensione costante tra l’io e il noi, tra singolarità e collettività, tra responsabilità verso sé stesse e verso le altre, gli altri. Con un forte senso della storia e la capacità di saperla guardare.

Oggi io mi definisco una femminista dell’Udi. Quando penso, mentre parlo, ho la chiara percezione di essere un soggetto sessuato gravido di un noi che è appartenenza ad una cultura, ad una storia, ad una pratica politica collettiva. Quando mi penso sono sempre in compagnia delle tante donne che mi hanno preceduto, che mi hanno accompagnato e che hanno reso possibile il mio essere oggi quella che sono, nell’intreccio profondo e inestricabile tra emancipazione e libertà femminile, nella consapevolezza del mio differire, ma anche del mio essere uguale. E sapendo che la mia differenza sessuata, dopo millenni di patriarcato che ha deformato identità e valori, la posso definire solo in relazione al contesto storico in cui mi trovo a vivere, quindi è soggetta nel tempo a cambiamenti. Non è un assoluto. In questo senso le giovani hanno cose importanti da darmi che io non ho: cosa vuol dire essere giovane donna oggi, come oggi si gioca il loro differire/somigliare agli uomini, quali forme di nuove illibertà e ostacoli all’autodeterminazione stanno sperimentando, come vivono la sessualità e il divenire o non divenire madri: solo loro me lo possono dire, me lo stanno dicendo e in questo dire sono pienamente titolari della loro soggettività e dei loro saperi.

Credo sia arrivato il tempo, per donne e uomini, per trovare la strada di uscita dal pensiero binario e maturare un approccio diverso nei confronti dell’alterità, ogni tipo di alterità. A partire dalla relazione tra donne e uomini, con tutto il suo carico intatto di violenza. Ma non solo.

Dobbiamo con coraggio chiederci in cosa abbiamo sbagliato se il mondo in cui viviamo è andato da un’altra parte rispetto al nostro desiderio e al nostro progetto politico. C’è bisogno di andare a rivedere, tutte insieme, a partire dall’esperienza di ciascuna, ma anche col sapere che ci viene dalla storia del nostro genere, il modello di sviluppo in cui siamo immerse: ci siamo fatte risucchiare da un consumismo che ci toglie autonomia e libertà, che mette in pericolo la stessa sussistenza umana.

Dobbiamo capire cosa fare per sconfiggere una logica del lavoro sempre più insostenibile, che penalizza tutte/i. Abbiamo imparato a decostruire il potere maschile, ma forse non siamo state altrettanto brave da accorgerci per tempo del potere sempre più pervasivo del dio denaro che sta dando scacco alla polis vista come insieme di soggetti intercorrelati e apre le strade a narcisi senza passato e senza futuro. E tutto questo non possiamo farlo da sole. Né ci è consentito pensare che, siccome la politica istituzionale è inguardabile, possiamo estraniarci e illuderci di mantenere una neutralità/esternità senza conseguenze per la nostra vita. Io non ho mai desiderato essere nelle istituzioni e nei partiti, ma non ho mai diviso le donne tra chi c’era e chi non c’era. Semmai mi sono sempre chiesta come costruire una interlocuzione puntuale con le donne delle istituzioni, perché quando lo abbiamo fatto i risultati positivi ci sono stati. Basta con la tendenza a vedere il male sempre al di fuori di noi, a dire che è maschile tutto quello che dell’umano non ci piace.

L’esperienza umana, tutta, è segnata dalla complessità, dalla ambivalenza, dal desiderio, dalla paura, dalla fragilità e nessuna/o, in qualunque luogo si trovi, ne è esente. Quello che fa la differenza , per donne e uomini, è il grado di libertà dalle logiche di potere e di violenza.

Serve maggiore organizzazione, parola troppo a lungo stigmatizzata, se vogliamo uscire dalla frammentazione impotente, serve la fatica quotidiana di tenere aperti e autonomi spazi di confronto e arricchimento reciproco. Serve maggiore empatia, capacità di prendersi cura di sé e delle altre, degli altri, del mondo, senza attribuirsi onnipotenza, né ruolo salvifico, nel riconoscimento dell’interdipendenza come condizione ineliminabile dello stare al mondo.

A partire da sé. A partire da noi. Un noi complesso e molteplice, il noi che siamo.