Mali, la denuncia di Amnesty e HRW

www.lettera22.it

I nodi vengono al pettine. Nello stesso giorno, Amnesty International e Human Rights Watch, le maggiori organizzazioni di tutela dei diritti umani, hanno denunciato gli abusi commessi sulla popolazione civile nella guerra in Mali, dopo che francesi ed esercito di Bamako hanno ripreso le città sotto controllo islamista. Alle loro voci si aggiunge quella di testimonianze raccolte dai pochi giornalisti, tra cui quelli dell’Associated Press, che riescono a raggiungere le zone “liberate”.

Quello che si temeva e che, senza essere facili Cassandre, era già stato denunciato dalle prime indicazioni emerse dopo i raid francesi iniziati a gennaio, è adesso una realtà codificata che ha sostituito alle ipotesi e alle illazioni prove e testimonianze oculari che raccontano di bombardamenti, arresti indiscriminati, esecuzioni, corpi abbandonati nel deserto descritti da che ha visto. In un clima, denunciano le organizzazioni umanitarie, nel quale l’esercito maliano agisce da censore, dando indicazioni a chi parla con la stampa o vietando contatti con stranieri in cerca di informazione.

Amnesty International ha reso noto ieri un dossier, il primo sulla situazione in Mali durante il conflitto e redatto al termine dell’ultimo lavoro (di cui abbiamo dato notizia il 22 gennaio) di una missione spedita sul posto per verificare voci e timori che già allora, a nemmeno due settimane dai primi raid, si stavano trasformando nella cruda normalità della guerra e nel tradizionale meccanismo di “pulizia” che segue di regola le operazioni militari dall’aria. Il dossier (il quarto dal 2012 e il primo del 2013 dopo le missioni a Ségou, Sevaré e Niono e nelle città di Konna and Diabaly dopo l’arrivo dei franco-maliani) dice che un “quadro più chiaro del costo del conflitto sta iniziando ad emergere” anche se resta “molto difficile confermare tutte le circostanze delle molte presunte violazioni”. Amnesty ha però ricevuto testimonianze “credibili” su civili vittime di “esecuzioni extragiudiziali da parte dell’esercito del Mali dal 10 gennaio 2013”, cioè dopo l’intervento francese. Inoltre, l’organizzazione ha avuto notizia che almeno cinque civili, tra cui tre bambini, sono stati uccisi in un attacco aereo lanciato durante la controffensiva congiunta franco maliana per riprendere la città di Konna. Amnesty ha anche raccolto “testimonianze di violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario da parte dei gruppi armati islamici” che si sono macchiati di omicidi hanno fatto uso di bambini soldato.

Ma se le nefandezze degli islamisti dei gruppi qaedisti, da cui la stragrande maggioranza dei residenti ha preso le distanze, non stupiscono, ciò che più colpisce del rapporto è l’accusa all’esercito maliano, in qualche modo coperto se non altro dal silenzio delle autorità francesi. “Le informazioni ricevute da Amnesty – dice ancora il rapporto First Assessment of the Human Rights situtione after three week Conflict – indicano che dopo che le forze franco maliane hanno assunto il controllo di Gao e Timbuctu, civili tuareg e arabi – accusati di essere vicini ai gruppi islamisti armati – sono stati presi di mira da parte dei residenti e parte dei loro beni sono stati saccheggiati”. AI ha ricevuto richieste d’aiuto da gente di Gao che si dichiaravano obiettivo di rappresaglia per i suoi presunti legami con tuareg o gruppi armati islamisti, mentre le forze governative sarebbero rimaste a guardare.

Sugli attacchi aerei ancora si sa poco, ma la testimonianza di un parente delle vittime è inequivocabile. E’ l’11 gennaio a Konna: “Ho sentito il rumore di due elicotteri e immediatamente il lancio dei razzi…sono stato ferito da schegge nei piedi. Poi vengono sparate bombe contro le cinque finestre e le tre porte della mia casa dove ci sono mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle. Mi sono precipitato dentro e ho visto i miei fratelli coperti di sangue che scorreva a fiotti da diverse ferite…erano già morti”. Di quella famiglia ci sono nomi ed età: Aminata Maiga 40 anni, Adama dieci anni, Ali 11, Zeinabou sei. Un altro dei fratelli, Saouda, si è salvato: è stato ferito a un braccio e a una gamba. Poco più in là un siluro ucciderà un meccanico in bicicletta. Sono i primi effetti collaterali di cui abbiamo notizia certa.

Hrw dal canto suo ha denunciato ieri (un giorno dopo l’uscita del suo Rapporto 2013) un episodio raccapricciate: si svolge a Sevaré il 9 gennaio, prima dell’attacco francese, e mentre Konna, 65 chilometri più a Nord, è sotto attacco dei ribelli islamisti. Qui la pulizia (in parte anche etnica visto che si tratta per lo più di peul, una minoranza maliana dalla pelle ambrata e dai tratti somatici nilotici) è preventiva. La cornice è la stazione degli autobus dove l’esercito ferma dei sospetti che non hanno documenti: i testimoni raccontano di attimi drammatici in cui gli arrestati, prima di essere portati via, cercano disperatamente tra il pubblico testimoni della loro identità. Poi 13 persone, forse di più, vengono portate in un campo e fucilate. I loro corpi finiscono nei pozzi vicini, il modo ormai usuale in Mali per far sparire i cadaveri. L’esercito nega. Non sa nulla nemmeno di cinque uomini scomparsi nelle guarnigioni di Konna e Sevaré sempre in gennaio. Non è l’unico crimine denunciato dall’organizzazione che certifica anche testimonianze su soldati sotto l’effetto patente dell’alcol. Hrw non risparmia certo gli islamisti che si sono distinti in violazioni di ogni tipo: esecuzioni sommarie, e, come già denunciato dall’organismo con sede a New York, l’utilizzo di bambini soldato, addirittura di solo 11 anni.

Alle voci di Hrw e AI si aggiunge quella dei giornalisti. Ieri l’Associated Press ha riferito di tre uomini arrestati dai maliani a Timbuctu e visitati in carcere. I tre, islamisti noti, hanno denunciato torture: “Mi hanno versato in bocca e sulle narici 40 litri d’acqua sino a soffocarmi…pensavo di morire – dice Ali Guindo – dormivo all’addiaccio e ogni notte mi vbuttavano addosso acqua gelata”. Tutti e tre riferiscono ad Ap una versione molto simile. Sino a che i soldati non fanno rapidamente smettere l’intervista.

———————————————————-

La guerra in Mali durerà anni

Matteo Fraschini Koffi
Fonte: http://espresso.repubblica.it

La fotografia sul campo di battaglia è questa: i 2 mila soldati francesi e l’esercito del Mali avanzano verso Nord, per riconquistare la fetta del Paese finito nelle mani dei fondamentalisti islamici. A tenaglia, avanzano su due direttrici. Verso ovest hanno già ripreso Diabaly praticamente senza combattere perché i qaedisti sono fuggiti dopo i bombardamenti degli elicotteri francesi. Più a est sono arrivati a Savaré-Mopti e Douentza, si dirigono verso Konna. Procedono a tappe forzate, con l’obiettivo dichiarato di liberare tutto il territorio passando per le città chiave, Gao, Kidal, la mitica Timbuctù.

Lo Stato Maggiore di Parigi aveva fatto appena in tempo a dichiararsi «sorpreso dall’alta capacità militare dimostrata dai ribelli», ed ecco che questi fuggono con una rapidità che fa pensare a una tattica. Una sorta di ritirata strategica per salvare uomini e mezzi in vista di una guerra di lunga durata che è nel pronostico di tutti, compreso il nostro ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata. E del resto i numeri delle forze in campo lo dimostrano. I francesi sono 2 mila (diventeranno 3 mila). L’Unione europea partecipa con alcune decine di consiglieri militari (24 italiani) che avranno soprattutto il compito di addestrare l’esercito del Mali oggi composto da 10 mila uomini, solo un quinto dei quali è motivato a combattere e in diversi hanno già disertato. Contano sugli elicotteri e gli aerei francesi ma non possono vincere la “guerra del deserto” senza l’appoggio decisivo di chi conosce le insidie di quel terreno, cioè le truppe africane che tardano ad arrivare e chissà se arriveranno mai. I Paesi della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) avevano garantito la partecipazione alla “Missione di supporto al Mali” (Misna) con almeno 3 mila militari, ma stanno facendo rapidamente retromarcia. Dalla Nigeria e dal Togo sono arrivate alcune centinaia di soldati. Ciad, Senegal, Burkina Faso Benin Guinea e Niger stanno ancora alla finestra e si riparano dietro una questione economica irrisolta: chi paga i salari alle truppe e la logistica dei vari battaglioni?

Sul fronte opposto, gli islamisti possono contare se 4-5 mila guerriglieri fortemente motivati. Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) ha due brigate di 500 uomini. Il Movimento per l’unicità e il jihad nell’Africa occidentale (Mujao) conta su 500 effettivi e il grosso è garantito dai Difensori della fede (Ansar Eddine) formato da quei tuareg che hanno scelto l’islam estremo (un’altra fetta degli uomini del deserto è rimasta laica e neutrale), rivendicano da tempo un loro Stato e sono stati decisivi, nel marzo scorso, per la conquista del nord del Mali. Insieme posseggono un vero arsenale: mitragliatrici pesanti e cannoni antiaerei che possono montare sui pickup con cui terrorizzano la regione, missili terra aria SAM7, fucili d’assalto Kalashnikov AK-47. Conferma Diakaridia Dembele, uno dei pochissimi giornalisti ad aver incontrato i capi di Ansar Eddine: «Gran parte dell’arsenale del defunto regime libico di Muammar Gheddafi è nelle loro mani. Io l’ho visto». Rincara Salem Ould Elhaj, originario di Timbuctù e professore di storia in diverse scuole del Nord: «Gli islamisti hanno imposto la sharia, con fustigazioni e amputazioni di arti eseguite in pubblico, su un territorio vasto una volta e mezzo la Francia e lo hanno trasformato in un enorme covo per terroristi che conoscono alla perfezione». Fonti d’intelligence di molti Paesi occidentali avvertono: «Ci sono, nel Sahel, campi d’addestramento gestiti da radicali islamisti provenienti da Afghanistan, Pakistan, Cecenia, Indonesia e Nigeria». Diversi testimoni affermano di aver notato «anche alcuni europei di origine africana nelle file dei militanti». E i finanziamenti non sono un problema, arrivano, copiosi, dai traffici di droga, sigarette ed esseri umani, oltre che dai sequestri di persona.

Questo è il quadro che induce a parole di prudenza il capitano maliano Samasa, comandante delle operzioni nell’area di Niono e nonostante il successo dell’offensiva: «Ci muoviamo sul terreno con calma perché temiamo che alcune frange dei ribelli non si siano ritirate e si mimetizzino con la popolazione civile». Preoccupazione condivisa da un suo collega, il capitano Ibrahim Sanogo, che si trova sull’altro corno dell’avanzata, il fronte verso Douentza: «Cerchiamo di ripulire dalla presenza di terroristi le grotte che ci sono nella regione e che sono un ideale rifugio». Teme che i qaedisti in fuga, oltre a sabotare le antenne per i telefonini in modo da rendere difficili le comunicazioni, abbiano lasciato alle spalle piccoli gruppi isolati di combattenti in grado di condurre operazioni di guerriglia. E la preoccupazione è condivisa dallo stesso prefetto di Douentza, Issaka Bathily, che si è dovuto rifugiare a Mopti quando i terroristi hanno preso la città.