Israele, le armi del voto

Michele Paris
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Con le elezioni anticipate per il rinnovo della Knesset (Parlamento) a meno di due settimane di distanza, il panorama politico di Israele appare sempre più segnato dallo spostamento a destra dei propri protagonisti a fronte di crescenti tensioni sociali interne e crisi regionali pronte ad esplodere. Superfavorito per la vittoria nel voto del 22 gennaio è ovviamente il primo ministro, Benyamin Netanyahu, con la sua coalizione di estrema destra. In grave difficoltà continuano invece ad essere i principali partiti moderati e di centro-sinistra, mentre un risultato inaspettato potrebbe metterlo a segno l’astro nascente della destra israeliana, il 40enne Naftali Bennett, con il suo partito “Focolare Ebraico”.

Il voto anticipato in Israele era stato di fatto deciso dallo stesso Netanyahu lo scorso ottobre in seguito al disaccordo con alcuni piccoli partiti ultra-religiosi che sostenevano il suo gabinetto in merito all’approvazione del nuovo bilancio dello stato all’insegna dell’austerity. In precedenza, alla luce delle inquietudini già emerse all’interno della propria coalizione, il premier aveva cercato di allargare la maggioranza parlamentare imbarcando il partito con il maggior numero di deputati in Parlamento, Kadima.

Lo scorso maggio, infatti, a poco meno di due mesi dalla sconfitta dell’ex ministro degli Esteri, Tzipi Livni, nella competizione per la guida del partito di centro, il nuovo leader, Shaul Mofaz, aveva siglato a sorpresa un accordo per la formazione di un governo di unità nazionale con Netanyahu. L’esperimento, tuttavia, sarebbe fallito solo poche settimane più tardi.

La sconfitta nella corsa alla leadership di Kadima aveva in ogni caso convinto la Livni a uscire dal partito per formarne uno nuovo – Hatnuah (“Il Movimento”) – annunciato infine il 27 novembre scorso e fondato assieme a sette altri colleghi parlamentari.

Le divisioni e gli stenti dell’opposizione hanno così convinto Netanyahu a indire nuove elezioni, con la certezza di riuscire a conquistare senza troppe difficoltà un nuovo mandato, questa volta senza la necessità di contare sui partiti ultra-religiosi e formando invece un blocco elettorale con il partito di estrema destra di Avigdor Lieberman (Yisrael Beiteinu), ministro degli Esteri e vice-premier fino allo scorso dicembre quando ha rassegnato le dimissioni dopo l’apertura di un procedimento legale nei suoi confronti per frode.

Forse anche in seguito allo scandalo in cui è coinvolto Lieberman, il cui secolarismo è visto inoltre con sospetto da molti elettori conservatori, la galassia della destra israeliana ha registrato così l’ascesa nei sondaggi di un’altra formazione, quella di ispirazione nazionalista e religiosa (ma non fondamentalista) del partito Habayit Hayehudi dell’imprenditore di origine americana ed ex capo di gabinetto di Netanyahu, Naftali Bennett.

Secondo i sondaggi più recenti, quest’ultimo partito, che si oppone apertamente ad uno stato palestinese e propone l’annessione del 60% della Cisgiordania, potrebbe conquistare tra i 10 e i 15 seggi sui 120 totali in palio, piazzandosi subito dietro il Likud e il Partito Laburista.

Proprio i laburisti, a loro volta, si presentano al voto senza suscitare particolari entusiasmi e segnati dalla defezione di uno dei leader storici. Il ministro della Difesa, Ehud Barak, aveva infatti rotto con il Partito Laburista già nel gennaio di due anni fa per entrare nel governo Netanyahu. Barak aveva perciò creato il Partito dell’Indipendenza, assicurando all’esecutivo di destra il supporto di cinque parlamentari. Ampiamente screditato, Barak ha però alla fine annunciato il ritiro dalla politica dopo le elezioni, a cui il suo nuovo partito non prenderà nemmeno parte.

Ciò che resta dei laburisti sarà guidato nel voto del 22 gennaio dalla 52enne ex giornalista Shelley Yachimovich, la quale ha cercato di capitalizzare il malcontento diffuso nel paese verso le politiche del governo, così come le manifestazioni di protesta andate in scena in varie città israeliane nei mesi scorsi. Le intenzioni di voto pubblicate dai giornali israeliani in questi giorni assegnano al Partito Laburista una ventina di seggi contro i 13 su cui può contare attualmente alla Knesset.

Nonostante la vittoria di Netanyahu sia data per scontata da tutti i commentatori, l’apatia tra gli elettori appare palpabile. L’affluenza, già scesa sotto il 65% nel 2009, potrebbe addirittura avvicinarsi in questa occasione al 50%, mentre un recente sondaggio del quotidiano The Times of Israel ha messo in luce come oltre la metà di quanti si recheranno alle urne abbia una visione pessimistica per il futuro del paese.

D’altra parte, oltre alla prospettiva di ulteriori guerre, i provvedimenti in materia di economia che il nuovo esecutivo adotterà una volta insediato includono un drastico aumento delle tasse e delle tariffe pubbliche, nonché tagli alla spesa dello stato per far fronte ad un deficit di bilancio in netta crescita anche a causa della continua impennata delle spese militari.

Il prossimo gabinetto guidato da Netanyahu sarà caratterizzato poi da posizioni ancora più rigide in relazione agli eventi del Medio Oriente. In particolare, all’orizzonte si intravede un possibile intervento in Siria e la continua oppressione del popolo palestinese, come conferma il via libera dato recentemente a nuovi insediamenti illegali nei territori occupati.

Per quanto riguarda la questione iraniana, se essa è rimasta finora in larga misura fuori dalla campagna elettorale in Israele, il voto stesso del prossimo 22 gennaio secondo alcuni è stata una manovra proprio per preparare il terreno ad un’aggressione militare per colpire il programma nucleare di Teheran, grazie al rafforzamento della posizione di Netanyahu che dovrebbe produrre la consultazione popolare.

La rielezione di Obama alla Casa Bianca, le critiche espresse alla linea dura di Netanyahu da molti esponenti dell’apparato della sicurezza israeliana e la sostanziale impopolarità di un attacco unilaterale contro l’Iran devono avere però convinto i vertici della coalizione di destra a procedere cautamente in vista del voto.

Ciononostante, l’Iran è emerso in un discorso pubblico tenuto da Netanyahu lunedì durante una visita all’insediamento ebraico di Ariel, in Cisgiordania. Il premier ha affermato che “il pericolo per il pianeta non è l’università di Ariel o gli insediamenti israeliani nei quartieri di Gerusalemme, bensì un Iran che sta costruendo armi nucleari”.

Il capo del governo di un paese che possiede l’unico arsenale nucleare della regione senza mai averlo dichiarato e senza avere sottoscritto il Trattato di Non Proliferazione, già lo scorso settembre all’ONU aveva avvertito la comunità internazionale e, in particolare, gli Stati Uniti che l’attesa per fermare con la forza la presunta corsa al nucleare della Repubblica Islamica avrebbe potuto durare solo fino all’estate del 2013.

La questione iraniana e le tendenze guerrafondaie di Netanyahu si intrecceranno inevitabilmente, nel prossimo futuro, con i rapporti che si annunciano relativamente complicati con l’alleato americano.

Oltre alla risaputa freddezza tra il presidente Obama e il premier israeliano, secondo la maggior parte degli osservatori le relazioni tra Tel Aviv e Washington potrebbero diventare ancora più problematiche in seguito alla nomina di John Kerry al Dipartimento di Stato e dell’ex senatore repubblicano Chuck Hagel al Pentagono. Soprattutto quest’ultimo, infatti, pur non avendo ovviamente mai messo in dubbio la partnership privilegiata tra i due paesi, ha talvolta assunto in passato posizioni moderatamente critiche nei confronti di Israele.

Le reazioni allarmate per l’approdo di Hagel al Dipartimento della Difesa sono state però per il momento espresse soltanto da commentatori e media israeliani, soprattutto conservatori, o tutt’al più da esponenti di secondo piano del governo e del partito di Netanyahu.

L’atteggiamento del primo ministro e dei sui più stretti collaboratori appare invece improntato al silenzio, in attesa probabilmente di valutare sia la linea che seguiranno gli Stati Uniti riguardo alle questioni mediorientali una volta insediati Hagel e Kerry, sia le dimensioni della vittoria elettorale che, salvo clamorose sorprese, attende tra meno di due settimane Benyamin Netanyahu e Avigdor Lieberman.