Siria, le bombe “democratiche”

Michele Paris
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Il recente sanguinoso attentato compiuto in un sobborgo di Damasco dalle forze ribelli siriane ha messo in evidenza ancora una volta la vera natura della rivolta in corso contro il regime di Bashar al-Assad nel paese mediorientale. Il prevalere di gruppi legati all’integralismo islamico con un’agenda prettamente settaria tra l’opposizione non sembra però scoraggiare le potenze occidentali e le monarchie assolute del Golfo, le quali promettono infatti un maggiore coinvolgimento nella guerra civile in corso, tramite il sostegno sempre più aperto alla cosiddetta Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione.

L’ennesimo atto di terrorismo attribuito alle formazioni jihadiste anti-Assad ha fatto mercoledì più di trenta vittime nella capitale in seguito all’esplosione di due autobombe nel quartiere di Jaramana. L’attentato ha preso di mira un’area popolata in particolare da appartenenti alle minoranze cristiana e drusa, accusate di continuare ad appoggiare il regime per paura delle conseguenze di un futuro governo dominato da musulmani sunniti.

La portata di simili episodi di violenza viene puntualmente minimizzata dai media ufficiali, che sembrano quasi giustificare le azioni dell’opposizione quando essa prende di mira presunti sostenitori di Assad, ancorché civili.

Le bombe contro i quartieri cristiani, drusi o alauiti – la setta sciita a cui appartiene il presidente – non sono però un trascurabile danno collaterale all’interno della propagandata lotta democratica per la liberazione della Siria, bensì rispondono ad una strategia settaria messa in atto dai gruppi estremisti che non solo beneficiano delle forniture di armi provenienti da tempo da paesi come Qatar e Arabia Saudita, ma anche delle politiche di destabilizzazione nei confronti di Damasco che gli Stati Uniti e i loro alleati nel mondo arabo perseguono da svariati anni in funzione anti-iraniana.

Il ruolo che potrebbero avere i jihadisti nel dopo Assad solleva comunque qualche preoccupazione a Washington, soprattutto in relazione alla sorte e all’utilizzo futuro delle armi che stanno approdando nel paese. Proprio in questi giorni, i giornali occidentali stanno infatti descrivendo i progressi compiuti dall’opposizione sul campo contro le forze del regime, così come il crescente quantitativo di armamenti sui quali i ribelli possono contare per difendersi e conquistare nuove posizioni.

Il Washington Post, ad esempio, ha citato giovedì fonti di intelligence americane e mediorientali per rivelare come i ribelli dispongano ora di almeno una quarantina di dispositivi missilistici anti-aereo trasportabili a spalla, forniti in gran parte dal Qatar. Con essi i ribelli avrebbero abbattuto tra martedì e mercoledì due velivoli delle forze del regime. La disponibilità di questi equipaggiamenti viene spesso definita come un fattore che potrebbe rivelarsi decisivo nel conflitto in corso.

Lo stesso Washington Post propone a proposito un pertinente confronto con i mujaheddin afgani che negli anni Ottanta ebbero un impulso determinante dalla fornitura di missili anti-aereo Stinger dagli USA per combattere l’occupazione sovietica. L’evoluzione successiva delle vicende dell’Afghanistan, con la nascita di formazioni terroristiche sunnite come Al-Qaeda grazie ai precedenti legami con gli americani e gli altri finanziatori del Golfo Persico, mostra infatti come potrebbe configurarsi il futuro della Siria, dove simili forze estremiste vengono oggi più o meno apertamente incoraggiate per rovesciare un regime sgradito.

In ogni caso, un articolo pubblicato mercoledì dal New York Times ha ribadito che l’amministrazione Obama sta valutando la possibilità di un intervento più incisivo in Siria per facilitare la caduta di Assad, in primo luogo fornendo direttamente armi ai ribelli. Il cambio di passo di Washington, arrivato rigorosamente dopo le elezioni del 6 novembre scorso per evitare reazioni negative da parte degli elettori ad una impopolare nuova guerra in Medio Oriente, procede di pari passo con la promozione della nuova Coalizione Nazionale, creata recentemente a Doha, in Qatar, in sostituzione del più che screditato Consiglio Nazionale Siriano e a seguito di un vero e proprio ordine emesso dal Segretario di Stato americano uscente, Hillary Clinton.

Il nuovo raggruppamento delle forze di opposizione, già riconosciuto ufficialmente come unico rappresentante della Siria da Gran Bretagna, Francia, Turchia e dalle monarchie del Golfo, viene costantemente invitato dai propri sponsor a raggiungere in fretta una certa unità al proprio interno, superando le divisioni tra le varie fazioni, le quali hanno in comune praticamente soltanto la loro impopolarità tra la popolazione siriana.

La nuova organizzazione si è perciò riunita al Cairo tra mercoledì e giovedì per compiere qualche passo avanti verso la creazione di un futuro governo di transizione e per offrire alla comunità internazionale un’immagine accettabile, così da attrarre maggiori finanziamenti e nuovi riconoscimenti diplomatici in vista del prossimo vertice degli “Amici della Siria”, in programma a dicembre a Marrakech, in Marocco.

Nonostante i relativi progressi delle forze ribelli in queste settimane, la collaborazione attiva sul campo delle potenze regionali rimane fondamentale, soprattutto alla luce della permanente superiorità militare delle forze di Assad. In questo senso va considerata la richiesta della Turchia alla NATO di posizionare missili Patriot sul proprio territorio al confine con la Siria. Lo scopo ufficiale sarebbe la difesa della Turchia da eventuali quanto improbabili missili o attacchi aerei lanciati deliberatamente dalla Siria.

I Patriot potrebbero piuttosto essere impiegati in risposta a missili che giungono accidentalmente in Turchia, come è già accaduto qualche settimana fa, o che potrebbero essere lanciati anche dagli stessi ribelli per trascinare Ankara nel conflitto, per colpire poi postazioni dell’esercito siriano nel nord del paese. Qui, infatti, la Turchia e gli alleati occidentali puntano a creare un’area interamente fuori dal controllo dell’esercito regolare dove le forze ribelli possano riorganizzarsi e, con l’assistenza materiale di Washington e Ankara, preparare un’offensiva finale contro Damasco.

Secondo quanto riportato dai media, un team NATO è già in territorio turco in questi giorni per valutare alcuni siti dove potrebbero essere installate le batterie di Patriot. A fornirli alla Turchia, oltre agli Stati Uniti, dovrebbero essere i governi di Germania e Olanda.

I preparativi per un qualche intervento diretto in Siria proseguono dunque in maniera spedita, con manovre che, come si è visto, intendono aggirare il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove Russia e Cina continuano a respingere qualsiasi risoluzione che possa portare ad un esito simile a quello libico.

È probabile, tuttavia, che gli Stati Uniti attenderanno a fare passi concreti fino a dopo il completamento di un rimpasto di governo che l’amministrazione Obama non ha ancora avviato e che prevede avvicendamenti in posizioni chiave, come il Dipartimento di Stato, della Difesa e la CIA.

Proprio per sostituire Hillary Clinton a capo della diplomazia USA è in corso una campagna mediatica da parte di Obama e del suo staff a favore di Susan Rice, l’ambasciatrice americana all’ONU che sta attraversando un periodo burrascoso dopo che nel settembre scorso aveva definito l’attacco al consolato di Bengasi come una conseguenza delle proteste spontanee esplose nel mondo arabo contro la diffusione di un filmato amatoriale contro il profeta Muhammad e non come un’azione terroristica pianificata.

Se la Rice dovesse superare l’ostacolo della conferma del Senato, il coinvolgimento degli Stati Uniti in Siria potrebbe subire una netta accelerata, dal momento che la principale candidata di Obama alla guida del Dipartimento di Stato è una delle più convinte sostenitrici dell’avanzamento degli interessi imperialistici a stelle e strisce in ogni angolo del pianeta dietro la facciata dell’intervento umanitario.

Susan Rice sembra avere avuto infatti un ruolo decisivo, assieme a Hillary Clinton, nel convincere Obama ad intervenire in Libia per rovesciare Gheddafi lo scorso anno e, con ogni probabilità, da una posizione ancora più autorevole rispetto a quella occupata al Palazzo di Vetro si adopererà in maniera ancora più decisa per aprire un nuovo fronte in Medio Oriente in nome della difesa dei diritti democratici della popolazione siriana.