L’Italia guerriera ora anche in Mali

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L’Italia è pronta ad un supporto logistico in Mali ”attraverso collegamenti aerei anche per le forze francesi”. Lo ha spiegato il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola al Senato precisando che si tratterà comunque di un supporto logistico e non ‘sul terreno'”. Riguarderà, a quanto afferma anche il ministro estri Terzi collegamenti aerei. L’Italia si unisce a Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti nel dare un supporto logistico che si tradurrà in sostegno alle operazioni con aerei da trasporto. Ma “non ci saranno operazioni ‘boots on the ground’, non manderemo cioè truppe militari”. Esattamente l’impegno di partenza preso per lamissione in Libia prima dell’intervento ufficiale Nato.

Ma i conti di questi “aiutini” collaterali (come i danni delle bombe fuori bersaglio), prima a poi arrivano al saldo. Di ieri la notizia che «Per motivi di sicurezza il governo italiano ha disposto la sospensione temporanea dell’attività del Consolato generale a Bengasi. Il personale dipendente farà rientro in Italia nelle prossime ore». Dice la Farnesina.

E l’articolo 11 della Costituzione? Ripasso per alcuni ministri. «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni…».

Mentre l’Italia avanza, altri discutono. Il solitario impegno francese, affermano Libération e Guardian nei propri editoriali, potrebbe avere presto bisogno di alleati. Come puntualmente verificato. Per Libération, i compiti di Parigi non sono solo militari. I francesi saranno presto costretti a convincere altri Paesi a occuparsi del conflitto.

Le ripercussioni strategiche continentali dell’intervento in Africa vengono analizzate dal quotidiano inglese in un articolo dal titolo praticamente identico a quello di Libération, la solitudine di Parigi in Mali. Il Guardian fa esplicitamente i nomi di Italia e Spagna come paesi interessati a spegnere ogni focolaio di crisi africano e agire in questo senso.

Dal Financial Times le prime riflessioni critiche sul nuovo conflitto. Partendo dalla Libia, chiedendosi se l’abbattimento del regime di Gheddafi sia stata una mossa strategicamente utile. Oltre le intenzioni umanitarie delle potenze intervenute, il quotidiano dubita sia valsa la pena di rovesciare il Colonnello visto quanto accede in Tripolitania e Cirenaica.

Il collasso del Mali – afferma FT – sarebbe conseguenza diretta della fine del regime secolare libico. Secondo uno studio pubblicato dalla Chatam House lo scorso anno, non solo la vera causa del fallimento dello Stato maliano sta nella precedente disintegrazione della Libia, anche gli avvenimenti siriani riflettono quanto avvenuto in Libia.

Per la cronaca di guerra, il quarto giorno di combattimenti – scrive Le Monde – è caratterizzato dai primi ostacoli incontrati dal Paese transalpino nella sua azione. Che afferma come Parigi sia cosciente dei rischi che l’intervento pone al Paese e agli ostaggi francesi nelle mani degli islamisti: la guerra sarà difficile e si svolgerà nell’ovest del Mali.

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Mali: integralismo, colonialismo, risorse

Ennio Remondino
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Il nuovo Afghanistan. Il Mali raccontato come nuovo terreno di lotta scelto dal radicalismo islamico per battersi contro l’Occidente. Ma non è soltanto quello. Al contrario dell’Afghanistan, il Nord del Mali è al centro di un territorio in cui ci sono immense riserve di petrolio e di gas dell’Algeria, nuovi giacimenti che sono stati scoperti in Niger, nello stesso Mali, in Mauritania. Si trova a fianco delle maggiori riserve mondiali di uranio del Niger che muovono le centrali occidentali. Ed è al centro del passaggio dei clandestini e della droga che vengono verso l’Europa. Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) controlla, dall’aprile dello scorso anno, questo territorio. Lo controlla direttamente e da lì può determinare, influire, sulla trasformazione radicale di tutte le rivoluzioni della “primavera araba”.

Tornano le crociate. Paure e ambizioni di Hollande. Sono oltre 5.000 i francesi residenti in Mali, ma la minaccia riguarda tutto l’Occidente dopo questo intervento militare, visto che Aquim afferma, “Sta preparando una guerra ai crociati” e che “dispone di armi sofisticate”. Sul fronte opposto la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Cedeao) ha già mobilitato 3.500 militari da inviare in rinforzo all’esercito maliano: da Niger, Nigeria e Togo 600 soldati ciascuno, da Senegal, Benin e Burkina Faso dalle 100 alle 500 unità ognuno, e dal Chad, che non fa parte della Cedeao, la disponibilità di uomini e flotta aerea, a bilanciare la defezione di Costa d’Avorio, Mauritania e Liberia, alle prese con problemi interni, e la posizione attendista dell’Algeria che non vuole “aiuti” occidentali nell’area.

Venti di guerra. Sul fronte Occidentale, da sempre Usa e Francia si sono dichiarati favorevoli a una soluzione armata stile Libia, disponibili per fornire logistica e addestramento. Secondo quanto riportato da alcuni media – Washington Post, Le Figaro e Jeune Afrique – gli Stati Uniti potrebbero utilizzare droni. La Francia – lo abbiamo visto – ha già dato il via al centinaio di forze speciali che aveva da dicembre nella regione, oltre il supporto aereo. L’opzione militare appariva scontata già dopo la riunione del 19 ottobre a Bamako tra rappresentanti di Onu, Cedeao, Unione Africana, Ue, che condividono il timore di un’implosione del Mali attraversato da spinte secessioniste, col radicamento di gruppi islamici radicali e instabilità istituzionale. Calcolati 500.000 sfollati su 15 milioni di abitanti, destabilizzando l’intera Regione

L’incertezza al potere. Cos’è accaduto nel Paese che è stato in grado nel 1991 di rovesciare con un colpo di stato incruento il regime a partito unico del generale Moussa Traoré e nominare Presidente, nelle prime elezioni libere, l’archeologo Alpha Oumar Konaré? Ribellioni al Nord e tensioni sociali mai sopite non hanno impedito al Mali una certa apertura e forme di democrazia interna reale: patto nazionale tra Governo e i movimenti dell’Azawad, un milione e 500 mila persone nomadi, i Tuareg, nell’aprile 1992. Libertà di stampa, sviluppo del turismo e investimenti stranieri. Progressi consolidati con l’elezione di Amadou Toumani Touré, ex generale e protagonista del colpo di Stato del 1991 che aveva fatto della cooptazione dei rappresentanti di tutte le correnti il suo metodo di governo. Poi colpi di stato e l’attuale ritorno di Touré.

Clientele tribali. Il favoritismo verso dirigenti mediocri, la corruzione, l’incanalamento delle risorse verso la capitale che assorbe il 90% di abitanti a danno delle regioni del nord e la penetrazione dei gruppi jihadisti di matrice qaedista nel Sahel, hanno progressivamente eroso le capacità mediatrici di Touré, convinto, dopo aver ottenuto la liberazione di 32 occidentali rapiti in Algeria nel 2003, di avere acquisito un ruolo fondamentale nei contatti con Aqim, esercitato con successo sino al 2010 anche grazie al supporto, in termini di mezzi e uomini, di Usa e Occidente nella “lotta al terrorismo”. Ma il “vento mutante” che attraversa l’arco Mediterraneo e i Paesi confinanti del sud, segnala invece una discontinuità profonda con il passato. Tra l’Africa che assaggia la democrazia e l’estremismo c’è stata di mezzo la Libia.

L’effetto “Libia”. Nel novembre 2011, a meno di un mese dalla caduta di Gheddafi, il gruppo “Tuareg per la liberazione dell’Azawad”, insieme a tutte le organizzazioni indipendentiste della Regione -“Movimento Nazionale Azawad”, “Movimento Popolare per la Liberazione dell’ Azawad”- forte di oltre 8 mila combattenti e rinforzato dai tuareg arruolati nell’esercito libico e rientrati -si parla di 2-3 mila uomini, addestrati e dotati di considerevole armamento- ha riproposto al governo la richiesta di indipendenza del Nord, dichiarandosi pronto alla lotta armata. Il conflitto, dilagato in tutto il Nord, ha mostrato un esercito demotivato, nonostante la fornitura di armi e addestramento da parte degli Usa, e incapace di contenere gli assalti dei tuareg. Stesso esercito che oggi dovrebbe dare sostanza all’intervento francese.

Nuovo colpo di Stato. Da questa situazione nasce il colpo di stato di marzo, guidato dal capitano Amadou Sanogo che annuncia l’insediamento del “Comitato Nazionale per il Risanamento della Democrazie e la Restaurazione dello Stato” e promette di restituire il potere ai civili al termine dell’emergenza. Il Paese si spacca in due. Alleanza militare dell’Mnla con formazioni jihadiste vicina ad Aqim, come “Ansar Dine”, Difesa dell’Islam. Organizzazione armata guidata dal leader tuareg Iyad Ag Ghaly, già console maliano in Arabia Saudita, e il gruppo Mujao, insediato a Gao, che hanno favorito l’avanzata dei ribelli. Il centro di Timbuctù è conquistato da “Ansar Dine” l’aeroporto dall’Mnla, mentre la città diventa sede del quartier generale di Aquim. A Bamako, nella base abbandonata dall’Esercito si installa la “Brigata Faruk”.

Maghreb islamico. “Al Qaida in the Islamic Maghreb” controlla militarmente gran parte del territorio grazie a tre comandanti algerini: Abu Zaid, Mokhtar Belmokhtar e Yahya Abu al Hamman. La dichiarazione di “Indipendenza da Mali per uno Stato basato su una Costituzione democratica” aggrava uno scenario già complesso: la Comunità internazionale, primi fra tutti Francia e Unione Africana, la ritiene nulla. Le milizie islamiste dichiarano che intendono esercitare la sharia nelle città conquistate. I militari golpisti invocano l’aiuto internazionale. Gli stessi tuareg, nomadi abituati a vivere attraverso le frontiere di Mali, Niger, Algeria, Libia e Burkina Faso si impegnano a rispettare i confini degli Stati, ma la Comunità Internazionale non ci crede. E di fatto, abbiamo certezza oggi, prepara l’azione militare in corso.

La resa dei conti. Il primo a capitolare è il Capitano Sanogo, che ad aprile firma con la Cedeao un accordo che obbliga i golpisti a passare i poteri al Presidente del Parlamento, Diouncounda Traoré, impegnato a fissare le elezioni presidenziali entro 40 giorni e a proteggere il Presidente deposto. In cambio, la Cedeao abolirà le sanzioni e concederà l’amnistia ai golpisti. Diventa pubblica la frattura fra i leader dell’Azawad e le milizie islamiste. Intanto l’Onu boccia la proposta di intervento armato presentata da esponenti militari di alcuni Paesi dell’Unione Africana guidata dal Presidente del Benin, Thomas Boni Yayi. Il rifiuto dell’Onu diventa elemento non secondario nella ripresa degli scontri fra tuareg e gruppi islamisti che in poche settimane conquistano -con i militanti di “Ansar Dine” e di “Mujao”- le città di Gao e Timbuctù con episodi di ferocia.

Jihadisti contro Tuareg. Lo scontro non è soltanto politico ma anche religioso. A Timbuctù vengono dissacrate importanti moschee e mausolei dove si pratica il culto dei santi della dottrina sufi, ritenuta “empia” dai jihadisti, fino a sconfiggere -con l’aiuto di Aqim- i tuareg dell’Mnla ad Ansogo, a pochi chilometri da Gao, costringendoli ad abbandonare definitivamente il territorio dell’Azawad. Su invito del “Consiglio per la Sicurezza e la Pace” riunito a luglio dall’Unione Africana ad Addis Abeba, si cerca di ottenere l’invio di una Forza militare internazionale per fronteggiare i qaedisti ed evitare il loro radicamento nel nord. La situazione del Mali e dei Paesi vicini spinge lo stesso Presidente a chiedere l’intervento dell’Onu. Nell’attesa, la Francia decide per tutti, con i propri parà ma con l’aiuto dei droni Usa.