“Fondata sul lavoro” la solitudine dell’articolo 1

Gustavo Zagrebelsky
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La Repubblica delle Idee, Torino 2-3 febbraio 2013 – Testo della lectio magistralis tenuta al Teatro Carignano per esaminare il rapporto tra la Carta Fondamentale e il tema al centro della due giorni di Torino

1. (Fondata sul lavoro?) Se, per esempio, l’Autore dei Ricordi dal sottosuolo fosse tra noi e riprendesse la parola, troverebbe nel nostro tempo ragioni per convalidare quella che, allora, fu formulata, e generalmente considerata, come la farneticazione d’un visionario: “allora tutte le azioni umane saranno matematicamente calcolate secondo quelle leggi, faranno una sorta di tabella di algoritmi, fino a 108.000, e verranno inserite nei bollettini d’aggiornamento; oppure, meglio ancora, ci saranno pubblicazioni benemerite, sul genere degli attuali lessici enciclopedici, in cui ogni cosa verrà calcolata e stabilita tanto esattamente, che al mondo non si daranno più azioni né avventure” (ma si finirà nella noia mortale, aggiungeva Dostoevskij). Forse, l’opera non è ancora conclusa, né tantomeno è conclusa con generale soddisfazione, ma certamente è in corso, come tentativo o, almeno, tendenza. Eppure, quel “fondata sul lavoro” che apre la nostra Costituzione vorrebbe, per l’appunto, essere il preannuncio di azioni e avventure indipendenti dalle tabelle di logaritmi econometrici. Vorrebbe starne fuori, anzi prima.

Fuori dalle immagini letterarie, la questione è formulabile nei semplici termini seguenti. La Costituzione pone il lavoro a fondamento, come principio di ciò che segue e ne dipende: dal lavoro, le politiche economiche; dalle politiche economiche, l’economia. Oggi, assistiamo a un mondo che, rispetto a questa sequenza, è rovesciato: dall’economia dipendono le politiche economiche; da queste i diritti e i doveri del lavoro. Dicendo “dipendere” non s’intenda necessariamente determinare, ma condizionare, almeno, questo sì. Ora, il senso del condizionamento o, come si dice, delle compatibilità è certamente rovesciato. Il lavoro è il risultato passivo di fattori diversi, con i quali deve risultare compatibile. Non sono questi altri fattori a dover dimostrare la loro compatibilità col lavoro. Il lavoro, da “principale”, è diventato “conseguenziale”. Su questa constatazione, credo non ci sia bisogno di spendere parola. La Repubblica, possiamo dirla, senza mentire, “fondata” sul lavoro?

2. (L’inizio) La vigente Costituzione rappresenta un momento della lunga storia del costituzionalismo moderno, una storia che ha inizio con la Restaurazione liberale, dopo la Rivoluzione e l’età napoleonica. L’ideale del costituzionalismo è senza tempo: istituzioni libere e garanzia dei diritti, con ciò che ne consegue: rappresentanza politica entro la separazione dei poteri, legalità e garanzia dei diritti, habeas corpus, tribunali indipendenti, libertà di stampa e libera formazione della pubblica opinione.

Ma, la storia del costituzionalismo è fatta di sviluppi a partire da quel nucleo: acquisizioni e ampliamenti, frutti di aspirazioni intellettuali, quando esse siano divenute obiettivi di lotte sociali. Nulla, infatti, si ottiene solo perché pare buono, giusto e bello. Ora, in taluni casi, le lotte sociali hanno comportato veri e propri capovolgimenti dei punti iniziali. Questo è il caso del lavoro, il nostro caso.

La Rivoluzione in Francia, che si era dapprima rivoltata contro i privilegi dell’Antico Regime – secondo l’interpretazione datane da Constant e dai “dottrinari” di quell’epoca – aveva superato il segno, onde ne doveva seguire necessariamente – come infatti ne seguì – una reazione terribile, secondo l’universale ed eterna legge del pendolo nelle cose politiche: “Ogni eccesso suole portare con sé una grande trasformazione in senso opposto: così nelle stagioni come nelle piante e nei corpi e anche, in sommo grado, nelle costituzioni” (Platone, Repubblica 563e, 564a).

In che cosa la Rivoluzione aveva superato il segno? Nella pretesa di superare politicamente quella che, nella concezione liberale, doveva essere la naturale divisione della società tra coloro che sono e coloro che non sono “padroni di se stessi”. I non-padroni di se stessi erano coloro che lavorano per vivere, cioè dipendono da un salario; i padroni di se stessi, invece, coloro che vivono di profitto o rendita. La distinzione, dal punto di vista analitico, non divide il campo in modo chiaro. Per esempio, Kant (Sopra il detto comune: “Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica” (1793), in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Torino, Utet, 1956, p. 260) la precisò così: sono padroni di se stessi anche coloro che vendono un proprio opus – gli artifices, gli artisti e gli artigiani -; non lo sono gli operarii, che lavorano mettendosi al servizio di un padrone, ammettendo comunque che “è difficile determinare i requisiti per ambire alla condizione di uomo padrone di se stesso (sui iuris)”.

Politicamente, la questione era però chiara. La società è divisa: da una parte stanno i lavoratori, i quali dipendono da altri e dunque sono in condizione servile; dall’altra stanno gli uomini liberi, la cui libertà dipende dalla condizione dei primi. Questa era la visione di fondo, una visione considerata naturale, perfino “di diritto naturale”, dunque insuperabile, una visione che ha radici nella notte dei tempi. Perché ci possa essere la libertà di alcuni, ci deve essere la condizione servile di altri. Senza la seconda, non ci può essere la prima. Ora, la partecipazione piena alla vita della città, in una società libera, per la contraddizione che non consente altrimenti, può spettare solo a uomini liberi. L’estensione ai non-liberi dei diritti politici, cioè della piena cittadinanza, sarebbe infatti una promessa di violenza, di prevaricazione del numero bruto e delle passioni sulla ragione, un attentato alla libertà (e alla proprietà) degli uomini liberi. Da qui, il suffragio ristretto, cioè il rifiuto dell’idea di cittadinanza generale, rifiuto non per ragioni contingenti, cioè per la momentanea e rimediabile condizione d’ignoranza e d’indigenza delle masse lavoratrici, ma per ragioni sociali strutturali. Se le costituzioni dell’800 fossero iniziate con una formula del tipo di quella del nostro art. 1, avrebbero detto: “fondate sulla proprietà”.

Il costituzionalismo, come dottrina politica, nasce con questo marchio classista che innanzitutto l’oppone alla democrazia, il cui ideale è la libertà e la partecipazione di tutti a una vita politica comune. La democrazia, come ideale, dovrebbe tendere a restituire a ciascuno la libertà originaria ch’egli ha ceduto nel momento della sua entrata in società, secondo la formula della quadratura del cerchio di J. J. Rousseau: “ubbidire al potere comune, restando libero”. Il costituzionalismo, all’opposto, riteneva che la partecipazione di tutti alla vita politica avrebbe comportato la perdita della libertà per tutti. Inoltre, il costituzionalismo, come dottrina a fondamento dualista, si oppone, per altro verso, alla sociologia marxiana che assume sì la società divisa tra proprietari e proletari, ma non per ragioni naturali: al contrario, come effetto di rapporti di produzione storicamente determinati, che la storia e le forze che in essa operano come “levatrici” si sarebbero presto assunti il compito di condannare e superare.

3. (Il rovesciamento) Il costituzionalismo delle origini ha compiuto un lungo cammino che giunge fino a noi. Se ciò non fosse avvenuto, lo considereremmo soltanto un’anticaglia, e non invece una forza ideale che tuttora alimenta le aspirazioni politiche delle nostre società. Per comprendere quanto lungo sia stato il cammino storico-concreto che è stato compiuto da allora, basta aprire, solo per esempio, la nostra Costituzione, al suo primo articolo: “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”. Quello che, all’inizio della storia, era criterio di discriminazione dalla vita politica – l’essere lavoratore – è diventato fondamento della vita comune, della res publica. È diventato il principio dell’inclusione.

Che cosa c’è stato tra quel lontano esordio del costituzionalismo e questo punto d’approdo? C’è stata l’ascesa delle masse popolari, cioè del mondo del lavoro, alla vita politica e l’accesso alle sue istituzioni. C’è stata, in una parola, la diffusione della democrazia, sia nella sua dimensione politica che in quella sociale. Di questa diffusione sono figli la generalizzazione dei diritti e l’uguaglianza rispetto ai beni primari della vita, come la salute, l’istruzione, la previdenza sociale, e il rigetto del privilegio. Primario tra i beni primari, il lavoro è stato accolto come fondamento della democrazia repubblicana.

Di “rovesciamento”, rispetto all’inizio, si può parlare con riguardo al valore sociale del lavoro: dall’esclusione all’inclusione nella cittadinanza. Non è stato un rivoluzionamento dei rapporti sociali originari, cioè un classismo alla rovescia. Per comprendere questo punto, possiamo considerare che, già dall’antichità – e il costituzionalismo delle origini condivideva questa considerazione – la democrazia non si considerava, a differenza di come noi oggi pensiamo, il “regime di tutti”, ma il regime del démos, e il démos non era tutto, ma parte. Lo si definiva per differenza, rispetto agli ottimati, cioè ai possidenti, e comprendeva la parte della società composta da quanti vivevano del loro lavoro, in sintesi “i poveri”, indicati così: “agricoltori, artigiani, marinai, manovali, bottegai” (Aristotele, Politica 1291b). Quando si parlava di democrazia, s’indicava un regime di classe, opposto all’aristocrazia, il regime dell’altra classe. Pericle, nel celeberrimo discorso sulla costituzione ateniese pronunciato in occasione dell’elogio funebre dei primi morti della guerra del Peloponneso, parla di democrazia come del governo che “si qualifica non rispetto ai pochi, ma alla maggioranza”; cioè non rispetto a tutti ma al maggior numero: noi diremmo ai lavoratori. Ma l’orgoglio di Atene – ciò per cui egli poteva dire che “noi non copiamo nessuno; piuttosto siamo noi a costituire un modello per gli altri” – non stava nella democrazia, un concetto infido, sospetto. Stava invece nella isonomìa, cioè nell’uguaglianza nell’accesso alle cariche pubbliche “in virtù del merito”, non della nascita o del censo: stava dunque nel carattere aristocratico del governo, sia pure un governo aperto a tutti i meritevoli (Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 37). Aristotele, che disprezzava la democrazia e apprezzava la politèia, arrivava ad affermare che sarebbe democrazia anche un regime di pochi se, sia pure improbabilmente, i poveri fossero meno numerosi dei ricchi (Politica, 1279b): “La ragione sembra dimostrare che l’essere pochi o molti sovrani nella polis è un elemento solo accidentale, l’uno delle oligarchie, l’altro delle democrazie, dovuto al fatto che i ricchi sono pochi e i poveri sono molti dovunque […] mentre ciò per cui realmente differiscono tra loro la democrazia e l’oligarchia sono la povertà e la ricchezza: di necessità, quindi, dove i capi hanno il potere in forza della ricchezza, siano essi pochi o molti, ivi si ha oligarchia; dove invece lo hanno i poveri, la democrazia: e tuttavia capita […] che quelli siano pochi, e questi molti”. È comprensibile, allora, il giudizio negativo, anzi la condanna, che per secoli ha aleggiato sulla democrazia. Se essa si basa sulla presa del potere di chi non ha nulla, se non il suo lavoro, allora regna l’ignoranza, l’invidia e la sopraffazione dei tanti poveri nei confronti dei pochi eletti.

Non è questa la nozione odierna di democrazia, nei Paesi in cui essa deriva da quella lontana radice. La democrazia non è il regime del dèmos nel senso stretto, riduttivo e anche spregiativo anzidetto, ma è il regime aperto a tutti. Non è democrazia socialista, nel senso in cui la formula significava nei Paesi dove s’era verificata una rivoluzione sociale. Il riconoscimento del lavoro come fondamento della res publica, la cosa o la casa comune, significa compimento d’un processo storico d’inclusione nella piena cittadinanza, durante la quale non si è verificata alcun ribaltamento dei rapporti di classe: inclusione non rivoluzione, conformemente alla logica dello sviluppo storico del costituzionalismo, una dottrina che aborre i rivolgimenti, mentre è aperta all’evoluzione per acquisizioni cumulative, cioè evoluzioni.

4. (All’Assemblea costituente) Il dubbio che nel discorso sul lavoro potesse celarsi un sottinteso classista ha dominato l’elaborazione della Costituzione, manifestandosi soprattutto di fronte alla proposta di parte socialista e comunista: “L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori”, una proposta cui aderirono peraltro i repubblicani, in nome della loro ispirazione sociale mazziniana. Sebbene i proponenti stessi avessero precisato che, nelle loro intenzioni, il concetto di “lavoratore” doveva intendersi nel modo più ampio e comprensivo, la proposta fu respinta tre volte. La maggioranza dei Costituenti ritenne che “di lavoratori” potesse indurre a credere che la Repubblica democratica fosse “della classe lavoratrice”, nel significato proveniente dalla storia delle moderne “lotte di classe” e che si tendesse a un regime economico “collettivistico”. Si temeva che, con quella sola parola, carica di una storia di conflitti sociali, si potesse determinare una frattura nella storia del costituzionalismo e si potesse alimentare il sospetto che il percorso politico che l’Italia si accingeva a percorrere inclinasse verso i Paesi socialisti, le cui costituzioni contenevano formule simili, piuttosto che verso le democrazie dell’Occidente.

In breve, il “lavoro” che compare nella formula della Costituzione è il “lavoro in tutte le sue forme e applicazioni” (art. 35, comma 1) e non è dunque prerogativa della “classe lavoratrice”. Sono lavoratori e lavoratrici gli operai, gli impiegati, i dirigenti, gli imprenditori, i liberi professionisti, le casalinghe (si disse già allora), i giornalisti e perfino i professori universitari: secondo la formula allora in uso, tutti i lavoratori “del braccio e della mente”. Il lavoro in tutte le sue manifestazioni è, dunque, titolo d’appartenenza alla comunità nazionale, alla cittadinanza. È un fattore d’unità e d’inclusione: il lavoro spetta a tutti i cittadini e, rovesciando i termini dell’implicazione (dal cittadino al lavoro, dal lavoro al cittadino), con riguardo a chi viene dall’estero per lavorare da noi, si potrebbe aggiungere che – a certe condizioni di stabilità e lealtà – a tutti i lavoratori deve spettare la cittadinanza.

Questa è la nozione costituzionale generale del lavoro. Tale nozione, tuttavia, si scinde poi in nozioni particolari, a seconda delle situazioni e delle esigenze di tutela che ne derivano: la sicurezza, la dignità, la salute, la stabilità del lavoratore, ad esempio, non pongono i medesimi problemi quando si tratti di lavoro operaio o libero-professionista, di lavoro in fabbrica o casalingo, di lavoro stabile o precario, retribuito in base al tempo o in base al prodotto, maschile o femminile, ecc. Queste categorie non devono essere annacquate in un unico calderone, nel quale le differenze si perdano. Su tutte, la divisione che domina è quella tra lavoro salariato e non salariato, perché nel primo maggiore e più frequente è la possibilità, si sarebbe detto un tempo, di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La maggior parte delle disposizioni costituzionali sul lavoro si riferiscono a questa divisione.

5. (Il valore sociale e politico del lavoro) Il valore inclusivo del “fondata sul lavoro” si arresta però di fronte al parassitismo sociale, cioè di fronte a coloro che vivono esclusivamente del lavoro altrui. Si tratta di coloro che si sottraggono al dovere, stabilito nell’art. 4, comma 2, di “svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”. Questa norma negletta ci trasmette l’idea di una società impegnata a perseguire il bene di tutti o, se si vuole, il “bene comune”. Il lavoro è dunque visto in questa prospettiva politica, politica non certo nel senso della politica dei partiti, ma in quello della responsabilità verso la vita della pòlis. L’orgoglio del lavoro ben fatto – di qualunque lavoro si tratti -, di cui parla Primo Levi, è un sentimento profondamente costituzionale.

Questa concezione del lavoro però, al contrario di quel che potrebbe apparire, non deriva da una concezione organicista: il lavoro come funzione al servizio dell’economia nazionale o dell’impresa. I lavoratori non sono api al servizio dell’alveare, com’era invece in certe concezioni della sociologia di fine Ottocento o dei totalitarismi del Novecento. Sono i singoli, secondo le loro libere scelte, attitudini e vocazioni, a doversi orientare nel vasto campo del lavoro e ivi valorizzare i propri talenti.

Si disse, già da subito, che questo dovere attiene alla solidarietà sociale (art. 2) che è, prima di tutto, una virtù civica che, mancando di sanzioni giuridiche, ha valore essenzialmente morale, ma non per questo è meno essenziale. Anzi: attiene ai presupposti d’una società libera, poiché, dove manca, può essere surrogata soltanto dalla costrizione. Ciò che più è importante non sta nelle leggi, né nelle Costituzioni, ma in atteggiamenti spirituali che le precedono, senza i quali anche queste sarebbero nulla. Nel progetto di Costituzione si prevedeva bensì che l’inadempimento di tale dovere privasse dell’esercizio dei diritti politici. La proposta cadde in Assemblea, anche per l’impossibilità di stabilire con chiarezza e, soprattutto, senza addentrarsi in valutazioni da “stato etico”, la linea di confine tra i lavori che “concorrono al progresso materiale e spirituale della società” e quelli dettati da motivi puramente individuali ed egoistici.

Il ricordo del suicidio della democrazia, soprattutto nella Germania di Weimar, era, d’altra parte, troppo vivo perché non si considerasse il lavoro anche come precondizione della democrazia. Quell’esempio stava a dimostrare, se pure ce ne fosse stato bisogno che, più ancora dell’inflazione succeduta alla sconfitta nella Grande Guerra, era stata l’ondata di disoccupazione di milioni di persone, provocata dalla devastazione del sistema finanziario nazionale e internazionale seguito alla “grande crisi” del ’29 e da politiche economiche recessive, ad alimentare la rivolta contro la democrazia. Il disagio sociale e la disperazione del lavoro, quando diventano psicologia collettiva, sono un’apertura di credito a favore dei demagoghi che promettono miracoli. Com’è possibile, si chiede la classe media, che, d’un tratto, dall’agio della vita nasca la miseria, per di più per cause immateriali che stanno in cose come “il credito”, “il debito”, “le banche”, “il disavanzo”. Ci deve essere qualcosa di losco. Ben venga colui che svela l’inganno. La democrazia è accusata d’essere la forma che nasconde l’inganno.

Il significato profondo del collegamento, stabilito nell’art. 1, tra democrazia e lavoro sta qui: la questione democratica è questione del lavoro. Che cosa importa la democrazia se non è garantito un lavoro che permetta di affrontare i giorni della vita, propria e dei propri figli, e di affrontarli con un minimo di tranquillità? La democrazia non è solo questione di regole formali, ma anche di condizioni materiali dell’esistenza, come dice l’art. 3, secondo comma, della Costituzione. Il lavoro è la prima di queste condizioni materiali.

6. (Quale lavoro?) La formula “fondata sul lavoro” fu, da parte di alcuni del Costituenti, criticata perché generica. Forse solo nei regni del bengodi, come quelli cui pensavano gli utopisti del ‘6-‘700, dove bastava alzare lo sguardo e allungare la mano per cogliere i frutti spontanei della natura, oppure nell’utopico “regno della libertà” marxiano, è possibile vivere senza lavoro. Si osservò che anche le società schiavistiche, a iniziare da quell’Atene del V secolo a. C. che continuiamo a considerare culla della democrazia, fino allo schiavismo moderno praticato legalmente in certi Stati dell’America fino al 1865 e in Russia fino al 1861, erano “fondate sul lavoro”. Lo stesso, al tempo dell’industrialismo, quando uomini donne e bambini, senza protezioni e con salari da mera sussistenza, erano macchine da lavoro, all’opera giorno e notte. Lo stesso nei regimi totalitari, il cui simbolo sono le scritte come quelle che accoglievano i deportati nel campo di Auschwitz (“il lavoro rende liberi”) o, vicino a noi, i detenuti politici nel Forte di Fenestrelle (“Ognuno vale non in quanto è, ma in quanto produce”): citazioni tragicamente parodistiche e beffarde del progetto comunista di liberazione dal lavoro per mezzo del lavoro di lavoratori associati in un medesimo disegno di emancipazione. Lo stesso, ancora oggi, in tante parti del mondo, dove l’economia dello sfruttamento si svolge al di fuori d’ogni controllo legale. In quelle condizioni l lavoro non è un diritto, ma una dannazione.

Si può pensare che la nostra Repubblica democratica si fondi su una dannazione? Qualcuno, ad esempio il ministro d’un governo di qualche tempo fa, lo pensa e, per questo, crede essere un’idea brillante il sostituire “fondata sul lavoro” con “fondata sulla libertà”, quasi che, così, ci si possa liberare dalla maledizione biblica: “Tu mangerai il pane col sudore del tuo volto, fin che tu non ritorni alla terra” (Gn 3, 19) e tornare al paradiso terrestre. I Costituenti erano perfettamente consapevoli del lato oscuro, della fatica, dello sfruttamento che sempre alligna, come rischio, nel lavoro umano. Ma pensavano anche che esso può essere fattore di autonomia e dignità. L’homo faber è l’opposto dell’animal laborans, il servo, l’umiliato, lo sfruttato.

Il lavoro può essere concepito come condizione d’una “esistenza libera e dignitosa” (art. 36), cioè del “pieno sviluppo della persona umana” e della “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, secondo comma, Cost.).

Questa consapevolezza è alla base delle disposizioni costituzionali in materia di diritti sociali e di modalità d’uso della proprietà e d’esercizio dell’attività economica, disposizioni che prevedono limiti quali l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà, la dignità, la funzione sociale, il diritto alla giusta retribuzione, la durata massima della giornata lavorativa, il diritto al riposo, il limite minimo d’età per il lavoro salariato, la protezione speciale del lavoro femminile, la previdenza sociale per i lavoratori in caso d’infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia e di disoccupazione involontaria. Il lavoro non solo deve consentire un’esistenza libera e dignitosa, ma deve anche svolgersi in modo libero e dignitoso e, quando per qualcuno manca, la collettività deve assumersi gli oneri relativi.

7. (L’istituzionalizzazione delle relazioni nel mondo del lavoro) Non è superfluo ricordare, soprattutto oggi, la ragione della “sindacalizzazione istituzionalizzata” dei rapporti di lavoro che ha il suo centro nella contrattazione collettiva dell’art. 39 della Costituzione. Il diritto del lavoro, dopo l’industrializzazione senza regole degli inizi, si basa su una convinzione che è anche una constatazione: dal lato dei lavoratori subordinati, il potere contrattuale o è collettivo o non esiste, mentre l’impresa è di per sé, dal punto di vista economico-sociale, un “potere collettivo”. Che così sia, soprattutto in periodi di diffusa disoccupazione, quando il mercato del lavoro è sbilanciato da tanta domanda e da poca offerta, non c’è bisogno di dimostrare. Il lavoratore, come singolo, sarebbe in balia delle condizioni stabilite dalla controparte. Il lavoro è quella “merce sociale” per la quale si è disposti, se si è lasciati soli, a rinunciare a tutto il resto, anche alla dignità: lavoro, letteralmente, “a ogni costo”.

Sebbene si dica spesso il contrario, cioè che il sistema costituzionale delle relazioni sindacali ricalca il modello corporativo, le differenze, derivanti dall’intento di rovesciarlo, nel senso della libertà e del pluralismo, sono tante e così evidenti che non merita soffermarcisi. Ciò che interessa, per comprendere la situazione odierna, è la collocazione del contratto individuale di lavoro all’interno della contrattazione collettiva e il riconoscimento dello sciopero come diritto, anch’esso collettivo, quale strumento delle rivendicazioni del mondo del lavoro subordinato (art. 40).

L’art. 39 della Costituzione – peraltro inattuato per diversi aspetti, a cominciare dal riconoscimento dei sindacati, dalla verifica del carattere democratico della loro organizzazione e dal valore erga omnes dei contratti da essi stipulati tramite rappresentanze proporzionali – è chiarissimo, sotto quest’aspetto. Si partiva dalla convinzione che la posizione dei lavoratori si rende tanto più debole quanto più la contrattazione delle condizioni di lavoro si riduce di scala, fino al rapporto uno a uno. Per questo, le cosiddette relazioni industriali sono concepite secondo due principi-guida: generalità e unitarietà. La generalità consiste nella validità del contratto collettivo per intere categorie produttive; l’unitarietà, nella stipulazione attraverso rappresentanze sindacali comuni, costituite in proporzione degli iscritti. Nel contratto collettivo avrebbe così trovato forma l’incontro delle due componenti del mondo del lavoro, le imprese e i lavoratori dipendenti, ciascuna rappresentata nel loro insieme.

Sindacati e contratti collettivi sono dunque i due aspetti qualificanti delle relazioni tra datori di lavoro e lavoratori volute dalla Costituzione. Non sono elementi accidentali. Sono protezione del lavoro come diritto, dell’uguaglianza sostanziale e dell’esigenza di rapporti equilibrati tra le parti contraenti, portatrici d’interessi potenzialmente confliggenti.

Generalità e unitarietà della rappresentanza non escludono, ovviamente, che il contratto collettivo possa prevedere, per determinate materie che richiedono discipline meno astratte, contratti collettivi di livello inferiore, sia di categoria che territoriale, fino alla contrattazione aziendale. Tra questi accordi il rapporto è di gerarchia, al punto più alto essendo collocato il contratto nazionale, il quale, a sua volta, non può derogare le prescrizioni imperative di legge, poste a tutela di interessi pubblici non negoziabili, come previsti dai principi della Costituzione. Questo è il sistema che la Costituzione ha voluto.

8. (Il lavoro come diritto) Il “fondata sul lavoro” è dunque formula pregnante, nella quale convergono e si compongono i numerosi elementi della cosiddetta “costituzione economica”. Si comprende, però, che tutto sarebbe vano se il lavoro, il bene-lavoro, non fosse un diritto e fosse invece una semplice eventualità, oppure una concessione, un favore da parte di chi può disporne. Come si potrebbe “fondare la Repubblica” su un’eventualità, un favore e non su un diritto? Infatti, unico tra i diritti, il diritto al lavoro è esplicitamente enunciato tra i “principi fondamentali” della Costituzione. Ma, che genere di diritto è?

È chiaro che non si tratta d’uno dei diritti che i giuristi chiamano “perfetti”, diritti che il titolare può far valere in giudizio, nei confronti dell’obbligato, per ottenere il riconoscimento dell’obbligazione del secondo verso il primo e la sua condanna in caso d’inadempimento. Nulla di tutto ciò. L’accesso al lavoro deriva dall’equilibrio tra domanda e offerta sul “mercato del lavoro”, una condizione che a sua volta dipende da numerosi fattori d’ordine economico e sociale e non certo, primariamente, giuridico. Non esiste legge, non esiste tribunale al quale il lavoratore possa appellarsi per ottenere un “posto di lavoro”. Il lavoro, nell’attuale momento storico, non è un bene che esista in natura, sul quale possano accamparsi diritti. I posti di lavoro non si creano con la bacchetta magica dei giuristi o delle sentenze dei giudici. Di diritti in senso pieno si può parlare solo entro il rapporto bilaterale istituito con il contratto di lavoro. Ma nessuno, in un sistema basato sulla libertà, può imporre di contrattare e stipulare. Dovranno essere le circostanze a stimolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. E anche la stabilità nel lavoro dipende primariamente da fattori economici relativi alla vita dell’impresa. Il recesso ad nutum da parte del datore di lavoro non è più un principio generale del nostro ordinamento e il licenziamento è circondato da garanzie, queste sì di natura giuridica, previste per evitare arbitri e discriminazioni. Ma, la crisi irrimediabile dell’impresa ha effetti, a loro volta irrimediabili, sul lavoro degli occupati.

Ciò significa che si tratta d’un diritto che non è tale, o che è solo un’aspirazione che la Costituzione retoricamente denomina diritto? Si osservi che la stessa domanda si può porre, ed è stata posta, con riguardo ad altri “diritti”, anch’essi previsti dalla Costituzione, che pure non possono essere fatti valere direttamente davanti a un tribunale: il diritto alla salute, all’istruzione, alla previdenza sociale, ad esempio; o anche il diritto di formarsi una famiglia, di potersi permettere un’abitazione. Ma chi oserebbe oggi dire che questi “diritti di giustizia” non sono diritti? Che riguardano i pochi che se li possono permettere e che, gli altri, peggio per loro o ci pensi la beneficienza o la provvidenza? Negare loro la qualifica di diritti significherebbe negare valore alle pretese che li riguardano.

Semplicemente, invece, dobbiamo dire che vi sono pretese di diverso tipo: alcune si configurano come diritti perfetti e hanno come luoghi tutelari i tribunali; altri hanno come referente la politica, concetto generale che, in termini costituzionali, si dice “Repubblica”: legislazione, amministrazione, forze economiche e sociali, cioè tutte le componenti di possibili “politiche del lavoro”. Che tali pretese si rivolgano non ai tribunali, ma alla politica, non significa affatto ch’esse siano meno urgenti, meno cogenti nei riguardi di coloro che devono dare loro risposte: che non siano diritti.

Si può dire, ovviamente, che le politiche del lavoro, in quanto, per l’appunto, “politiche” non possono essere costrette in alcun modo, se non con modalità politiche. Se lo potessero, sarebbero diritti perfetti. Invece si tratta di diritti condizionati da politiche congruenti. La Costituzione non può che fare due cose, predisporre le condizioni e le forme necessarie, che devono però essere riempite di contenuto perché il diritto sia reso attuale.

In verità, quando, con una certa enfasi ma non necessariamente con la consapevolezza del significato, si dice che “il lavoro non è un diritto”, si dichiara semplicemente che si aderisce non all’algoritmo della costituzione – dal lavoro, alla politica, all’economia – ma al suo contrario – dall’economia, alla politica, al lavoro -.

9. (Capovolgimento n.1) In effetti, questo rovesciamento è sotto gli occhi di tutti, come prevalenza dell’effettività sulla legittimità.

Innanzitutto, il mondo del lavoro è in fase di decostruzione. I due principi-guida delle relazioni industriali, l’unitarietà e la generalità, sono insidiate dalla frammentarietà e dalla specialità. L’art. 39 della Costituzione proclama bensì la libertà di associazione sindacale e quindi il pluralismo e la reciproca autonomia delle organizzazioni dei lavoratori. Ma esso vuole altresì ch’esse operino solidariamente nei rapporti contrattuali con le controparti aziendali. Questo vuol dire la “rappresentanza unitaria” degli interessi dei lavoratori. Questa parte dell’art. 39 non ha trovato attuazione e le ragioni di ciò sono altrettanto note. Ma, pur in assenza di attuazione legislativa, l’esigenza costituzionale unitaria era pur stata soddisfatta dalla convergenza d’intenti, se non perfino dall’unità d’azione, dei sindacati. Oggi non è più così. La rottura dell’unità pone le organizzazioni dei lavoratori l’una indipendentemente dall’altra, di fronte alle aziende alcune delle quali, a loro volta, hanno rotto il fronte comune, uscendo dalla loro associazione di categoria. Ne deriva, come conseguenza, che le aziende possono contrattare con questa o quell’organizzazione sindacale, possono cioè scegliere il contraente più disposto ad aderire all’accordo, e lasciare da parte chi lo è meno o non lo è affatto, lasciando senza tutela diretta i lavoratori non iscritti ai sindacati contraenti (salva la tutela che, in taluni casi, può essere offerta contro i “comportamenti antisindacali”). In più, viene introducendosi un fattore di privilegio a favore dei sindacati contraenti e a sfavore di quelli non contraenti, i quali, secondo l’art. 19 dello Statuto dei lavoratori, non potrebbero costituire rappresentanze aziendali. Può trattarsi di alterazione anche grave, non solo nel rapporto tra lavoratori e datori di lavoro, ma anche nei rapporti tra i sindacati stessi tra loro e con la propria base associativa, a seconda della disponibilità più o meno marcata ad accordarsi con la controparte aziendale. Ciò non comporta la violazione di alcuna norma di legge, poiché vale il principio di libertà sindacale, ma certo determina un tipo di relazioni tra capitale e lavoro non conforme allo spirito, cioè al principio di unitarietà al quale s’ispira l’art. 39 medesimo.

Ma anche il principio di generalità, che si esprime nel contratto collettivo nazionale è oggi soggetto a logoramento. Anzi, è espressamente contraddetto da una norma contenuta nella “legge di stabilità” del 2011, che rappresenta un vero e proprio rivoluzionamento del sistema ricevuto delle fonti giuridiche in materia di relazioni industriali: una norma che si presenta col titolo dimesso e apparentemente amico di “contratti di prossimità”. Si tratta di contratti collettivi di scala minore, aziendale o territoriale, sottoscritti dalle associazioni dei lavoratori “più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero da rappresentanza sindacali aziendali”. Le intese così realizzate sono obbligatorie nei confronti di tutti i lavoratori, se sottoscritte da rappresentanze sindacali aziendali maggioritarie, e possono riguardare pressoché tutti gli aspetti del rapporto di lavoro. La finalità è quella di superare rigidità e uniformità, e favorire l’aderenza alla condizioni di realtà aziendali particolari. L’aspetto di maggior rilievo è che questi “accordi di prossimità” possono derogare, cioè contraddire, i contratti collettivi nazionali e perfino le disposizioni della legge. Queste norme diventano cedevoli, come dicono i giuristi, e nei contratti particolari possono stabilirsi, per i lavoratori, condizioni peggiorative. La Corte costituzionale (sent. n. 221 del 2012) con una motivazione sorprendentemente apodittica – si tratterebbe d’una limitata eccezione – ha salvato questa norma. Ma è facile comprendere ch’essa rappresenta, invece, l’allontanamento, se non il rovesciamento, dello spirito della Costituzione.

In sintesi, l’abbandono dell’unitarietà e della generalità ha come effetto di spezzare il fronte sindacale e di spostare il baricentro della contrattazione nella dimensione prossima alle esigenze vitali immediate dei lavoratori: dove si tratti di ciò, le resistenze evidentemente diminuiscono, e così la capacità contrattuale nei confronti dell’azienda. Quando poi è in gioco la garanzia del posto di lavoro, quando l’azienda subordina investimenti e occupazione alla sottoscrizione di determinati patti, di fronte a un simile Diktat, nel quale la disparità di posizione si rivela allo stato puro, l’accordo formale copre cedimenti sostanziali, rinunce a posizioni acquisite nel passato, disponibilità a condizioni di lavoro più pesanti. Se poi a ciò si aggiunge la consultazione referendaria che conferma il cedimento, è la democrazia sindacale a risultare svuotata.

Si dirà che tutto ciò non deriva che da condizioni oggettive imposte dal mercato mondializzato, non da volontà sopraffattrice delle aziende, che operano anch’esse in stato di necessità imposto dalla concorrenza globale. Si dirà che oggi imprenditori e loro dipendenti devono considerarsi non contrapposti negli interessi, ma accomunati nella medesima impresa, di cui tutti sono, a seconda dei ruoli, funzionari o “servitori” (come Federico II di Prussia, che diceva di sé d’essere il primo servitore e magistrato dello Stato). Ma questa è altra questione, diversa dal rilevare il discostamento dalla Costituzione, che rinvia alle possibilità e alle responsabilità della politica, nel promuovere e imporre standard comuni di tutela del lavoro e nel combattere l’omologazione del lavoro verso il basso.

10. (Capovolgimento n. 2) C’è poi un secondo, ancor più generale e profondo, rovesciamento. Il primo, di cui s’è detto, riguarda le relazioni industriali, le loro istituzioni e la condizione dei lavoratori subordinati. Ma questo secondo riguarda immediatamente il bene-lavoro, senza il quale vano è parlare del lavoro come diritto, delle sue istituzioni, delle sue condizioni.

Si dice che l’attività economica si è oggi spostata dalla cosiddetta “economia reale” alla “economia fittizia”, l’economia finanziaria. Questa seconda, in una specie di sortilegio, mira a produrre denaro dal denaro, attraverso transazioni finanziarie, più o meno spericolate, più o meno lecite, che producono però quelle che si chiamano “bolle speculative”, scoppiate o in attesa di scoppiare in giro per il mondo.

Ora, l’economia reale può produrre lavoro e stabilità sociale; quella fittizia, no. Sottrae risorse al mondo del lavoro, produce instabilità sociale e favorisce i pochi signori della finanza, fino a quando non saranno anch’essi travolti, e noi con loro, da un sistema privo di fondamento. Essa dirotta le risorse finanziarie là dove conviene, al fine di riprodurre e ingigantire se stessa e i suoi attori, attori che non sono né i lavoratori né gli imprenditori. Questa finanza “mangia” l’economia reale, l’indebolisce, è nemica del lavoro. Perfino nelle difficoltà dell’economia reale s’avvantaggia. Le crisi finanziarie che s’abbattono sui conti degli Stati non sono eventi della natura, come tsunami o alluvioni. Sono prodotte dagli interessi finanziari medesimi e sono certificate da agenzie indipendenti solo in apparenza, in un colossale conflitto (o, sarebbe meglio dire, in una colossale connivenza) d’interessi. Che cosa ha prodotto, del resto, il “risanamento finanziario” che il mondo finanziario internazionale chiede agli stati, come condizione dei loro investimenti? Chiede “riforme”. E queste riforme a che cosa hanno portato? Finora, a contrazione dell’economia reale, a crisi delle imprese, a diminuzione dei posti di lavoro, al peggioramento delle condizioni dei lavoratori, a emarginazione del lavoro femminile, a riduzione delle protezioni sociali. Sono conseguenze congiunturali, come pensa chi crede che al “risanamento” seguirà una seconda fase di sviluppo, oppure sono conseguenze strutturali d’una economia controllata da una finanza finalizzata a se stessa?

Bisogna dire con chiarezza: la finanza come mezzo e come fine, e non come mezzo finalizzato all’economia reale, è nemica della Costituzione, oltre che nemica dei popoli su cui si abbatte la sua speculazione. La speculazione finanziaria è interessata non a costruire stabilmente, ma a sfruttare l’instabilità che, per chi si muove sul mercato globale, è un’opportunità (salve le rovine che lascia dietro di sé). La finanza che genera lavoro s’è trasformata in finanza che lo distrugge.

11. (Capovolgimento n. 3) All’inizio di questa esposizione, s’è detto dell’algoritmo che la tutela costituzionale del lavoro dovrebbe implicare: dal lavoro, le politiche del lavoro; dalle politiche, l’economia. Il posto centrale è occupato dalle politiche. Oggi, assistiamo all’impotenza della politica, per quanto riguarda il capovolgimento n. 1. Nel mercato globale, si constatano due “scollamenti”, uno dimensionale e l’altro temporale: dimensionale, perché le politiche degli Stati non coincidono con i fenomeni globali della concorrenza; temporale, perché alla velocità delle delocalizzazioni delle unità produttive corrisponde la perdita di capacità contrattuale dei lavoratori, evidentemente non altrettanto facilmente “delocalizzabili”, come se fossero macchine e materia bruta. La politica subisce, non governa. La Costituzione aveva previsto il rischio e per questo ha detto: “La Repubblica promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro” (art. 35).

Quanto al capovolgimento n. 2, di fronte alla pervasiva forza, legale e illegale, della finanza, la politica si dimostra troppo spesso succuba, connivente o collusa. Chi sa resistere alla forza del danaro, che corrompe o, almeno, debilita le forze che dovrebbero regolarla?

Ora si pone la domanda che nessun giurista vorrebbe mai doversi porre: l’effettività, cioè i rovesciamenti costituzionali di cui s’è detto, sono solo eventualità che possono correggersi, governare, contrastare? Oppure sono necessità che possono solo essere assecondate, perché ogni resistenza sarebbe vana? Siamo padroni dei rapporti sociali ed economici o siamo condannati al darwinismo sociale? Se vale questa seconda risposta, la Costituzione, per la parte del lavoro, dovremmo dirla antiquata, superata dalla forza delle cose. Se vale la prima, resta aperta la possibilità d’una politica costituzionale del lavoro. Chi deve parlare, e agire di conseguenza, sono le forze politiche, sindacali e culturali. A loro, la risposta.

12. (Ultima domanda) Ora, in fine, un’osservazione, per così dire, da umanista, da “uomo del sottosuolo”. Di fronte ai disastri sociali della finanza speculativa, occorre ritornare alla “economia reale”, cioè alla produzione di ricchezza per mezzo non di ricchezza, ma di lavoro e di ricchezza investita sul lavoro. I “piani per il lavoro” di cui si discute in questi giorni significano questo. La parola d’ordine è “crescita”. Per aversi crescita occorre stimolare i consumi, affinché i consumi, a loro volta, diano la spinta alla produzione e, dalla produzione, nasca lavoro cioè reddito che, a sua volta, alimenta i consumi: una ruota che deve girare. Quando la ruota gira bene oliata, ciascuno di noi è una particella in funzione della ruota, cioè siamo produttori e consumatori. Tanto più consumiamo, tanto più lavoriamo e tanto meglio svolgiamo la nostra parte. Naturalmente, non è detto che tutti lavorino e consumino come gli altri. Ci sarà chi può lavorare di meno e consumare di più, e chi deve consumare di meno e lavorare di più. Dipende dai rapporti sociali, cioè dalla distribuzione dei vantaggi e degli svantaggi, cioè dai criteri di giustizia vigenti. In ogni caso, c’è qualcosa di sinistro in questa raffigurazione: l’essere umano che lavora per poter consumare e consuma per poter lavorare. Sembra la trama di una qualche raffigurazione mitologica d’una tragica spirale che deve girare sempre e, possibilmente, sempre più veloce, per funzionare a dovere.

Tuttavia, non è detto che si debba lavorare sempre nello stesso modo e consumare sempre le stesse cose. Su questo, almeno, la storia dice che le cose possono cambiare, che c’è una certa libertà di autodeterminazione. In effetti, ogni periodo di crisi d’un sistema economico ha avuto sbocco in qualche cosa di nuovo, e il nuovo è sempre cresciuto spontaneamente dal suo seno. Dall’economia di potenza, schiavistica e latifondistica dell’impero romano, si è sviluppata l’economia curtense alto-medievale, basata sull’autoconsumo di piccole unità economiche. Dall’eccedenza produttiva di queste, si è sviluppata l’economia mercantile e finanziaria delle signorie rinascimentali; da queste, il latifondo feudale; da questo, la fisiocrazia e le grandi manifatture pubbliche al servizio dello Stato assoluto; da ciò, l’economia capitalista, dapprima in dimensioni nazionali. Da qui, il gigantismo delle imprese multinazionali che ha generato ingenti concentrazioni di capitali, orientati infine alla finanza speculativa, ignara d’ogni responsabilità e generatrice d’instabilità sociale. Anche il fatto che si sia qui riuniti a discutere di queste cose, con il senso dell’urgenza che tutti avvertiamo, è la riprova che siamo ora dentro a una crisi di questo sistema.

Qui viene l’osservazione “umanistica”. L’economia mondializzata, omologata agli standard produttivi delle grandi imprese che operano sul mercato mondiale, la grande distribuzione al loro servizio, la pubblicità che orienta i consumi standardizzandoli e crea stili di vita uniformi: tutto ciò produce un’umanità funzionalizzata, ugualizzata nei medesimi bisogni e nelle medesime aspirazioni: in una parola, confluisce in una medesima cultura. Ciò significa elevare il conformismo a virtù civile. E’ questo ciò che vogliamo? O non occorrerebbe invece prestare attenzione a ciò che di originale, sotto la calotta in crisi dell’economia finanziarizzata su scala mondiale, si muove e cerca di crescere: nuove e antiche professioni, che cercano di emergere o riemergere, nuove forme di produzione, di collaborazione tra produttori, nuove reti di collegamento solidale tra produttori, nuove modalità di distribuzione e di consumo; riscoperta di risorse e patrimoni materiali e culturali esistenti, ma finora nascosti o dimenticati. Il nostro Paese avrebbe tante cose e tante energie da portare alla luce nell’interesse di tutti, cioè nell’interesse del “progresso materiale e spirituale della società”, come recita l’art. 4 della Costituzione. Nelle società libere, la politica non ha mai inventato o imposto nulla di completamente nuovo. Il suo compito è capire, orientare e aiutare ciò che di fecondo cresce e, parallelamente, opporsi a ciò che cerca di riproporsi, secondo esperienze che hanno già fatto il loro tempo.

Su questo terreno, mi pare che debba cercarsi la risposta a quella che, altrimenti, sarebbe solo una stucchevole controversia: la risposta alla domanda che cosa, oggi, voglia dire essere conservatori o innovatori.