L’F35, storia di armi e democrazia

Riccardo Iacona
www.confronti.net

Negli Stati Uniti, il Pentagono aveva preso la decisione (poi revocata) di sospendere tutti i voli degli F35 per problemi al motore. E quando aveva pubblicato un rapporto che metteva in evidenza alcuni problemi, il Ministero della Difesa italiano aveva fatto finta di niente. Iacona conduce su Rai tre il programma di inchiesta «PresaDiretta».

La prima volta che abbiamo parlato in redazione dell’idea di fare una puntata sulle spese militari e di indagare sull’F35, il sistema d’arma più costoso del mondo, il cacciabombardiere di nuova generazione che l’Italia si è impegnata a comprare già dal 1999, ci siamo subito detti che sarebbe stato difficile fare inchiesta su questo argomento in Italia, considerando quanto poco dibattito pubblico si è sempre esercitato su questi argomenti nel nostro paese. Così, ci siamo messi a cercare su internet che cosa si diceva di questo sistema d’arma negli Stati Uniti e abbiamo trovato lì il dibattito e le notizie che da noi non circolavano. E questo a tutti i livelli: nella politica, tra gli esperti e i consulenti militari, nei giornali e nella televisione, persino al Pentagono, che a dicembre dell’anno scorso ha reso pubblico un report su tutti i sistemi d’arma, che conteneva 18 pagine fitte fitte di problemi e ritardi nella realizzazione dell’F35. Tutto pubblico, tutto a disposizione dei media e ampiamente riportato dalle maggiori testate degli Stati Uniti. E questo nel paese che ha voluto l’F35, lo ha progettato e lo sta realizzando in migliaia di esemplari.

Nel nostro paese invece del report del Pentagono hanno parlato i soliti, quelli che da sempre si battono per più democrazia nelle scelte che hanno a che fare con la difesa e con le spese militari: l’Archivio disarmo, Francesco Vignarca e la Rete italiana per il disarmo e un gruppo di deputati e senatori. Il Ministero della Difesa ha fatto finta di niente, come se il report del Pentagono non fosse neanche uscito, così come nulla hanno detto a Finmeccanica, che con l’Alenia è partner di secondo livello del progetto. Mentre si è continuato sempre a rispondere alle critiche che venivano da più parti magnificando le ragioni di opportunità tecnologica, industriale e di ricaduta occupazionale per il nostro paese.

Ma cosa dice il rapporto del Pentagono? Senza entrare nei dettagli, gli esperti del Pentagono sono preoccupati del ritardo con cui stanno procedendo i test di questo nuovo cacciabombardiere. E i test hanno soprattutto a che fare con la scrittura dei codici del software di bordo, quello che fa funzionare il caccia. Un software complicatissimo perché, come mi ha raccontato il matematico Pierre Sprey, padre del progetto F16, il caccia intercettore più riuscito e più venduto nel mondo, il computer di questo aereo ha bisogno di nove milioni di linee di codice. Più di quattro volte le linee di codice del computer che fa funzionare l’F22, il precedente cacciabombardiere che ha avuto enormi problemi proprio con il computer, tanto è vero che finora non ha fatto neanche un’ora di volo in combattimento.

La Lockheed Martin, la casa costruttrice dell’F35 (la più grande industria di armamenti al mondo, leader nell’avionica e nella missilistica di breve, media e lunga gittata) ha risposto al Pentagono dicendo che è vero, alcuni test sono in ritardo, ma altri sono stati anticipati, cosicché i tempi verranno rispettati e che quello che per i detrattori del progetto è il punto debole è invece per la Lockheed la forza di questo progetto, la sua complessità, proprio perché si tratta del cacciabombardiere di quinta generazione. Rimane il punto che l’F35, secondo le stime iniziali, sarebbe dovuto costare 45 milioni di dollari a pezzo e siamo arrivati già a 200 milioni di dollari per ogni velivolo, al netto dei costi di esercizio e manutenzione.

Quando sono andato a Washington a parlare con Winslow Wheeler, uno dei collaboratori della rivista «Foreign Policy» ed ex consulente per le questioni della sicurezza per diversi senatori, sia repubblicani che democratici (insomma: sicuramente uno che se ne intende), mi ha raccontato che anche con l’F22 la Lockheed Martin si era comportata nello stesso modo: «All’inizio, negli anni ‘80, avevano detto che sarebbe costato 35 milioni di dollari ad aereo e invece ci è costato 412 milioni di dollari. Dieci volte di più. E costa un’enormità farlo volare: l’F22 costa alla nostra aeronautica oltre 60mila dollari per ogni ora di volo», mi aveva detto. E poi aveva aggiunto: «Da noi è una pratica costante da parte dell’industria delle armi di promettere alte performance e costi bassi, ma poi nella maggior parte dei casi succede l’opposto. Loro fanno così: cominciano subito a produrre gli aerei, anche solo i prototipi, prima di terminare i test. Cioè, ti prendono all’amo prima ancora di dirti cosa stai comprando! E dopo quando cominciano i problemi e aumentano i costi di realizzazione, ti dicono: “Scusate, ma noi abbiamo investito così tanti soldi in questo progetto, ci sono già migliaia di operai che ci stanno lavorando, che semplicemente non possiamo fermarlo”. Ecco cosa succede da noi negli Stati Uniti!».

Anche in Italia i vari Ministri della Difesa e sottosegretari che si sono succeduti dal 1999, anno in cui è nato il progetto dell’F35, hanno sempre detto la stessa cosa: abbiamo investito già i soldi, ci sono in ballo i posti di lavoro, non si può tornare indietro. I soldi investiti sono quasi tre miliardi di euro, due miliardi dati direttamente alla Lockheed Martin per sviluppare il progetto e quasi un miliardo di euro spesi dallo Stato per costruire a tempi di record l’enorme fabbrica, dentro una base dell’aereonautica militare, dove si dovranno costruire le ali di un certo numero di F35 e assemblare gli aerei comprati da noi e dagli olandesi. Sui posti di lavoro, invece, si sono dette un sacco di inesattezze. Si è parlato persino di diecimila nuovi posti di lavoro. Oggi abbiamo scoperto che si tratta di sostituire i tecnici e gli operai che stanno lavorando all’ultima tranche dell’Eurofighter, il caccia intercettore di ideazione e produzione europea. Se tutto va bene, perché invece i sindacati di categoria parlano di esuberi, stimano infatti che il progetto F35 non riuscirà mai ad assorbire tutta la manodopera. Non solo: molti ingegneri e supertecnici dell’Avionica rimarranno con le mani in mano, perché fare le ali e assemblare gli aerei non è la stessa cosa che progettare e lavorare all’avionica e all’elettronica, cosa che succede invece con l’Eurofighter, che ci vede come partner di primo livello e dove (come ci hanno raccontato i dirigenti del Consorzio) ogni euro speso nel progetto torna in patria in termini di ricaduta tecnologica ed occupazionale.

Vista da vicino, questa dell’F35 è veramente tutta un’altra storia rispetto a quella che ci hanno venduto. Ma l’opinione pubblica italiana non ha avuto modo di conoscere e dibattere, come è invece successo in Canada, Australia, Olanda e Turchia, dove si sta discutendo se ridimensionare o no il programma F35. Da noi in più di dodici anni si è dovuta aspettare la campagna elettorale perché si sentisse di nuovo parlare di spese militari. Siamo quindi di fronte ad un deficit di democrazia, dove si dà per scontato che sui sistemi d’arma parlano i tecnici e a noi resta solo da approvare.

Eppure quello della Difesa è un terreno sul quale la politica avrebbe molto da dire, a partire non solo dalla domanda su che cosa ci possiamo permettere di acquistare in tempi di crisi nel supermercato mondiale delle armi. Qui occorre domandarsi qual è il sistema di Difesa che vogliamo e magari rimettere in discussione la nostra automatica partecipazione a missioni di guerra fuori dai nostri confini. Questo è il dibattito che manca nel nostro paese e questo è anche quello che ci insegna la storia tormentata dell’F35.