Resistere alle lusinghe dell’impero di G.Sarubbi

Giovanni Sarubbi
www.ildialogo.org

C’è dibattito, nel piccolo mondo del cristianesimo di base italiano, su temi che, dal nostro modesto punto di vista, dovrebbero essere assolutamente superati dalla storia e dalle idee che sono maturati in Italia e nel mondo da 50 anni a questa parte, cioè dal Concilio Vaticano II in poi.

Si ricomincia a parlare di “fermenti spirituali”, dei “fondamenti della nostra fede”, della necessità di avere “buoni pastori” e della “pastoralità”, con annesso loro riconoscimento e crescita da parte delle comunità, con il contorno di “bibbia al centro”, del “credere in Dio”, o se sia giusto o meno privilegiare il “sociale-politico” a scapito “della ricerca e testimonianza più specificamente di fede”. Ragionamenti partiti dalla affermazione che le comunità muoiono appena viene a mancare la figura fondatrice, sia esso un prete o un laico.

Crediamo si tratti di un discorso antico quanto il cristianesimo, che ha interessato con tutta probabilità anche le prime comunità dei seguaci di Gesù. Anche quelle comunità si trovarono a fare i conti con la morte dei primi apostoli, di coloro cioè che avevano iniziato a percorrere la via indicata da Gesù. Anche le prime comunità misero mano alla raccolta dei loro racconti, scrivendo i Vangeli. Alcuni di loro produssero lettere o testi apocalittici, si costituì in ogni comunità un gruppo di persone a cui si affidò il compito di proseguire il cammino iniziato dagli apostoli. I testi scritti cominciarono a circolare e ad essere letti e commentati nelle comunità. Iniziò la formazione di un vero e proprio “canone di riferimento” valido per tutte le chiese sparse nel mondo allora conosciuto.

Quelle scelte hanno segnato poi la vita delle generazioni successive. Nell’arco di due-tre secoli si è giunti alla istituzionalizzazione delle figure di riferimento delle chiese, presbiteri, diaconi, vescovi, che da servitori delle comunità si trasformarono in padroni assoluti delle comunità. Padroni che aumentarono a dismisura il loro potere a partire dall’editto di Costantino, di cui quest’anno ricorre il 1700mo anniversario, e dalla realizzazione di numerosi concili che codificarono i dogmi ancora oggi vigenti e considerati inamovibili. Servitori (questo il significato della parola “ministero” da cui deriva quello di “ministro”) che divennero man mano “funzionari di Dio”, con proprie regole e dottrine da diffondere e imporre anche con l’uso della forza.

Credo si tratti di una vicenda capitata più volte nella storia degli ultimi 2000 anni, sia in campo religioso che sociale. Basti guardare a ciò che è capitato al movimento di Francesco di Assisi, o a ciò che è successo con la Riforma del 16° secolo, nata per combattere la vendita delle indulgenze e trasformatasi via via in sostegno ai poteri dei principi e ad un sistema sociale, quale quello capitalistico, basato sul “beati i ricchi” anziché sul “beati i poveri”. Ma la stessa cosa si può dire ad esempio per il marxismo. La costruzione di apparati, la codifica di norme, di dottrine che delimitano “ciò che è giusto” da “ciò che è sbagliato” in modo netto, fanno parte della vita stessa dell’umanità dal suo sorgere ai giorni nostri, ma guai a lasciarsi imbrigliare dalle norme e dalle dottrine e a non saper comprendere i limiti e gli errori che ogni norma e ogni dottrina ha insito in se. Questo perché ogni norma o dottrina è figlia di un determinato livello di conoscenza dell’umanità, e quando le conoscenze dell’umanità cambiano quelle norme mostrano i loro limiti che bisogna essere in grado di riconoscere e cambiare.

Le comunità, religiose o meno che siano, muoiono quando non c’è più nessuno che, gratuitamente e senza imporre nulla a nessuno, si faccia carico personalmente del loro messaggio senza la necessità che questo si trasformi in qualcosa di codificato o strutturato attraverso norme o apparati burocratici che, questi si, stravolgono quasi sempre lo spirito originario dei fondatori. Chi ha dato il via ad una comunità ha compiuto una scelta personale, quasi sempre sofferta, mai imposta a chicchessia. Chi lo vuole seguire deve fare altrettanto mettendoci dentro la propria sofferenza ed il proprio impegno, senza stipendi o cariche o poteri piccoli o grandi che siano, perché dove c’è un potere li c’è anche il pericolo dell’abuso.

Le prime comunità cristiane passarono man mano dalla cura dell’uomo, alla speculazione ontologia, alla pura e semplice metafisica, dal “beati i poveri” al sostegno alle guerre imperiali e alla conquista di territori e potere, dal “dio umanità” di Gesù al dio posto nel settimo cielo, irraggiungibile lontano e terribile. Basta mettere a confronto le Beatitudini (Mt 5,1-12) con il testo del Credo Niceno-Constantinopolitano: da un lato una serie di impegni finalizzati all’umanità che i seguaci di Gesù sono chiamati a praticare, dall’altro una serie di affermazioni finalizzate al potere di una casta sacerdotale sull’umanità. Da un lato la gioia e le libertà di riscoprirsi fratelli e sorelle e vivere senza oppressioni reciproche, dall’altro l’oppressione la violenza la morte. Da un lato l’umanità da riscoprire e amare, dall’altra la “fede in Dio”. Si perché quando si parla di quali siano i “fondamenti della nostra fede” si fa riferimento inevitabilmente ad un corpus di norme e di comportamenti che da duemila anni a questa parte (Bibbia, preghiere, liturgie, sacramenti ecc.) hanno stravolto completamente l’originario spirito del movimento iniziato da Gesù, che certo usava il linguaggio e le idee allora comprensibili (Dio, preghiere, pastori, pecore e quant’altro) ma che inequivocabilmente invitava i propri discepoli a scegliere di stare dalla parte dell’umanità e dell’umanità debole e oppressa.

Non ci sono “preghiere, liturgie, o fondamenti della fede” da trasmettere a qualcun altro e per il quale ci sia bisogno di costituire “pastori”. C’è una umanità da amare, c’è un impegno da assumere, questo si, ed è quello che è il motivo conduttore del libro dell’apocalisse: resistere alle lusinghe dell’impero, combattere tutti gli imperi, liberare l’umanità dalla oppressione dell’uomo sull’uomo. Queste sono le cose per le quali vale la pena di impegnarsi e dare anche la propria vita.