L’Onu benedice la guerra in Mali

Marco Boccitto
www.ilmanifesto.it

La Francia ha informato i membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu sullo sviluppo della situazione in Mali. Rallegrandosi, al termine di una riunione a porte chiuse e per bocca dell’ambasciatore francese al Palazzo di Vetro, Gérard Araud, della «comprensione e del sostegno di tutti i partner». In sostanza l’intervento militare viene considerato legittimo. Miracolo interpretativo della risoluzione 2085, approvata il 20 dicembre scorso, che a parole sembrava limitarsi ad autorizzare la formazione di una forza inter-africana con l’appoggio logistico esterno. Ma tant’è. Anche l’inviato speciale dell’Onu per il Sahel Romano Prodi («Persino io – ha detto – che ero considerato tra i più estremisti nel cercare a tutti i costi la pace») sembra rallegrarsi per l’unanimità «mai vista» all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu a favore della guerra: «Non si poteva lasciare che la zona diventasse un presidio dei terroristi», ha commentato. Nessuno, a quanto risulta, ha chiesto le sue dimissioni per l’evidente fallimento della missione che gli era stata assegnata.

Sul terreno la situazione, pur in assenza di fonti dirette, sembra raccontare una storia diversa da quella immaginata dal ministro della Difesa francese Laurent Fabius, quando ipotizzava un impegno di pochi giorni o al massimo settimane. Nonostante l’intensificarsi dei raid aerei contro le postazioni jihadiste, i miliziani sono meglio armati e più organizzati del previsto. E a quanto pare mantengono il controllo sulla città di Diabaly, conquistata a sorpresa martedì, e su quella di Konna, da cui era partita venerdì la campagna maliana dell’esercito transalpino. In entrambi i casi infuriano i combattimenti. Paradossalmente ieri appariva più tranquillo il nord, dopo i pesanti attacchi contro i miliziani di Ansar Dine e del Mujao, dati in fuga un po’ ovunque (un loro comunicato parla di «ritirata strategica»).
Parigi schiera al momento circa 800 soldati, destinati a diventare 2.500 nelle prossime ore. Lo ha confermato ieri mattina il presidente François Hollande, in visita a un base militare francese ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi, precisando che «i raid condotti nella notte hanno colpito il loro obiettivo».

Ieri una colonna di carri armati francesi ha raggiunto la capitale maliana, Bamako. Vengono dalla vicina Costa d’Avorio, teatro dell’operazione con cui la Francia ha determinato, sempre manu militari, il passaggio dei poteri dalle mani di Laurent Gbagbo a quelle di Alassane Ouattara. È un ulteriore sintomo dell’imminente attacco di terra. Alla pari della riunione che si è svolta ieri, sempre a Bamako, tra i capi di stato maggiore dei paesi Ecowas (la Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale) che contribuiranno alla formazione di un contingente chiamato ad affiancare sul campo francesi ed esercito regolare maliano. A capo dell’Ecowas c’è al momento proprio il presidente della Costa d’Avorio, Ouattara, che con Parigi ha un evidente debito di riconoscenza. Il vertice di ieri segna il battesimo, se non del fuoco quantomeno operativo, della «Missione internazionale di supporto al Mali» (Misma). Edizione riveduta e corretta, ovvero drasticamente anticipata dalla mossa d’attacco francese, della missione autorizzata il 20 dicembre scorso dall’Onu. Come allora, viene prefigurato un contingente di 3.300 uomini al quale contribuiranno Benin, Ghana, Niger, Senegal, Burkina Faso, Togo e soprattutto Nigeria, la massima potenza economica e militare della regione, a cui è affidato il comando della missione e da dove arriveranno 900 uomini «prima della prossima settimana», come affermato dal presidente nigeriano Goodluck Jonathan.

Altre “stampelle” all’intervento armato francese arrivano come è ovvio dall’Occidente. La Germania, che ha già investito molti soldi sulla «messa in sicurezza» dell’area, si limita a fornire aerei da trasporto. Il Belgio fa altrettanto e aggiunge due elicotteri da soccorso. Ulteriore supporto logistico viene garantito da Canada e Gran Bretagna. Congratulazioni alla Francia arrivano dal ministro Usa della Difesa uscente Leon Panetta, che ha definito «cruciale» l’intervento per impedire ad al Qaeda di stabilire basi da cui lanciare attacchi contro l’Europa e gli Stati Uniti. Washington garantisce dunque «tutta l’assistenza di cui la Francia avrà bisogno», aerei cargo, rifornimenti, massima collaborazione in termini di intelligence e soprattutto droni da impiegare per il controllo del territorio. Impegnato in un tour europeo, Panetta sbarcherà oggi a Roma per incontrare nell’ordine il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il premier Mario Monti. All’ordine del giorno la situazione in Afghanistan, ma anche le modalità con cui l’Italia potrebbe dar man forte a Parigi nel nord del Mali.

Come era prevedibile l’intervento militare è destinato ad aggravare nell’immediato la situazione già esplosiva dei profughi e il dramma delle popolazioni civili. Secondo le stime dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati sono circa 150 mila i maliani che hanno lasciato il paese nell’ultimo anno e 250 mila gli sfollati interni. L’organizzazione umanitaria Intersos, presente a Mopti, sta approntando un piano d’emergenza per accogliere nuovi sfollati in fuga dal conflitto. Nel farlo denuncia il quadro «incerto e pericoloso» derivante dall’intervento francese e lancia l’allarme sugli effetti dei bombardamenti in tutta la regione.

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Mali, la nuova frontiera di Hollande

Michele Paris
www.altrenotizie.org

Mettendo fine a mesi di indugi e trattative internazionali, nel fine settimana appena trascorso il presidente francese, François Hollande, ha deciso di aprire un nuovo fronte di guerra in Africa occidentale, inviando centinaia di soldati e avviando una campagna di bombardamenti aerei in Mali, ufficialmente per contenere l’avanzata sempre più minacciosa dei ribelli islamisti nel nord del paese.

Ad innescare l’offensiva della Francia sarebbe stato l’ingresso il 10 gennaio scorso nella città di Konna, a oltre 600 km a nord-est della capitale del Mali, Bamako, delle forze ribelli, le quali hanno costretto l’esercito regolare alla fuga, minacciando di prendere possesso delle località cruciali di Mopti e Sevaré, dove sorge una base aerea di fondamentale importanza strategica. Con il resto del paese africano a rischio di cadere nelle mani dei ribelli, il giorno successivo Parigi ha perciò ordinato l’impiego delle proprie forze aeree, grazie alle quali Konna è tornata subito nelle mani del governo centrale.

Le bombe francesi avrebbero causato un centinaio di morti a Konna, dei quali, secondo quanto riferito ad Al Jazeera da un portavoce del gruppo integralista Ansar Dine, solo 5 guerriglieri e il resto civili. Inoltre, un pilota di un elicottero francese e una decina di soldati maliani sarebbero rimasti uccisi durante le operazioni. Nonostante la cacciata dei ribelli da Konna, come ha affermato il ministro della Difesa transalpino, Jean-Yves Le Drian, l’area attorno alla città rimane teatro di “intensi scontri”.

I bombardamenti sono continuati anche nei giorni successivi. Domenica, gli aerei francesi hanno preso di mira località più a nord, come Gao e Kidal, dove i ribelli avevano stabilito le proprie basi nei mesi scorsi. Pubblicamente, i principali alleati della Francia hanno espresso il proprio sostegno all’operazione. Gli Stati Uniti hanno offerto supporto logistico e di intelligence ma nessun soldato, mentre la Gran Bretagna soltanto velivoli per facilitare il trasporto delle truppe.

La lenta preparazione delle forze di terra africane per contrastare i ribelli islamici nel nord del Mali, seguita alla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e inizialmente prevista per il prossimo settembre, sembra avere subito un’accelerazione con l’iniziativa presa da Parigi. I governi che fanno parte della Comunità Economica dei Paesi dell’Africa Occidentale (ECOWAS) stanno infatti organizzando vari contingenti da inviare in Mali a sostegno dello sforzo francese.

Il Senegal e la Nigeria, ad esempio, avrebbero già inviato delle truppe, mentre 500 soldati dal Burkina Faso dovrebbero giungere nei prossimi giorni. Alla guida provvisoria dell’ECOWAS, va ricordato, c’è in questo momento il presidente della Costa d’Avorio, l’ex funzionario del Fondo Monetario Internazionale Alassane Ouattara, installato al potere proprio grazie all’intervento armato nella ex colonia dell’esercito francese nell’aprile del 2011 dopo le discusse elezioni del novembre precedente.

Il governo di Parigi ha in ogni caso tenuto a precisare non solo che i raid dei giorni scorsi hanno già fermato l’avanzata dei “terroristi” ma, come ha affermato domenica il ministro degli Esteri, Laurent Fabius, che l’intervento francese in Mali sarà solo “questione di settimane” e servirà ad aprire la strada alla forza multinazionale organizzata dai paesi vicini. Nonostante la massiccia campagna aerea, però, i ribelli hanno fatto segnare progressi nella giornata di lunedì, strappando all’esercito regolare la località di Diabaly, nel Mali centrale e a soli 400 km dalla capitale.

Il Mali, colonia francese fino al 1960, era precipitato nel caos lo scorso marzo, quando un colpo di stato guidato da un capitano dell’esercito addestrato negli Stati Uniti, Amadou Sanogo, aveva deposto il presidente uscente Amadou Toumani Touré. Pochi giorni più tardi, un’alleanza di ribelli Tuareg e integralisti islamici aveva facilmente cacciato le forze di un esercito regolare allo sbando dalle postazioni nel nord del paese. In seguito, i gruppi jihadisti avevano proceduto ad emarginare i Tuareg, imponendo le norme della legge islamica (Sharia) nelle aree da loro controllate ed attirando guerriglieri islamisti da svariati paesi africani, asiatici ed europei.

L’intervento delle forze armate francesi in Mali viene in questi giorni descritto da quasi tutti i media occidentali come una decisione necessaria, inquadrata nella consueta retorica di una “guerra al terrore” che ha fatto ora irruzione nel continente africano. Tuttavia, simili pretese risultano a dir poco assurde.

Innanzitutto, la crisi esplosa lo scorso anno in Mali è la diretta conseguenza del conflitto imperialista orchestrato in Libia per rimuovere il regime di Gheddafi. L’intervento della NATO nel paese nord-africano ha, da un lato, causato il rimpatrio forzato di guerriglieri Tuareg ben armati che avevano combattuto a fianco di Gheddafi e, dall’altro, consentito il flusso di armi fornite ai ribelli libici dall’Occidente e dalle monarchie del Golfo Persico a favore di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), la principale formazione estremista impegnata in Mali assieme ad Ansar Dine.

La doppiezza di Parigi, così come di Washington o di Londra, appare in tutta la sua evidenza proprio alla luce della vicenda libica e della risposta data più in generale ai fatti della Primavera Araba. In Libia, infatti, la Francia e i suoi alleati hanno collaborato in maniera molto stretta con il cosiddetto Gruppo dei Combattenti Islamici Libici (LIFG) per abbattere il regime di Gheddafi, fornendo ai suoi affiliati armi, denaro e addestramento.

Questa formazione integralista è da anni alleata precisamente con Al-Qaeda nel Maghreb Islamico, contro cui le forze francesi stanno combattendo in questi giorni in Mali, ed è attiva da tempo con propri uomini nella guerra civile in Siria in collaborazione con gruppi jihadisti come il Fronte al-Nusra, questa volta nuovamente per servire gli interessi dell’imperialismo occidentale, battendosi contro il regime di Bashar al-Assad.

La vicenda del Mali dimostra dunque ancora una volta come la cosiddetta “guerra al terrore” non sia altro che un comodo pretesto per promuovere gli interessi dell’Occidente nelle aree strategicamente più importanti del pianeta, dal momento che i vari gruppi estremisti riconducibili ad Al-Qaeda vengono di volta in volta utilizzati, a seconda delle necessità e con una schizofrenia solo apparente, come giustificazione per attaccare o invadere un determinato paese (Afghanistan, Mali) oppure come partner affidabili per portare a termine i propri obiettivi (Libia, Siria), salvo poi cercare di prenderne le distanze una volta raggiunti.

In Mali e in Africa occidentale, una regione con ingenti risorse naturali anche se tra le più povere del pianeta, sono piuttosto in gioco enormi interessi per la Francia, garantiti dalla continua interferenza di Parigi nei paesi facenti parte del suo ex impero coloniale.

Nel vicino Niger, ad esempio, la multinazionale transalpina Areva opera da decenni estraendo uranio con ben pochi benefici per la popolazione locale. Lo stesso Mali possiede giacimenti di uranio in gran parte ancora da sfruttare e su cui le grandi compagnie estrattive internazionali hanno già messo gli occhi, tra cui ovviamente quelle francesi, soprattutto alla luce dei problemi incontrati recentemente da Areva in Niger.

Da questa regione la Francia ottiene circa un terzo dell’uranio di cui ha bisogno per alimentare le centrali nucleari domestiche, così che la stabilità nelle ex colonie dell’Africa occidentale risulta un requisito imprescindibile per mantenere la propria indipendenza energetica.

La rapida decisione di dispiegare truppe francesi in Mali da parte di un politico notoriamente tutt’altro che risoluto come Hollande testimonia dunque dell’importanza della posta in gioco in questo paese e dei timori diffusi tra la classe dirigente d’oltralpe per una situazione che rischiava di sfuggire di mano al debole governo di Bamako.

Tra i governi occidentali rimangono però profonde divisioni interne, con molte voci che più o meno apertamente mettono in guardia dalle possibili conseguenze di un intervento diretto e che evocano uno scenario simile a quello afgano. Alcuni commentatori in questi giorni prevedono che gli estremisti islamici attivi in Mali, anche se evacuati definitivamente da città come Gao o Timbuktu, continueranno ad operare con tattiche di guerriglia e, al limite, con attentati terroristici in Africa settentrionale se non addirittura in Europa, come hanno minacciato di fare lunedì.

Per cominciare, queste formazioni jihadiste potrebbero trovare riparo nella vicina Algeria, il cui governo si era a lungo opposto ad un intervento esterno in Mali per le prevedibili conseguenze interne. Il presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, anche in seguito alle recenti visite di Hillary Clinton e dello stesso Hollande, ha però alla fine deciso di fornire il proprio sostegno all’Occidente, consentendo in questi giorni ai velivoli francesi di sorvolare lo spazio aereo del proprio paese.

Un’operazione che rischia di infiammare l’intera regione del Sahel ha infine trovato il sostegno praticamente di tutta la classe politica transalpina, dall’UMP ai neo-fascisti del Fronte Nazionale, ed ha confermato la natura del Partito Socialista, attraverso il presidente Hollande e il suo governo teoricamente di sinistra, di esecutore delle politiche neo-coloniali francesi come lo era stato Nicolas Sarkozy durante gli anni trascorsi all’Eliseo.

L’apertura di un nuovo fronte di guerra in Mali serve inoltre a sviare l’attenzione dalle politiche anti-sociali messe in atto dal governo socialista sul fronte interno. In particolare, l’intervento in Africa è giunto, probabilmente non a caso, in concomitanza con l’annuncio dell’accordo trovato nel fine settimana tra gli industriali e i principali sindacati sulla “riforma” del mercato del lavoro, con misure estremamente impopolari che prospettano lo smantellamento dei diritti dei lavoratori per favorire la competitività delle aziende francesi.