Se la politica riprende il sopravvento sull’economia

Guido Rossi
Il Sole 24 Ore, 13 gennaio 2013

I commenti relativi alla politica e alla crisi in corso, fino almeno all’elezione del presidente Hollande, erano prevalentemente orientati nel ritenere che in tutti i paesi occidentali la politica avesse una connotazione decisamente conservatrice e di destra. Si soleva mascherare il conservatorismo liberista con l’inesistenza di politiche cosiddette di sinistra o di crescita, poiché l’unico problema rilevante era considerato quello dell’austerity e del rigore di bilancio, che non era di nessuna connotazione politica, bensì una decisamente sbagliata ideologia economica.

Che le politiche di austerità in periodi di crisi siano devastanti e comportino esclusivamente un ulteriore aggravamento della crisi, come è successo in Europa e in modo particolarmente doloroso negli ultimi anni anche in Italia, è ora finalmente, con incredibile onestà intellettuale, anche ammesso da chi fu tra i maggiori sostenitori, cioè il Fondo Monetario Internazionale.

La risposta politica all’esasperante distruzione di ricchezza, disoccupazione e povertà è appena avvenuta in Europa da parte del Presidente dell’Eurogruppo, Jean Claude Juncker, con un’inaspettata citazione di Karl Marx di fronte all’Europarlamento, accompagnata con la proposta di un salario minimo garantito in Europa.

Tuttavia, la vera spinta rivoluzionaria contro il liberismo monetarista e le varie agende di disastrosa austerità, è avvenuta ancora una volta, come ai tempi del “New Deal”, dagli Stati Uniti.

La sostituzione del Segretario del Tesoro Timothy Geithner con Jacob Lew, ha indicato un deciso cambiamento della politica economica americana da parte del Presidente Obama all’inizio del suo secondo mandato. Se è vero che Geithner, già presidente della New York Federal Reserve Bank, aveva infatti collegamenti continui con Wall Street e con la finanza internazionale, il nuovo nominato Lew, già Capo di gabinetto di Obama, a parte un breve periodo a Citigroup, è in quel mondo piuttosto un “diverso”. Se approvata dal Senato la sua nomina, già dal prossimo mese il nuovo Segretario del Tesoro dovrà affrontare lo scontro con i rappresentanti repubblicani del Congresso, che si dichiarano contrari a qualunque stimolo all’economica attraverso un incremento del tetto fissato per il debito pubblico, a meno che non ci sia un corrispondente taglio delle spese, particolarmente nel settore della sanità e del welfare. Obama ha già dichiarato di non avere alcuna intenzione di giungere ad una negoziazione su questi temi.

Nonostante le riforme dei mercati finanziari non siano per nulla completate dal Dodd Frank Act e dalle regolamentazioni internazionali, l’enfasi della nuova politica economica americana si è finalmente focalizzata su programmi antipovertà, di protezione della riforma sanitaria e di stimolo alla crescita e all’occupazione, che godono anche del plauso della Chiesa cattolica. Insomma, la difesa delle Banche e del capitalismo finanziario, lascia il passo e la priorità alla difesa dei fondamentali diritti del cittadino, a cominciare dal diritto al lavoro e alla salute. E questo, in un momento in cui ovunque le banche stanno aumentando utili e compensi, nell’incremento generale della povertà.

Che finalmente la politica stia riprendendo il sopravvento sull’economia?

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Basta austerity, è l’ora dello sviluppo

Federico Rampini
Repubblica, 11 gennaio 2013

Il dopo austerity sta cominciando. Dai vertici dell’Unione europea arrivano segnali, ancora discreti ma inequivocabili, di un cambiamento di rotta. Nessuno vuole prendere atto in modo brutale che le terapie fin qui applicate nell’eurozona erano proprio sbagliate.

Una tesi che invece ha autorevoli sostenitori su questa sponda dell’Atlantico: da Barack Obama al Nobel Paul Krugman. Senza ripudiarla troppo esplicitamente, l’austerity viene liquidata con uno stillicidio di dichiarazioni. Messe insieme, anticipano la fine di un’èra. Il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, ora finge che i feroci salassi al Welfare non abbiano mai avuto un imprimatur da Bruxelles: “E’ un mito che l’Unione europea imponga politiche dure, non è vero”.

Più drastico e anche autocritico, il presidente uscente dell’Eurogruppo, il lussemburghese Claude Juncker: “L’Europa sta sottovalutando la tragedia della disoccupazione, supera l’11% e non ce lo possiamo permettere. Dobbiamo realizzare politiche più attive per il mercato del lavoro”. Alla Bce Mario Draghi ammette che ancora “non si vedono segnali di miglioramento dell’economia reale” (l’unica che conta per i cittadini: investimenti, lavoro, reddito). Draghi rifiuta di pronunciarsi sulla sconcertante previsione di Angela Merkel, che in un’intervista del 2012 parlò di altri cinque anni di crisi. Rischia di essere la classica profezia che si autoavvera: sia per l’influenza che ha la cancelliera tedesca sul clima di fiducia generale, sia perché da Berlino viene la ricetta che ha prolungato finora l’austerity. “Gli Stati Uniti ci interpellano – aggiunge ancora Juncker che in passato era spesso allineato con la Germania – e noi abbiamo risposte di cortissimo respiro”.

Gli Stati Uniti non sono solo l’Amministrazione Obama. C’è anche un’istituzione multinazionale con sede a Washington, il Fondo monetario, che ha fatto una clamorosa autocritica. In un importante studio che porta la firma del suo direttore generale, Olivier Blanchard, il Fmi ammette di avere sbagliato sistematicamente le sue previsioni durante questa crisi. E sempre in una direzione sola: ha sottovalutato la pesantezza della recessione. Come si spiega questo perseverare nell’errore, a senso unico? Secondo l’auto-diagnosi del Fmi, sono stati “sotto-stimati gli effetti moltiplicatori dell’austerity come freno alla crescita”. Questi effetti sono tanto più pesanti se “l’austerity non è uno shock una tantum”, bensì una terapia protratta su più anni.

E’ esattamente la tesi keynesiana di Obama, Krugman, Joseph Stiglitz e tanti altri qui in America: “Non si esce dalla crisi a colpi di tagli”. I salassi al Welfare e ai servizi sociali riducono il potere d’acquisto e i consumi; la mancanza di domanda deprime gli investimenti e le assunzioni; il saldo finale è il calo del Pil che “aritmeticamente” fa salire proprio quel peso relativo del deficit e del debito che si vorrebbe ridurre.

Un altro studio che circola qui a New York, sfornato dalla Goldman Sachs, individua un solo caso nella storia in cui l’austerity sia stata accompagnata alla crescita. E’ il caso del Belgio, un paese così piccolo che l’andamento della sua economia è quasi interamente legato alla domanda dei paesi vicini come Germania, Francia, Olanda. Esclusa questa minuscola eccezione, austerity e crescita non coincidono mai nei fatti.

La controprova la fornisce proprio l’economia degli Stati Uniti. L’Amministrazione Obama ha la fortuna di non sottostare all'”ordo-liberismo” della Merkel, né ai parametri di Maastricht o altre versioni aggiornate di “fiscal compact”. Washington ha chiuso il 2012 con un deficit federale superiore all’8% del Pil, un livello che nella Ue vecchia maniera farebbe invocare commissariamenti esterni. E’ anche grazie al motore keynesiano della spesa pubblica che l’America ha una crescita che sfiora il 3% annuo, genera costantemente oltre 150.000 nuove assunzioni al mese da due anni a questa parte, e ha ridotto la disoccupazione dal 10% al 7,8%. Tutte quelle economie mondiali che hanno scongiurato la crisi o ne sono uscite in fretta – vedi le potenze emergenti dei Brics – hanno fatto ricorso a qualche variante della ricetta keynesiana.

L’Europa ci sta arrivando in ritardo, sulla scorta di un ravvedimento. E’ ancora Juncker il più colorito, che rispolvera addirittura l’autore del Manifesto comunista: “Occorre ritrovare la dimensione sociale dell’Unione economico-monetaria, con misure come il salario minimo in tutti i paesi della zona euro, altrimenti per dirla con Marx perderemmo credibilità verso la classe operaia”. Molto dipende ancora dalla Germania, e dall’esito delle sue elezioni. Il tedesco Martin Schulz, socialdemocratico che presiede l’Europarlamento, dà un’idea dell’orientamento nel suo partito quando ricorda di aver sostenuto l’azione di Mario Monti “sul principio di ricostruzione della fiducia”, ma precisa che questo sostegno non si applica “ai dettagli delle misure”. Le grandi manovre sono in atto, per prendere le distanze da una politica che non ha dato i risultati promessi.