Molto rumore per (quasi) nulla

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Il Congresso USA evita il fiscal cliff, ma a quale costo? Meno soldi in busta paga per i lavoratori dipendenti; aliquote fiscali privilegiate anche per chi guadagna fino a 400.000 dollari l’anno; trattamento di favore per tutti i redditi da capitale e nessun abbassamento della soglia di esenzione per le tasse di successione. E la partita delle riduzioni del bilancio è solo rinviata, di due mesi

Mercoledì il provvedimento è stato approvato al senato e giovedì alla camera. E così il Congresso è riuscito ad evitare il baratro, il fiscal cliff, nel quale si era messo da solo un anno fa votando una norma che, a partire dal 1° gennaio, avrebbe automaticamente tagliato centinaia di miliardi del bilancio dello Stato. Se a questa poi si aggiungeva l’eliminazione delle esenzioni fiscali volute da George Bush e rinnovate ogni anno, l’America si sarebbe trovata di fronte ad un drammatico aumento delle tasse per tutti i contribuenti unito ad un altrettanto drammatico taglio delle spese. I rigoristi finanziari sarebbero stati contenti (dopotutto era quello che volevano e vogliono tuttora), ma l’America sarebbe sprofondata nel giro di pochi mesi in una recessione provocata dalla perdita di commesse pubbliche, dalla mancanza di soldi nelle tasche dei contribuenti e da minori servizi erogati.

E invece con una votazione dell’ultim’ora (anzi a tempo scaduto) il baratro è stato evitato. Per accentuare ancora di più la drammaticità dell’evento Obama era tornato di corsa dalle vacanze natalizie nelle Hawaii dando il suo imprimatur alla trattativa condotta dal suo vice Biden insieme al repubblicano McConnell. Quindi tutto bene. Pericolo scampato?

Non proprio. Perché l’accordo raggiunto, nonostante sia stato annunciato come una vittoria del presidente e della sua nuova strategia più assertiva nei confronti dei repubblicani, ha scontentato un po’ tutti: non solo molti repubblicani di ogni tendenza, ma anche non pochi democratici liberal che l’hanno considerato molto al di sotto delle promesse e delle aspettative. Niente di che stupirsi, in fin dei conti, dal momento che ogni accordo comporta sempre una rinuncia parziale di ciò che si voleva inizialmente. Eccetto che in questo caso le ragioni della scontentezza vanno ben al di là dei benefici ottenuti.

Obama non voleva rinnovare le esenzioni fiscali se non per coloro che guadagnano meno di 250.000 dollari all’anno: ha dovuto accettare che la soglia venisse spostata a 400.000. La sua proposta avrebbe toccato il due per cento più ricco dei contribuenti, quella approvata solo l’uno per cento. Siamo molto lontani dalla platea del 5 per cento di che era stato il bersaglio delle proteste di Occupy Wall Street. In cambio Obama ha ottenuto una manciata di miliardi per finanziare i sussidi di disoccupazione per altri dodici mesi, ma ha dovuto rinunciare ad un importante incentivo economico: lo sconto (attualmente in vigore) sui contributi prelevati dalle buste paga, con la conseguenza che nel 2013 e oltre i lavoratori vedranno il loro reddito decurtato del due per cento.

Poteva andare peggio: a dicembre i repubblicani avevano perso la loro occasione d’oro quando avevano rifiutato l’offerta della Casa bianca di fissare ad un milione di dollari la soglia di esenzione dall’aumento delle tasse, in cambio di un accordo generale anche sui tagli. Allora avevano inscenato una ribellione contro il capogruppo Boehner, che inizialmente si era detto disponibile, ma aveva poi prontamente fatto marcia indietro. Per questo la trattativa era stata spostata al senato dove i democratici hanno la maggioranza e i repubblicani, essendo minoranza, sono più ragionevoli; ed era stata affidata alle sapienti cure di Joe Biden che oltre ad essere il vicepresidente e tecnicamente il presidente del senato è anche un parlamentare di lunghissimo corso.

Se i repubblicani hanno perso in parte la battaglia della soglia di esenzione (rinegoziata a 400.000 dollari), hanno però vinto quella sui dividendi e i profitti finanziari, che sono la vera fonte di ricchezza per i veramente ricchi, per i quali gli stipendi di manager pesano molto meno di quello che guadagnano con i proventi del capitale variamente investito. In questo caso il vantaggio è netto: tutti i titoli e proventi finanziari sono stati unificati ad una tassazione fissa del 20 per cento, molto di meno del 39 per cento di tassazione per i più alti redditi da lavoro. Insomma, il miliardario Warren Buffett, che aveva denunciato con indignazione il fatto che la sua segretaria pagasse più tasse (in percentuale) di lui, dovrà continuare ad indignarsi.

In conclusione, meno soldi in busta paga per i lavoratori dipendenti, aliquote fiscali privilegiate anche per chi, guadagnando fino a 400.000 dollari l’anno, non può certo essere definito indigente, trattamento di favore per tutti i redditi da capitale e — dulcis in fundo — nessun abbassamento della soglia di esenzione per le tasse di successione che l’amministrazione Bush aveva portato a 5 milioni di dollari. Ciò che è peggio è che mentre tutte queste norme erano in precedenza provvisorie e dovevano essere rinnovate ogni anno, adesso diventano definitive e sarà molto difficile, se non impossibile, rimettervi mano stanti gli attuali equilibri politici.

Se tutto ciò fosse almeno servito a chiudere la partita delle riduzioni del bilancio, forse si sarebbe potuto parlare di un buon accordo. Ma quella partita è soltanto rinviata, di due mesi. La minaccia del “sequestering”, cioè dei tagli indiscriminati già disposti per legge non è stata sventata. Entro marzo Casa bianca, democratici e repubblicani dovranno concludere un nuovo negoziato che si annuncia ancora più difficile di quello appena concluso e altrettanto minaccioso per l’economia del Paese. I fronti sono contrapposti e nessuno è al momento intenzionato a fare concessioni: i democratici non vogliono toccare la spesa sociale e i repubblicani non vogliono toccare le spese militari. Ad essere colpiti e arrabbiatissimi sarebbero i rispettivi bacini elettorali: il ceto medo e i ceti meno abbienti che dipendono dai servizi sociali per i democratici, le grandi imprese degli armamenti che sono le principali fonti di finanziamenti elettorali per i repubblicani. Ma oltre al costo in termini di consenso i tagli avrebbero un pesantissimo costo economico: si calcola che potrebbero ridurre di un punto e mezzo il PIL, in un momento in cui in America è in corso una fragile ripresa economica e la disoccupazione è ancora a livelli molto alti (per quanto sensibilmente più bassi di quelli europei).

Per di più la battaglia sui tagli sarà preceduta da un’altra delle periodiche battaglie all’ultimo sangue tra democratici e repubblicani, quella sul finanziamento del debito pubblico. I repubblicani hanno annunciato che mai e poi mai accetteranno di approvare un altro innalzamento della soglia del debito (attualmente fissato a circa 16.000 miliardi di dollari). Obama per parte sua ha già fatto sapere che non intende accettare che i conti per spese già approvate dal Congresso non vengano pagati, dal momento che questo minerebbe la credibilità finanziaria degli Stati Uniti in maniera ben peggiore del famoso fiscal cliff. Ma anche se Obama non vuole, le due battaglie saranno intrecciate e sicuramente i repubblicani useranno la minaccia di non autorizzare l’innalzamento del debito per strappare nuovi tagli all’assistenza sanitaria e ai servizi sociali. Sarebbe da irresponsabili, ma in passato hanno già dato ampie prove di esserlo.

Per intanto hanno già mandato un chiaro segnale all’amministrazione non votando la legge per gli stanziamenti per la ricostruzione nelle zone del New Jersey e di New York devastate dall’uragano Sandy. I repubblicani dei due stati hanno violentemente protestato contro i loro pari di Washington, ma non è servito a nulla. Forse i finanziamenti saranno approvati nei prossimi giorni, ma in ogni caso la maggioranza repubblicana ha fatto capire che ha il coltello dalla parte del manico e che intende usarlo.