Gallino: L’Italia del lavoro guidata a marcia indietro

Rossella Guadagnini
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Così non va. L’Italia è come un’auto guidata a marcia indietro. Occorre riprendere al più presto la giusta direzione e affrontare profonde riforme strutturali, invece che gridare alle cattive condizioni del giardinetto sotto casa, come accade nella vicenda che vede coinvolto il Monte dei Paschi di Siena. A dirlo a MicroMega è il sociologo del lavoro Luciano Gallino in questa intervista sui temi della crisi economica, che precede il suo intervento alla manifestazione La Repubblica delle idee, Anteprima di Torino, “… Fondata sul lavoro”, in programma dal 2 al 3 febbraio al Teatro Carignano.

Un anno e poco più di governo Monti. Professor Gallino che valutazione complessiva ne dà?
L’esecutivo Monti è stato il proseguimento di quelle politiche neoliberali che hanno contribuito a provocare la crisi, esplosa nell’estate del 2007. Questo governo è stato messo insieme e, per così dire, nominato, per risolvere problemi, utilizzando una strumentazione economica e una teoria politica del tutto identiche a quelle del passato. Tra Berlusconi a Monti non c’e’ stato alcun vero cambiamento. C’è certamente il vantaggio di essere considerate persone serie in Europa, che è sempre meglio del contrario. Ma quanto ai rimedi e agli interventi effettuati sul Paese, sono stati improntati alle politiche precedenti. Quello che non si capisce è come si possa pensare di uscire da una crisi aumentando la dose degli ingredienti che l’hanno procurata.

Sul piano internazionale assistiamo, in questi giorni, a un cambiamento d’opinione nel giudizio su Monti?
In effetti, si sta verificando un modesto, ma significativo, mutamento d’orizzonte. Autorevoli organi di stampa, come il “Financial Times”, organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario, stanno cominciando a dire che l’austerità continua a creare danni, piuttosto che guarire. A mio avviso, è una medicina peggiore del male. Purtroppo quest’idea non si è ancora affermata, ma trovo interessante che la sostengano economisti di livello, come il francese Olivier J. Blanchard. Da poco questo studioso ha pubblicato un’interessante ricerca in cui mostra che l’austerità, ai tempi della crisi e della recessione, è il peggior rimedio che si possa applicare. L’importante per uscire dalla stretta economica è tenere sotto controllo la spesa pubblica, senza però ucciderla. Invece, il governo Monti l’ha presa a mazzate. Occorre ricordare che anche il Fmi dice che è meglio la spesa pubblica col deficit, piuttosto dell’austerità che strangola l’economia.

I recenti dati Bankitalia annunciano segnali di ripresa solo nella seconda parte del 2013, con un più 0,7 per cento del Pil contro il meno 1 per cento di ora.
E’ una cosa che si dice fin dal 2009. Siamo ormai nel quarto anno in cui è annunciata una “luce alla fine del tunnel”, una lenta ripresa “al massimo tra sei mesi, un anno”… Questa, invece, è una profonda crisi strutturale, che non si può curare con piccole misure: un pizzico di riduzione d’imposta qui, un minimo incentivo lì. Servono grandi riforme che non sono state fatte, mi riferisco soprattutto alla regolazione del sistema finanziario internazionale. Sta qui il problema, e anche nel ruolo della Bce, a causa dello statuto monco di cui il Trattato di Maastricht l’ha dotata. Ci sono state, sì, delle ‘ripresine’, nel 2009 e nel 2010, ad esempio in Germania. Ma niente di veramente significativo e durevole, perché non sono state modificate le condizioni strutturali che hanno portato al deficit provocato dal grandissimo indebitamento del sistema internazionale. La crisi si è poi trasformata in una crisi del debito pubblico a causa dell’enorme spesa che gli Stati hanno dovuto affrontare per salvare le banche.

Come valuta la vicenda del Monte dei Paschi di Siena?
Il caso attuale dell’istituto di credito dovrebbe costituire uno stimolo ad avviare una discussione seria sulla necessità di riformare il sistema finanziario della Ue. Per un semplice motivo: i dirigenti di MPS saranno stati un po’ più incompetenti o meno fortunati della media, ma le loro azioni sono un perfetto campione rappresentativo di ciò che fanno quasi tutte le grandi banche europee, grazie alla deregolazione della finanza. A cominciare dal largo uso, per finanziarsi, del sistema bancario ombra, lo shadow banking di cui sembra davvero che in Italia nessuno sappia nulla. Invece di discutere dei vizi strutturali del sistema, che sono uno dei fattori del disastro sociale europeo, si preferisce da noi gridare alle cattive condizioni del giardinetto sotto casa.

L’occupazione sarà ancora in calo fino al 2014: si parla di un tasso del 12% di disoccupazione, che penalizzerà soprattutto i giovani. Che fare?
I giovani sono stretti in una tenaglia a causa della quale, da una parte, non si crea nuova occupazione e, dall’altra, s’innalza l’età pensionabile. Non c’è altro da fare che spendere per creare occupazione, bisogna che lo Stato spenda direttamente. La lezione viene dal New Deal, non ci sono altri mezzi efficaci.

Che significa tutto ciò in termini di prospettiva?
Quando si ragiona su questo si parte da un presupposto errato: i media e la politica tendono a rovesciare la piramide, quando affermano che occorre in primo luogo la crescita per produrre l’occupazione e il lavoro. E’ vero invece il contrario: sono proprio l’occupazione e il lavoro a produrre la crescita, in quanto i salari si trasformano in consumo e i consumi generano altro lavoro; la domanda fa venire voglia agli imprenditori di investire; chi ha stipendi regolari, con il pagamento delle tasse, accresce le entrate dello Stato e così via. Pensare che prima venga la crescita e dopo l’occupazione è come pensare di correre un gran premio guidando a marcia indietro. Così avviene in Italia.

Come ha pesato la crisi, quanto a diritti, sulla società italiana?
L’Italia sta attraversando una grave crisi di legalità. Da un ventennio a questa parte, una parte importante degli italiani ha dimostrato di non prendere sul serio le leggi. Due casi rappresentativi, che valgono per tutti, sono l’abusivismo edilizio e l’evasione fiscale. Negli ultimi 10 anni, inoltre, il Paese ha visto una continua perdita di diritti sul lavoro. La legge del 2003 ha creato un mare di precarietà e precarietà vuol dire un modo di lavorare con meno diritti. Ci sono stati diversi interventi legislativi e molti decreti che hanno inciso fortemente, come l’introduzione dell’articolo 8 dell’ultima manovra del governo Berlusconi.

Perché, a suo parere, è tanto importante abolire l’articolo 8?
Questo articolo è qualcosa di incredibile: permette – mediante accordi – di derogare da qualunque disposizione di legge concernente i salati, gli orari, le modalità di assunzione, i modi per sorvegliare la prestazione del dipendente, il passaggio da una mansione a un’altra. Significa, cioè, che si può rimettere tutto in discussione, attraverso patti locali delle imprese con i sindacati. Un inaudito svuotamento della legislazione sul lavoro, talmente grosso che finora è stato applicato in modo moderato, e ci sono stati anche una serie di accordi tra sindacato e Confindustria. E’ una legge, insomma, che permette di agire in deroga a tutte le altre leggi.

Come mai, tra i diritti dei cittadini, si è pensato che quello del lavoro fosse il più ‘comprimibile’?
Perché viviamo sotto l’egemonia del pensiero neoliberale. Le diverse organizzazioni economiche internazionali, già 15 anni fa, dicevano che laddove la legislazione del lavoro è più blanda, si crea più occupazione. Ma non è assolutamente vero, non è un legame empiricamente comprovato. Tanto che paesi come la Germania, che hanno una legislazione piuttosto rigida sul lavoro, hanno sempre avuto un tasso di occupazione molto elevato, mentre altri al contrario hanno un numero maggiore di disoccupati.

E una maggiore flessibilità cosa ci ha portato?
L’incremento della flessibilità non ha aumentato l’occupazione, ma solo la precarietà. Non è più una questione di oggi, oramai. Siamo intorno ai 4 milioni di disoccupati effettivi, dati scoraggianti, a cui si aggiunge tutta la quota del precariato. Dinnanzi a queste cifre lampanti si continua tuttavia a sostenere questa linea, anche in sede internazionale. Esiste un predominio ideologico: i cervelli vengono, per così dire, conquistati da teorie che hanno scarso fondamento.

In campagna elettorale il tema del lavoro è al centro dei programmi dei diversi schieramenti. Quali indicazioni la convincono di più?
Purtroppo, un’idea che sia una, non c’è. O, almeno, io non la vedo. “Cambiare si può”, di cui lei era tra i 70 promotori iniziali, resta in campo non come formazione politica, ma come movimento della società civile. Che programmi avete? Spero che il movimento, dopo le elezioni, continui a vivere e a fare proposte. L’idea di mettere insieme una lista consistente in così poco tempo era bella, ma molto ambiziosa. Ho partecipato anche a due o tre assemblee, piene di intelligenza, vitalità e buone proposte. Poi nel percorso pratico della formazione delle liste, molte cose non sono andate come dovevano. Ora aspettiamo i risultati elettorali.

Lei chi appoggerà?
Voterò per Sel. Bisogna augurarsi una vittoria del Pd e di Sel, tale che non abbiano bisogno di alleati. Ritengo infatti preoccupante la ventilata alleanza con Monti. Ci sono molte cose importanti da fare: ripensare la politica dell’occupazione in modo che lo Stato possa intervenire; rivedere il fiscal compact, il patto fiscale europeo che ha rilanciato il rigore; insistere affinché la Bce operi in modo differente, il che richiederebbe ritocchi anche a un paio di articoli del Trattato di Maastricht… Tutte cose lontane dalla cultura del Pd. Ma davvero impossibili se c’è Monti di mezzo.