L’America non è più quella di una volta

Furio Colombo
Il Fatto Quotidiano, 23 gennaio 2013

Il discorso per il secondo giuramento presidenziale di Barack Obama – incentrato sul concetto di uguaglianza e su tutti i valori della tradizione “liberal” americana – è destinato a segnare un prima e un dopo nella vita degli americani. Non solo del Paese, dello Stato o delle Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini.

Nel suo secondo, indimenticabile discorso inaugurale, il presidente Obama, carismatico come la prima volta, forse di più perché i capelli, intanto, si sono ingrigiti, parla all’America del tempo che sta per venire come di un viaggio. Ma di quel viaggio dice cose molto più forti e più audaci della prima volta, qualcosa che non era mai accaduto.

Lo testimonia il New York Times nelle pagine dedicate al nuovo “primo giorno”. Ma poiché noi parliamo dall’Italia, chiedo ai lettori di guardare per un momento a punti più vicini a noi e più lontani da quel grande quadro di festa. Ecco che cosa si vede e si ascolta. Dovunque si riuniscano think tank e gruppi di lavoro addetti a esaminare i problemi del mondo, a immaginare di spostare truppe, di decidere chi manda chi e che cosa e quale prezzo e dove e per quale ragione (o materia prima da salvare) nelle parti di caos del mondo, si notano riferimenti prudenti ma inquieti a proposito “dell’America che tende a tirarsi indietro”.

Stando attenti a citare il meno possibile il presidente Obama e a evitare di parlare di “nuova politica degli Stati Uniti” a proposito di impegno e disimpegno, ti fanno notare che, quando si tratta di combattere “il pericolo”, “il nemico”, “il terrorismo”, la “sfida di civiltà”, “l’America non è più quella di una volta”. L’ho sentito dire, anche nei giorni scorsi, nel Parlamento italiano durante le riunioni di emergenza delle commissioni Esteri della Camera e del Senato e nella imprevista seduta della Camera del 22 gennaio (dunque a Camere formalmente sciolte) per discutere dell’invasione del Mali, dell’intervento francese, del rifinanziamento del corpo di spedizione italiano in Afghanistan. Pensiero e linguaggio sembravano fermi a George W. Bush (che non si è presentato alla festa di Obama).

Ma torniamo a Washington. Il fatto è che lunedì 21 gennaio, davanti a un’immensa folla di cittadini che lo capiscono e lo amano, il solo presidente americano (dopo il 1945) che non abbia iniziato alcuna guerra e che stia chiudendo a una a una quelle che ha trovato, piene di sangue e di morti nel mondo, ha aperto con una frase mai detta prima: “Questo Paese deve avere il coraggio di affrontare e risolvere con strumenti di pace differenze, diffidenze e scontri, non perché sottovalutiamo i pericoli, ma perché i pericoli più grandi sono il sospetto e la paura”. E quando ha rivolto lo sguardo a ciò che sta accadendo nella vita del suo Paese ha detto queste parole difficili da dimenticare: “Non scambiate l’assolutismo per un principio, non confondete uno spettacolo con la politica, non pensate che un insulto valga un argomento della ragione”.

Ma ecco il punto alto, caldo e unico di un discorso presidenziale destinato a segnare un prima e un dopo nella vita degli americani, non solo il Paese, lo Stato o le Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini. Ricordiamo che Obama ha giurato sulla Bibbia di Martin Luther King (il 21 gennaio è il giorno che l’America dedica al leader assassinato a Memphis) e su quella di Abraham Lincoln, per evocare insieme la svolta della libertà segnata dal presidente antischiavista, e la svolta dei diritti civili conquistati dal predicatore nero contro il Ku Klux Klan e la segregazione.
E infatti l’incedere della voce, se lo ascoltate, diventa quello delle chiese nere del Sud americano che erano, negli anni Sessanta, i centri di mobilitazione, aggregazione e difesa. Ha detto, in sequenza, queste tre frasi: “Il nostro viaggio non è compiuto finché non raggiungeremo il traguardo dell’uguaglianza, a cominciare dalla paga che spetta per lo stesso lavoro a uomini e donne”.

“Il nostro viaggio non è compiuto finché i nostri bambini, dalle strade di Detroit ai quieti viali di Newtown alle colline dell’Apalachia sapranno che noi ci prendiamo cura di loro e gli facciamo festa e li salviamo da ogni pericolo. Il nostro viaggio non è finito finché i nostri fratelli e sorelle gay non saranno trattati come ognuno di noi, uguali di fronte alla legge”. Ed è come un giocatore di bowling che, con un colpo solo, sbaraglia tutti i birilli. Infatti Obama può dire, subito dopo, che è giusto che vi sia marriage equality, parità dei matrimoni.

E dichiara, da presidente, contro la destra americana e del mondo: “Non è vero che l’assistenza medica e un minimo di sicurezza sociale sminuiscono lo spirito imprenditoriale di un Paese. Non è vero che l’intervento sociale fa di noi una nazione di cittadini che chiedono. Essi ci rendono liberi di affrontare i rischi che fanno di noi un grande Paese”. Sono le parole di un presidente libero (unbound, dicono i commentatori americani usando parole da libri d’avventure, per dire qualcuno che si è liberato dalle catene) che governerà l’America nei prossimi quattro anni. Un uomo libero che ha poco conformismo e una visione chiara, quasi profetica, che vuole condividere. È vero, come dicono nei gruppi e think tank che studiano strategia, militare o economica: “L’America (certo l’America di Obama) non è più quella di una volta”.