Sui limiti dell’esegesi e delle “sacre” scritture di M.Magini

Mauro Magini
Cdb San Paolo (Roma)

L’esegesi è l’interpretazione critica di un testo, qualunque testo, finalizzata alla comprensione del significato. Campi di applicazione possono essere, ad esempio, la legislazione, la storia, la religione. In quest’ultimo caso, e con riferimento ai testi cristiani, si parla di esegesi biblica. Parliamo ora dell’esegesi dei testi cristiani cosiddetti “sacri” e occorre subito un primo chiarimento: tutto è sacro e niente è sacro, tutto è profano e niente è profano. La divisione sacro-profano è una questione di gestione del potere da parte di una casta sacerdotale che si arroga il diritto di parlare in nome di Dio e di gestire, appunto, il “sacro” separandolo dal profano che rappresenta la vita di tutti i giorni della gente comune. In realtà i Veda, il Corano, la Bibbia, per citare solo i più noti, non sono testi sacri, sono testi importanti nei quali sono contenute indicazioni sulla meta da raggiungere: la verità e la libertà interiore che ne promana. Se non sacri, allora ispirati da Dio, come siamo soliti dire nelle nostre letture? Certamente non nel senso stretto che gli autori hanno scritto sotto dettatura o addirittura scritti direttamente dalla mano di Dio come alcuni islamici pensavano del Corano. E allora, ispirati come? E’ una domanda importante per rispondere alla quale è utile spendere un po’ di parole.

L’esistenza o la non esistenza di Dio non sono dimostrabili sul piano della ragione. Personalmente, di fronte al mistero dell’Universo e della sua evoluzione, nutro una vivissima speranza che ci sia un senso del tutto, e se c’è un significato nella storia dell’Universo, allora Dio esiste e mi piace pensare che il suo imprinting creativo sia stato impresso, con le sue leggi e il suo senso, nella materia primordiale, nella polvere cosmica dalla quale è poi scaturita la vita sulla terra (e, ritengo probabile, anche altrove). Penso ancora che questo intervento primitivo contenga in sé tutti i possibili successivi interventi ( la creazione è continua) e cioè che, detto in altre parole, Dio non intervenga mai direttamente nella storia dell’Universo e dell’umanità né tantomeno che “ispiri” qualcuno a scrivere qualcosa. E però, tutti, senza eccezione, siamo chiamati a far parte del senso del tutto, dello Spirito di Dio che permea l’universo. Mi piace associarmi a quanto dice Raimon Panikkar: “Sono, pertanto, assolutamente convinto che il Cristo può essere considerato come il simbolo – cioè la ricapitolazione o il riassunto – di tutta la realtà. Ma anche il Buddha lo è, e altri ancora..…”. Dove in quel “altri ancora” siamo potenzialmente tutti inclusi. Penso quindi che “l’ispirazione da Dio” che attribuiamo a certi testi altro non sia che la capacità di persone non comuni di mettersi in sintonia con lo Spirito che permea il creato e di lasciarci una traccia tangibile del loro cammino spirituale. Per il messaggio trasmesso da tali uomini può valere quanto detto dal grande Ghandi:” …ammetto, con tutta umiltà, che i Veda, il Corano, la Bibbia sono parola imperfetta di Dio e che, esseri imperfetti come siamo, piegati qua e là da una moltitudine di passioni, ci è impossibile perfino comprendere questa parola di Dio nella sua pienezza.”

E dunque l’esegesi biblica si occupa delle fonti che ci sono state tramandate: il vecchio testamento, il nuovo testamento e i testi apocrifi. Riguardo a tali fonti è bene ricordare che i vangeli canonici, a noi tramandati, furono codificati nel concilio di Nicea del 325 indetto non dai vescovi ma dall’imperatore Costantino poco dopo l’editto di Milano del 313 che fece della Chiesa un potere tra i poteri (non è Costantino che si è convertito al cristianesimo ma la Chiesa che è diventata “instrumentum regni”). Certo, i credenti possono credere e sperare che lo Spirito di Dio abbia comunque soffiato nel cuore e nelle menti dei vescovi allora riuniti; resta però il fatto, storico questo, che, allora, la “parola” è stata fissata da uomini sotto l’egida dell’impero romano (un’analisi storica più accurata indica che il canone delle sacre scritture fu formalizzato ufficialmente solo con il Concilio di Trento nel XVI secolo anche se l’assestamento era già avvenuto nel corso del III-IV secolo).

Fatte queste premesse, la ricerca storica e l’esegesi si occupano di Gesù da quasi tre secoli (il saggio di Hermann Reimarus del 1778, Dello scopo di Gesù e dei suoi discepoli, viene indicato dagli esperti come il primo testo della moderna ricerca su Gesù ). E occorre dire chiaramente che l’esegesi ha fatto giustizia di letture infantili, strumentali e persino criminali delle scritture. Basti ricordare che i nazisti portavano scritto “Gott mit uns” sulle loro bandiere, che l’apartheid è stato giustificato sulla base di brani del vecchio testamento e che la chiesa cristiana ha giustificato la pena di morte e l’Inquisizione sulla base delle scritture. Penso che oggi pochi, nonostante il revival del fondamentalismo americano, in cui non è difficile vedere pesanti tratti di fanatismo, possano credere che la Terra ha 6.000 anni, che l’Universo è stato creato in sei giorni e che discendiamo da Adamo ed Eva. In buona sostanza si può senz’altro affermare che il lavoro esegetico è stato ed è di fondamentale importanza per capire un messaggio che ci è stato tramandato, per depurarlo dalle scorie del tempo per svelarne le strumentalizzazioni e trarne insegnamenti validi nel tempo che viviamo.

Tuttavia è anche necessario mettere in evidenza i limiti del lavoro esegetico. Non c’è bisogno di nessuna esegesi per cogliere il nucleo di fondo dei vangeli e afferrare quello che chiamo “l’orizzonte del valori”. Chi sia il nostro prossimo (parabola del samaritano), che cosa sia il perdono (il caso dell’adultera che doveva essere lapidata), quale sia la scelta di fondo che ognuno di noi è chiamato a compiere nel proprio percorso esistenziale (non si può servire Dio e Mammona), chi sono i beati (il discorso della montagna) e quale sia il comandamento più grande: l’amore verso Dio e verso il prossimo. Questo nucleo di fondo non ha un gran bisogno di essere spiegato quanto di essere vissuto.

Ma esaminiamo un altro caso che apparentemente avrebbe bisogno di essere capito a fondo. Matteo 16, 18 (…tu sei Pietro e su questa pietra….) campeggia a caratteri cubitali nella fascia interna della cupola di S. Pietro e vuole essere un memento forte dell’investitura da parte di Gesù ai suoi successori. L’esegesi indica che con molta probabilità si tratta di una aggiunta posteriore e che Gesù, che non ha fondato una chiesa, non ha mai pronunciato tali parole. Ma ammettiamo che le abbia pronunciate davvero: c’è forse bisogno di esegesi per constatare che la Chiesa istituzione ha tradito il messaggio di Gesù e che tra Dio e Mammona ha da tempo immemore fatto la sua scelta?

Ma andiamo ancora più a fondo con le domande scomode. Se Gesù è figlio di Giuseppe (come era propenso a credere anche Ratzinger molti anni fa) e non dello Spirito Santo, che succede? Cambia qualcosa nella possibilità di “credere”? Se nell’ultimo incontro conviviale tra Gesù e i suoi seguaci non fossero mai state pronunciate le parole “magiche” del pane e del vino (Giovanni non ne fa memoria: perché?), avrebbe ancora un senso riunirsi e perpetuare la memoria di Gesù in quel modo? Se Gesù non è risorto con la stessa carne e lo stesso sangue, come lo stesso Kung dice esplicitamente, cade tutto il castello della resurrezione e della vita eterna? Se fosse così, come non è improbabile che sia almeno per qualcuno dei fatti citati, che succede? Se fosse davvero così, la mia tanta o poca fede e la vivissima speranza di un senso del tutto, non cambierebbero di una virgola. Perché?

Ma perché i testi sacri devono formare le coscienze su un orizzonte di valori che è valido per chi crede e per chi non crede. Il perseguimento di quelle finalità porta alla liberazione interiore e rappresenta una evoluzione antropologica dell’essere. Chi è portatore di quei valori, credente o non credente, attua la realizzazione del regno e porta in sé la comunione con il tutto e con il “senso” dell’Universo. E se anche Dio non esiste il perseguimento di quell’orizzonte di valori da un senso di pienezza alla vita perché la virtù è ricompensa a se stessa e quindi sarebbe in ogni caso valsa la pena di seguire le orme di quel “pazzo” chiamato Gesù morto in croce e “risorto” come “Cristo”.

Sia chiaro, non voglio dare l’impressione che l’esegesi non sia importante. Tutt’altro! Riprendendo l’esempio della parabola del samaritano non è indifferente sapere o non sapere chi fossero i samaritani agli occhi degli ebrei osservanti e cioè molto peggio degli extracomunitari agli occhi dei leghisti nostrani. E, più in generale, l’approfondimento della situazione storica e la comprensione di usi e costumi del tempo non può che portare una luce più limpida sul messaggio di Gesù. E tuttavia, per restare al samaritano, il messaggio imperituro che resta, esegesi o meno, è: comportati come lui e allora sarai “prossimo”.

Ecco, mi sento di dire, per concludere, che non dovremo mai finire di ringraziare il lavoro esegetico che in questo paio abbondante di secoli ha fatto chiarezza di tante distorsioni e usi strumentali fatti dei testi “sacri” a noi pervenuti. E il lavoro, giustamente, continuerà e permetterà una lettura sempre più chiara delle fonti. Voglio aggiungere, però, che l’esegesi è un mezzo e non un fine. E, in qualche modo, penso che, pur amandoli e leggendoli tanto, occorra saper “prendere le distanze” dai libri “sacri” per non fare la fine degli occhiuti inquisitori di tutti tempi che aprendo “il libro” dicevano: “così sta scritto” e, un tempo, mandavano tranquillamente al rogo, oggi, non potendo più farlo, condannano alla “damnatio memoriae” i non allineati. E qui si aprirebbe un altro discorso che, chissà, affronterò in seguito.