Africa deformata

Elisa Kidané
www.nigrizia.it

Miopia. È l’anomalia che sembra colpire chi si ostina a “fissare” l’Africa invece che a guardarla, osservarla. Questa deformazione visiva prende soprattutto coloro che la fissano da troppo tempo e non riescono a distogliere lo sguardo. Il vizio ottico fa percepire l’oggetto in questione in maniera confusa ed è probabilmente la causa che induce coloro che ne sono colpiti a ripetere, come un disco rotto, le cose viste la prima volta. Rimangono agganciati a questa immagine. Non credono ci possano essere stati dei cambiamenti, non importa se le cose siano migliorate o peggiorate o comunque cambiate. No, il miope dell’Africa rimane legato indissolubilmente alla sua visione: lui parla della “sua Africa”, di quel villaggio conosciuto e amato, per carità, di quelle situazioni, di quegli avvenimenti, di quelle storie e basta.

Non gli importa nient’altro. Anzi, qualsiasi cosa venga a distrarre la sua fissità è percepita con malcelato fastidio. Quell’immagine così cara alla sua memoria gli serve per poter rimanere ancorato alla cattedra della sua esperienza vissuta e dalla quale potrà, indisturbato, sputare sentenze, tracciare giudizi, ed ergersi a maestro indiscusso perché “io sì l’Africa l’ho vissuta sulla mia pelle!”. E poi, vuoi mettere? È così trendy poter dire che “in Africa si fa così e cosà”, proprio perché questo modo di esprimersi gli dà la gratificante sensazione di abbracciare, con un solo verbo, popoli che percepisce pressappoco uguali. Il miope non riesce a differenziare e rischia di sottovalutare, ad esempio, un particolare: questa cosa che chiama Africa è solo un continente nel quale può starci cento volte l’Italia, è abitato da un miliardo di persone, con una miriade di culture, idiomi, società. Ma questa forma di miopia non consente distinguo.

Hai voglia di ripetere che amare l’Africa significa innanzitutto rispettarne la storia e quindi conoscere, studiare, approfondire, ricercare, chiamare per nome i popoli, i paesi e che non basta una superficiale cognizione di causa per essere autorizzati a bistrattarla. Siamo lontani anni luce da un serio approccio a un continente che merita rispetto, e non solo per le vessazioni che ha subito e continua a subire.

Questa richiesta di rispetto non è un escamotage per nascondere la realtà, ma l’unico modo per raccontarla in tutta la sua ampiezza e profondità. Senza tralasciare verità scomode ad intra e ad extra del continente.

Alzare lo sguardo, liberarsi dagli stereotipi concettuali e dall’immobilismo visivo aiuta a guarire dalla miopia ed è un passo in avanti per credere nelle potenzialità dell’Africa, nelle nuove opportunità di vita e di sviluppo. Solo chi ama davvero sa riconoscere, là dove tutti vedono il buio, sprazzi di luce vera. Comboni docet.

Quest’anno, a costo di essere ripetitiva, voglio proporvi spesso storie di donne africane, ma questa volta con nomi e cognomi, professioni, coraggio, determinazione. L’idea mi è venuta giorni fa ad un incontro sulle donne d’Africa. Una signora si domandava se le donne della diaspora avessero quel ruolo determinante delle loro madri e sorelle. La prima e immediata risposta è stata ricordare che le rimesse inviate dai migranti nei loro paesi d’origine, non di rado sono l’unica risorsa per mandare avanti le famiglie rimaste laggiù.

La domanda però mi ha lasciato una curiosità e sono andata alla ricerca di nomi per dare visibilità ai volti di donne della diaspora. Troppo spesso si parla di loro come di “effetti collaterali”, mentre spesso sono la colonna portante delle società. Ribka, Lula, Eden, Susan, Cecilie, Aminata, non importa se giunte in Italia ieri o 30 anni fa o nate qui, devono ogni mattina fare i conti con l’ottusità e la miopia di chi non riesce a riconoscere in loro la leva che determinerà il cambiamento dell’Africa e non solo.

A loro, al loro coraggio, alla loro resistenza, dedico questo 2013, perché ex Africa semper aliquid novi. Basta solo mettere a fuoco l’orizzonte.