Gli Usa e la “guerra delle tasse”

Federico Rampini
Repubblica, 23 novembre 2012 

Nella concertazione sociale avviata da Barack Obama per definire il programma economico del suo secondo mandato, al tavolo delle parti c’era un’assenza vistosa. Neanche un banchiere. Proprio zero. Addio ai tempi in cui Goldman Sachs aveva “in appalto” il Dipartimento del Tesoro (da Robert Rubin a Hank Paulson), le consorelle JP Morgan Chase e Citigroup avevano un accesso privilegiato alla Casa Bianca. Obama Due prende il via con un’ impronta di sinistra: è aperta la stagione della caccia ai ricchi. Il presidente stavolta sembra deciso a seguire il mandato della sua base elettorale: un corpo sociale fatto di ceti medio-bassi, giovani, immigrati, con una chiara collocazione “di classe”. Lo incoraggia l’inondazione di studi e saggi che denunciano la deriva della società americana; come il recente “Plutocrats” di Chrystia Freeland, direttrice di Reuters Thomson. Ma chi sono i ricchi che finiranno nel mirino, nei negoziati febbrili tra Obama e i repubblicani, che entro fine anno devono servire a risanare il deficit pubblico e scongiurare il “precipizio fiscale” recessivo? Il presidente ha indicato una soglia precisa: sopra i 200.000 dollari annui di reddito lordo individuale (circa 150.000 euro lordi annui), oppure 250.000 per una coppia sposata. I dati dell’Internal Revenue Service (Irs, il fisco americano) dicono che sopra quella soglia c’ è il 2% dei contribuenti, 4 milioni di famiglie.

Ma si tratta di una misurazione molto imprecisa. Anzitutto perché queste sono le statistiche derivate dall’imposta sul reddito delle persone fisiche: che in America sono inaffidabili quanto in Italia, anche se per ragioni completamente diverse. In Italia è a causa dell’evasione, in America perché i redditi sono un aspetto quasi marginale nelle diseguaglianze. Infatti lì dentro finiscono categorie sociali separate a loro volta da distanze abissali. Poco sopra la soglia dei 200.000 lordi annui ci sono medici ospedalieri e ingegneri informatici, il capo dei pompieri di New York e quello della polizia, piloti aerei che fanno turni di lavoro sempre più massacranti. È gente che a fine mese, una volta detratte le tasse federali, quelle statali, quelle cittadine, la retta scolastica dei figli, l’assicurazione sanitaria, la rata del mutuo, possono far fatica a mettere da parte qualcosa per la pensione. È anche tra loro che si trovano tanti baby-boomer convinti a lavorare fino a 70 anni per “allungare” un fondo previdenziale troppo magro. Sono esponenti del ceto medio alto, certo, e anche benestanti. Ma ricchi? 

Poi c’ è un altro mondo. È quello dei chief executive che guadagnano 600 volte il loro dipendente medio, e quando vengono licenziati per scarso rendimento incassano il “paracadute d’ oro” di decine di milioni di buonuscita negoziato ex ante dai loro potenti avvocati (Carly Fiorina di Hewlett-Packard, per esempio). Ci sono le fortune miliardarie dei Warren Buffett e e Bill Gates, beneficiate dalla tassazione più agevolata di tutto l’Occidente sulle plusvalenze finanziarie. Sono il Gotha che compone lo 0,1% della società americana. Sono loro che fanno esplodere i prezzi delle case di lusso, fino ai 98 milioni per un appartamento sul nuovo grattacielo in costruzione fra la 57esima Strada e la Settima Avenue di Manhattan. In mezzo, fra il 2% e lo 0,1% c’ è gente come Barack Obama, che grazie alle royalties sui suoi libri (più corpose dello stipendio da presidente) per diversi anni ha toccato o superato il milione di reddito: e non perde occasione per citare se stesso fra coloro che dovranno pagare di più al fisco. Per trent’anni furono venerati ai limiti dell’ idolatria, grazie all’ideologia reaganiana che li identificava con i «creatori di ricchezza collettiva», e usava la celebre immagine della crescita come un’ alta marea («innalza lo yacht del miliardario e la barchetta del pescatore, beneficiando tutti»). 

Oggi quelle leggende sono frantumate dalla realtà, e la caccia ai ricchi ha solide basi economiche. Dal 2000 al 2010 una famiglia tipica del ceto medio americano ha perso 3.837 dollari di reddito annuo. Nello stesso periodo, l’un per cento della popolazione più agiata si è accaparrata il 17,42% del reddito nazionale cioè il doppio rispetto agli albori dell’era reaganiana (1980). Una società dove crescono in questo modo le diseguaglianze non è solo eticamente ingiusta: è inefficiente e si condanna al declino. Lo afferma autorevolmente il Fondo monetario internazionale, non certo un’ organizzazione della sinistra radicale. Tra le ragioni per cui le diseguaglianze uccidono il dinamismo ne basta una: l’indebolimento della meritocrazia. Perfino il sistema universitario americano, il migliore del mondo, subisce la deriva oligarchica. Nella selezione per entrare a Harvard, Yale, Princeton o Stanford, se tuo padre è un miliardario che ha donato fondi alla ricerca, verrai ammesso anche se non sei un ottimo studente. La cancrena delle diseguaglianze può uccidere l’American Dream. Perciò Obama fa delle politiche redistributive un cantiere del suo secondo mandato. Ma riuscirà a non penalizzare il piccolo imprenditore da 200.000 dollari annui mettendolo sulla stessa graticola di Larry Ellison, il chief executive di Oracle (e vincitore della “America’s Cup”) che ai 15 milioni annui di salario aggiunge 65 milioni di stock option? È giusto mettere sullo stesso piano il neurochirurgo che salva vite umane e il trader di uno hedge fund che vive di speculazione,e guadagna molto di più di chi sta in sala operatoria?

A lanciare una sfida a Obama Due è Daniel Altman, economista della Stern School of Business alla New York University. «Per ridurre le ineguaglianze tassiamo la ricchezza, non il reddito», propone Altman. «Il vero potere economico non si misura dal reddito ma dal patrimonio, è sul fronte delle ricchezze accumulate che si scavano le diseguaglianze più profonde». La prova: nel 1992 il 10% della popolazione più ricca in America controllava 20 volte più ricchezza del 50% dei ceti medio-bassi. Oggi la sproporzione è salita a 65 volte. E questa diseguaglianza è tanto più anomala, in quanto non è la conseguenza “ineluttabile” di fenomeni come la globalizzazione (concorrenza dei salari cinesi per i colletti blu americani) o l’ automazione tecnologica (che sostituisce macchine alla manodopera meno qualificata). No, sul fronte patrimoniale le diseguaglianze sono “fabbricate” proprio dalla politica fiscale. Sui patrimoni la tassazione è regressiva: toglie ai poveri per dare ai ricchi. Solo i Paperoni, infatti, hanno una quota predominante del loro reddito che proviene da dividendi e capital-gain (plusvalenze finanziarie). Oggi questi redditi sono colpiti dal prelievo del 15%, meno della metà dell’ aliquota marginale sul reddito dei dipendenti medio-alti (35% più imposte locali). Un’ analisi compiuta dal Tax Policy Center dimostra che i “veri” ricchi dello 0,1%, hanno risparmiato in media 356.000 dollari di tasse a testa, nell’ anno fiscale 2011.

Ecco la proposta “rivoluzionaria” che Altman lancia a Obama: «Il patrimonio totale degli americani valeva oltre 58.000 miliardi di dollari a fine 2010. Una patrimoniale secca dell’ 1,5% sulle proprietà finanziarie ed altri beni (imprese, case, automobili) produrrebbe un gettito superiore a tutte le attuali imposte sul reddito, inclusa perfino l’ imposta di successione». Per non colpire modesti risparmi familiari, Altman immagina che l’aliquota sia zero fino a mezzo milione di ricchezza, 1% dai 500.000 dollari al milione, e 2% sopra il milione di patrimonio. Per la maggior parte degli americani, lavoratori dipendenti e ceto medio, il risparmio fiscale sarebbe consistente. La patrimoniale sui “veri ricchi” consentirebbe di rilanciare altre politiche in favore di un’ eguaglianza delle opportunità: investimenti nella scuola pubblica, nella riqualificazione professionale dei lavoratori licenziati.

Bisogna aspettarsi una controffensiva dello 0,1%. Snobbati da Obama che non li invita più alla Casa Bianca, i banchieri di Wall Street hanno altre difese in serbo. I loro potenti studi legali già preparano le scappatoie più sofisticate per sfruttare ogni cavillo giuridico e mettere al riparo in paradisi offshore i patrimoni minacciati. La caccia al ricco è appena iniziata, i colpi di scena non mancheranno.