Due o tre cose a proposito del nuovo papa di G.Squizzato

Gilberto Squizzato
www.minimaetmoralia.it

Sentite come stride la parola “uscente” a proposito di un papa! Chi l’avrebbe mai detto, dentro e fuori la Chiesa, che il papa un giorno avrebbe potuto “uscire” dal suo ruolo di pontefice, lasciare il soglio di San Pietro, dimettersi da quell’immagine ieratica che da poco meno di due millenni è associata a questa figura suprema della gerarchia cattolica romana? Eppure è accaduto. E ancora più incredibile è che sia accaduto ad opera di un papa-teologo che certo non sarà ricordato come un riformatore, quanto piuttosto come un formidabile conservatore dell’assetto dottrinale e teologico pre-conciliare.

Eppure Benedetto XVI (proprio lui: il maestro di Giovanni Paolo II e l’ispiratore della sua politica fortemente repressiva d’ogni fermento innovativo) si è comportato come un autentico sovversivo della tradizione, e dunque anche della dottrina. Da giorni i commentatori più attenti e acuti vanno sottolineando sui giornali e sui blog della rete la portata di questa straordinaria novità, provano a ricercarne le cause, ipotizzano le conseguenze per il futuro più immediato della vita della Chiesa. Quasi tutti perlustrano il torbido panorama del cielo (e degli oscuri corridoi) del Vaticano alla ricerca della goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso della pazienza di un papa già allo stremo delle forze, molti provano a farsi psicanalisti (come il Moretti di Habemus Papam) per rintracciare i segni di uno smarrimento interiore del papa di tipo esistenzial-psicologico, alcuni più papisti del papa stesso vedono in questa scelta la prova di un coraggio che non può non essere stato inspirato dallo Spirito Santo in persona “per il bene della Chiesa”.

Varrebbe la pena, se proprio si volesse cercare una spiegazione profonda di questo gesto, andarla a cercare nelle parole di Benedetto XVI, per scoprire che magari – inaspettatamente, soprattutto per i laicisti poco adusi a frequentare questi recessi del pensiero religioso – il papa stesso ha suggerito la traccia per scoprire qualcosa di più profondo, che io non esito a definire “la sua lotta col suo Dio” (per riecheggiare la biblica “lotta di Giacobbe con l’angelo”). Benedetto XVI ha detto infatti (e scritto!) che sono venute meno le sue forze “fisiche e spirituali”. Non ha detto psicologiche, mentali, morali. Ha detto proprio “spirituali”. Il che significa, sulla bocca d’un papa, che egli si è sentito progressivamente deprivato quell’energia sovrannaturale (per usare il vocabolario della teologia fondamentale e fondamentalista di cui Ratzinger è oggi il principale esponente) che gli sarebbe stata necessaria per governare la Chiesa in una fase così fosca e tumultuosa della sua storia post moderna (l’epoca, per così dire, “del corvo nelle sacre stanze”).

Ma… quale forza? Quella necessaria governare la Chiesa e anzitutto la Curia romana? E a governarla come? Col potere sacro conferitogli all’atto della sua elezione otto anni fa. Non con la moral suasion (che è totalmente fallita, come lui stesso dichiara), non con l’astuzia diplomatica che si è del resto dimostrata estranea al suo carattere e insufficiente alla gravità della situazione, sfuggitagli quasi subito di mano: semplicemente con quel potere religioso che richiede e pretende sottomissione e obbedienza (sottomissione e obbedienza di cui gran numero dei prelati della curia – e non solo – si sono dimostrati particolarmente avari nei suoi confronti, pretendendo di fargliela sotto il naso conducendo bellamente e impunemente le proprie personali strategie, chi magari a fin di bene considerando il papa ormai troppo vecchio e indebolito, chi per ritagliarsi lo spazio di un dominio ecclesiastico di sua esclusiva pertinenza).

Proprio questo è mancato a Benedetto XVI – che ha tuonato con la poca voce rimastagli durante una delle poche celebrazioni pubbliche seguite all’annuncio delle dimissioni – : la forza di esercitare il potere sacro, di imporre l’obbedienza dovutagli in quanto capo della Chiesa. Ed esattamente questo avrebbe generato, nella sua accorata e irata omelia di congedo – le gravissime lacerazioni ecclesiali che avrebbero deturpato il volto stesso della Chiesa e avrebbe avuto i suoi primi responsabili negli uomini collocati ai più alti vertici dell’istituzione.

Ma quella di Benedetto XVI all’atto dell’annuncio delle dimissioni non è solo una dolorosa dichiarazione di debolezza ma anche – oso dire con molto rispetto ma anche con la franchezza che deriva dal dovere cristiano della parresìa-qualcosa che assomiglia a un ammissione di fallimento, rispetto all’investitura ricevuta e al dovere papale di tener fermo il timone della Chiesa. Come non leggere nelle sua dimissioni, e nella dichiarazione pubblica di progressivo indebolimento “spirituale”, anche (se non soprattutto!) la confessione di un disagio profondo con quello Spirito che non avrebbe dovuto fargli mancare le forze?

E questa è una questione teologica assoluta, perché chiama in gioco l’immagine stessa del Dio dei cattolici romani come la dottrina vaticana lo intende (e non va mai dimenticato che Ratzinger è stato per decenni il prefetto della Congregazione per la fede, e dunque – dentro quel paradigma – il custode dell’ortodossia). Perché siamo ora in presenza di un papa che dice al suo Dio: “Non mi sei stato abbastanza vicino, non mi ha dato la forza necessaria: ecco perché Ti riconsegno il mandato ricevuto. Ora pensaci Tu. Scegliti un nuovo papa e non lasciarlo solo.”

Come non riandare con la memoria all’invocazione angosciata di Paolo VI che durante il funerale di Moro rimprovera al suo Dio di non aver salvato l’amico innocente? Altro che lettura (solo) politica e/o psicologica delle dimissioni di Benedetto XVI! In questa scelta delle dimissioni c’è anche l’ammissione davanti all’intero popolo cristiano (direi quasi ex cathedra) che Dio può anche non darti le forze necessarie a compiere il tuo dovere fino in fondo! E che c’è uno spazio ulteriore all’incomprensibilità dell’azione divina che si manifesta proprio laddove il fedele pretenderebbe di vedere come sicura e indefettibile la presenza dello Spirito nel papa, costretto ad alzare bandiera bianca. Non parlo di incredulità del papa, non mi azzardo ad accusarlo di viltà come chi gli ha rimproverato di aver abbandonato la sua croce: ma non posso nascondermi che qui è il papa stesso a dichiarare che lo Spirito può ritirarsi e far mancare le forze al cristiano che deve rendere testimonianza. E questo Benedetto XVI l’ha mostrato pubblicamente, dichiarando esplicitamente che la sua abdicazione è “per il bene della Chiesa”. Capite? Per il bene della Chiesa ammette che Dio mi ha fatto mancare le forze e che ha dovuto restituirgli il mandato! Una rivoluzione teologica e dottrinale di straordinaria potenza.

Dalla quale scaturisce anche un’altra rivoluzione copernicana di cui pochi, credo, si sono accorti (fra questi certamente però Carlo Freccero). Un papa che si dimette modifica infatti, per così dire, il dna stesso della figura pubblica del pontefice. Gran parte degli osservatori, un po’ ignoranti in fatto di cose religiose, hanno commentato: beh, era ora, visto che anche i vescovi da un po’ di tempo sono costretti a dimettersi raggiunta l’età più avanzata. Non sanno costoro che un vescovo, anche se lascia il governo della diocesi, resta sempre vescovo, perché la consacrazione episcopale – secondo la dottrina cattolica tradizionale – ha trasformato, per così dire, la sua stessa persona, imprimendole un sigillo nuovo. Se sei vescovo non puoi “devescovizzarti”, lo sei per sempre (cosa che non vale per i preti che possono essere ridotti allo stato laicale perché partecipano al sacerdozio del vescovo finché questi lo concede): al punto che neanche il papa può togliere al vescovo questa dignità/natura sacra e il potere che ne scaturisce (il che spiega la lunghissima sofferenza vaticana per Lefebvre che, da scismatico, continuò a ordinare preti e a celebrare il sacramenti: cosa che indusse Benedetto XVI a far di tutto – compresa la reintroduzione della messa in latino – per ricomporre la divisione e sperar così di annullare gli effetti dello scisma).

Ma il papa che si dimette non è un papa che va in pensione: non è più papa e torna ad essere cardinale! Dunque quella di papa, d’ora in avanti, sarà vissuta (e soprattutto vista e sentita dai fedeli) come una carica a tempo. E così quella di papa diventa con Benedetto XVI una “funzione” ecclesiale, non più un’investitura ad aeternum! (Il che mi fa pensare che un papa medievale come Giovanni Paolo II sarebbe insorto contro l’allora prefetto della Congregazione per la fede cardinale Ratzinger se solo gli avesse fatto balenare le dimissioni come una possibile, praticabile eventualità…)

Eccoci dunque all’inizio di una nuova epoca della storia cattolica: da oggi quella papale non sarà più una consacrazione definitiva ma solo la nomina ad una suprema ma revocabile funzione (per adesso revocabile solo dal papa stesso, ma in futuro?). Ma questo cambierà la sostanza stessa della figura papale, agli occhi dei fedeli che vedevano fino a ieri in lui una certezza irrevocabile. Il papa è tale, da oggi, solo per svolgere un compito, una funzione, un ministero a tempo! Che sovversione! Perché così svanisce l’aura di sacralità che ha fin qui circondato – per secoli e secoli – la figura per papa: anzi, la sacralità stessa ne viene messa in discussione, perché sacra sarà d’ora in avanti solo la funzione, non la persona. Per intenderci: come chiameremo Ratzinger dal 28 febbraio? Non certo “santità”, perché la santità passerà – a tempo determinato! – al suo successore sul soglio di Pietro.

Capite bene che anche questa è una rivoluzione copernicana di cui ci renderemo conto solo col tempo: pensare al papa come al “presidente elettivo” della Chiesa cattolica romana produrrà non solo una mutazione di immagine del papa, ma anche di paradigma teologico, dogmatico, dottrinale, le cui conseguenze (anche mediatiche) non siamo oggi in grado di prevedere perché in crisi viene messa – anche per i non credenti – proprio quell’aura di sacralità assoluta e definitiva che per diciassette secoli ha accompagnato la figura papale.

E oso perciò dire che perfino l’immagine tradizionale del Dio onnipotente e onnipresente che accompagna la Chiesa va incontro da oggi ad un’inevitabile metamorfosi. Quando il portavoce della sala stampa vaticana Lombardi ha affermato davanti alle tv di tutto il mondo che fino alle ore 20 del 28 febbraio 2013 lo Spirito Santo sicuramente assisterà Benedetto XVI garantendo la bontà delle sue scelte probabilmente non si è reso contro della gravità di questa affermazione: come si può affermare che lo Spirito Santo segue la scansione dei minuti dell’orologio, che è tenuto a garantire Benedetto XVI finchè sederà sulla cattedra di Pietro per poi mettersi in aspettativa in attesa della nomina del prossimo papa?!

E che Spirito Santo può mai essere quello che per non stare con le mani in mano del frattempo aleggia sul Conclave, pilotando le discussioni (e magari anche le non sempre necessariamente limpide strategie) dei cardinali assicurando la sua controfirma sulla loro scelta finale? È stato così anche per l’elezione di papa Alessandro VI, il libertino avido di potere e di denaro per la propria famiglia? E per quella di Leone X che moltiplicando all’inverosimile la vendita delle indulgenze provocò lo scisma di Lutero? C’è qualcuno che vuol imputare la rottura dell’unità ecclesiale del 1521 allo Spirito Santo che avrebbe sbagliato in Conclave a ispirare la giusta scelta ai cardinali?!

Fin qui l’aspetto teologico dell’evento “dimissioni del papa”. Ma altre questioni,non meno importanti, sono connesse a questo evento e (ri)propongono quesiti decisivi che da molti decenni si discutono nella Chiesa, soprattutto dentro la galassia dei movimenti critici, come le “comunità di base”, “Noi siamo Chiesa” e molti altri.

Anzitutto quella del “chi è il papa” e chi lo costituisce come tale. Non v’è alcun dubbio che egli sia il vescovo di Roma, al quale per tradizione millenaria viene riconosciuta una primazia fra tutti i vescovi della Chiesa universale (con molte riserve da parte della Chiesa greco orientale…) Ma, appunto, si tratta di una “primazia”, non di una “supremazia”. “Primus inter pares” e non signore e padrone della Chiesa: è dunque tutta da (ri)discutere la relazione fra Sinodo dei Vescovi e vescovo di Roma. A questo proposito, come giustamente sollecita Guido Mendogni (vedi il suo Facebook), val la pena di ricordare che un profondo conoscitore di storia ecclesiastica, il cardinale Yves Congar, lasciò scritto nel suo diario personale che tutta questa pretesa supremazia è una manipolazione organizzata per gli interessi di Roma le cui radici arrivano fino al secondo secolo della storia del cristianesimo”, sicché “il problema della Chiesa non è chi sarà il prossimo il papa, ma è il papato stesso, come è organizzato e come funziona, chiunque sia l’uomo che occupa il trono petrino.” Quali le sue prerogative se è primus e non superior agli altri vescovi? E chi lo deve eleggere?

Dal 1059 l’elezione del papa viene decisa dai cardinali riuniti in conclave, secondo la prassi istituita nel sinodo del Laterano voluto da papa Niccolò II, tramite votazione segreta che richiede la maggioranza dei due terzi dei cardinali stessi. Venendo ai giorni nostri, ecco che Benedetto XVI con un motu proprio del 26 giugno2007 ha stabilito che la maggioranza necessaria all’elezione del papa sarà di due terzi dei votanti per tutti gli scrutini e che a partire dal tredicesimo giorno di conclave si debba procedere al ballottaggio, sempre mantenendo la maggioranza dei due terzi per la validità dell’elezione, tra i due cardinali più votati nell’ultimo scrutinio (con questi ultimi perdono il diritto di voto). È stata così abolita dal papa oggi dimissionario la norma stabilita da Giovanni Paolo II che prevedeva una riduzione del quorum alla maggioranza assoluta dei votanti a partire dal trentaquattresimo scrutinio.

Ma perché il papa deve essere eletto dai cardinali? Una velocissima occhiata a Wikipedia ci risparmia un lunghissimo excursus storico per ricordarci che il termine di cardinale deriva dalla parola “cardine” e sta a indicare il punto dove ruota la porta (infatti proprio a questo si riferisce) visto che i cardinali aiutavano e aiutano il pontefice nell’amministrazione della diocesi di Roma. Il termine cardinale si riferiva a quei prelati che coadiuvavano il Vescovo di Roma durante le liturgie, ponendosi appunto ai quattro punti cardinali dell’altare. L’ufficio dei cardinali ha la sua origine nella Chiesa antica, ed è strettamente collegato alla nascita della Curia romana, ossia al periodo (risalente già ai primi secoli) in cui il vescovo di Roma cominciò a chiamare presso di sé alcuni collaboratori, presi tra i preti della sua diocesi, i diaconi della città e anche i vescovi suburbicari, cioè i vescovi delle diocesi attorno a Roma.

Che poi il titolo di cardinale, nei secoli più oscuri della Chiesa, sia divenuto oggetto di contrattazione e acquisto da parte di alcune famiglie aristocratiche laziali (Corsini, Colonna, ecc.) o ricchissime (come i Medici di Firenze) rende molto problematica la sua fondazione e legittimazione teologica ed ecclesiastica: anche perché dall’originaria investitura riservata ai collaboratori del vescovo di Roma si è passati, nel corso dei secoli, a quella che autorizza il papa a restringere la rosa dei futuri papabili a un ristretto numero di suoi nominati appartenenti a tutta la Chiesa universale. Ma in questo modo il papa non può che scegliere persone di sua stratta fiducia, precostituendo una continuità rigorosa di tipo dottrinale e teologico che soffoca la pluralità di esperienze e dando luogo ad una specie di oligarchia che riproduce se stessa (il nuovo papa nominerà cardinali figure che gli sono omogenee, e così via all’infinito).

Va da se che questo sistema non consente né alla comunità di Roma di esprimere il proprio vescovo né a quella universale di veder rappresentato in Conclave il pluralismo delle storie ecclesiali diffuse su tutta la terra: l’unità diventa uniformità e la fedeltà al Vangelo subisce una profonda metamorfosi che la trasforma nell’obbedienza al papa e alla curia vaticana, a partire dall’obbligo di attenersi alle prescrizioni indiscutibili della Congregazione per la Fede che rende conto solo al papa. Il tutto con l’obbligo di credere all’assistenza continua e ugualmente indiscutibile dello Spirito Santo.

Ma come scrive il teologo José Maria Castillo “…non si può pensare con ingenuità che su tutto vi sia la mano dello Spirito Santo e la sua presunta ispirazione costante nella presa di decisioni. No! questo presunto intervento dello Spirito Santo non è dimostrato da nessuna parte. Come neanche è dimostrato, né ci sono argomenti per provare che il vescovo di Roma, per quanto successore di Pietro che sia, debba accumulare per questo tutto il potere direttamente conferitogli dalla volontà di Dio. Dove viene detto ciò? Su quali argomenti si basa?”

Ecco perché i cristiani più avveduti (e responsabilmente critici) non si appassionano , come i rotocalchi e come la chiacchera televisiva, al “totopapa” cercando di prevedere chi possa essere eletto al prossimo Conclave né confidano la loro speranza per un autentico rinnovamento della Chiesa nell’elezione di un papa “riformatore e progressista”, riducendosi poi – fatalmente – a dover far professione di obbedienza al nuovo pontefice e adattandosi a credere che sia stato (solo) lo Spirito Santo a farlo uscire vincitore dallo scrutinio dei cardinali. Piuttosto, come abbiamo visto, ci sarebbe da discutere sull’esigenza di restituire

– alla chiesa di Roma il diritto di scegliersi il suo vescovo;

– conseguentemente a tutte le diocesi il diritto/dovere di eleggere il proprio, quando invece oggi è la curia romana , con atto papale di investitura, ad assegnare le diocesi a questo o quel vescovo di suo gradimento;

– al Sinodo dei Vescovi il compito di guidare la chiesa universale, pur riconoscendo il primato del vescovo di Roma ma escludendo ogni sua supremazia (teologica, dottrinale, ecclesiale).

Per non parlare poi della necessità di una profonda revisione della figura stessa del papa che dovrebbe una volta per tutte rinunciare a quel pericoloso e fuorviante (ma anche prepotente) titolo di “sommo pontefice” ereditato dalle forme del sacerdozio politico-religioso dell’antica Roma pagana. Come insegna Paolo, uno solo è il vero e unico sacerdote, Cristo, e solo Lui è il ponte che mette l’uomo in comunicazione con il Padre e lo Spirito Santo. Ma di questo, forse, parleremo in un’altra occasione, magari riprendendo le questioni teologicamente incandescenti che sono già state poste da molte voci critiche e profetiche della Chiesa degli ultimi decenni.