Violenza e sottomissione: così la pubblicità degrada donne e bambini

strong>Alexandra Boquillon
Articolo originale su L’Express, traduzione di Belinda Malaspina

Una donna seminuda, a quattro zampe, con mutandine di pizzo nero, reggiseno e reggicalze; un uomo obeso sopra una bilancia; una bionda legata e imbavagliata sulla pubblica piazza; una ragazzina mezza annegata in una piscina a colpi di tacchi a spillo. E non è un film dell’orrore, né il set di una pellicola pornografica rigorosamente destinata ad un pubblico adulto: si tratta di pubblicità. Sia che vantino le qualità di un paio di scarpe o di un aeroporto, sia che si tratti di reclamizzare un immobiliare, i pubblicitari sono pronti a tutto – incluso il peggio – pur di attirare l’attenzione dei consumatori. Già nel 1975 il fenomeno era diffuso a tal punto che L’Ufficio di verifica della pubblicità aveva redatto un rapporto sull’argomento, con lo scopo di trattare con più rispetto l’immagine della donna. Una questione che allora era nell’aria, ed era cara in particolare a Françoise Giroud, segretaria di Stato con l’incarico per la condizione femminile.

Da allora le cose non si sono per niente sistemate: anzi, l’Autorità per la regolazione professionale della pubblicità (Arpp) ha esteso le sue raccomandazioni alla più generale «immagine della persona umana». Inclusi i bambini, dati in pasto al pubblico in condizioni estremamente degradanti. La stessa Autorità ha appena presentato alla ministra per i diritti delle donne, Najat Vallaud-Belkacem, i risultati del suo ultimo studio. Si tratta di un’indagine su oltre 70 mila pubblicità diffuse nel 2011 mediante manifesti, nei giornali e su internet. «In questo gran numero di pubblicità analizzate nel 2011, abbiamo osservato 79 casi problematici», annuncia François d’Aubert, presidente dell’Arpp. Un risultato il lieve ascesa rispetto al bilancio del 2010, che aveva registrato 55 casi controversi. «Una goccia nell’oceano della pubblicità che ci inonda», rassicura d’Aubert.

L’Arpp ha classificato questi casi in tre categorie: dignità, decenza e «violenza, sottomissione, dipendenza». Per quest’ultima categoria, l’Autorità ha identificato su internet 16 problematiche «dello stesso genere della serie americana “Jackass”, dove la violenza è impiegata giusto per fare audience», constata Stéphane Martin, direttore generale dell’Arpp. «Nel 2011 l’aeroporto di Marsiglia-Provenza ha diffuso una pubblicità che mette in scena un serial killer in partenza da Marsiglia intento a commettere torture dal vivo», racconta Martin. A sua difesa, il committente ha dichiarato che si trattava chiaramente di una finzione, prima di capire che questo genere di pubblicità poteva anche avere risvolti negativi sulla sua immagine. La diffusione del video è stata sospesa nel 2012. «Scioccare per il gusto di farlo non è propriamente il mezzo migliore per attirare la clientela», insiste Martin.

In compenso il cosiddetto porno-chic, classificato sotto la stessa categoria, va a scomparire. «Una buona notizia», secondo la ministra Najat Vallaud-Belkacem, oltretutto con soli 6 casi problematici individuati nel 2011. «Si trattava di un fenomeno legato alla moda, che proveniva dai designer più in voga. Oggi le nuove tendenze sono più rassicuranti», fa notare Hervé Mondange del Consiglio paritario per la pubblicità. La sessualizzazione precoce dei bambini, una delle preoccupazioni dell’Arpp, è ugualmente scomparsa dagli spot pubblicitari. La campagna di una prestigiosa rivista di moda parigina, che raffigurava una giovanissima lolita truccata con mano pesante e vestita in modo seducente, è servita di lezione.

«Ridurre una persona allo status di oggetto sessuale» resta il caso più frequente di attacco alla dignità, la prima categoria (22 casi su 47). La nudità esibita senza alcun rapporto con il prodotto, le rappresentazioni degradanti e gli stereotipi sono altre problematiche evidenziate dalla commissione d’indagine reclutata dall’Arpp che ha portato avanti tale «colossale lavoro», come la ministra l’ha definito. Dal 2009 l’annuale rapporto è esteso anche al mondo di internet. «Il web non può essere una zona franca. Le regole si applicano anche alle piattaforme sociali», mette in guardia Najat Vallaud-Belkacem, fiera della cooperazione regolare con l’Arpp. E non è un caso che il 62 per cento delle problematiche riguardino ancora una volta le donne.