Teresa Mattei di G.Codrignani

Giancarla Codrignani

Resta suo l’invito a proseguire nei nostri percorsi per far valere sempre i diritti.

E’ scomparsa ieri Teresa Mattei, l’ultima donna “costituente” sopravvissuta. Forse quella che, per essere la più giovane, ha avuto esperienze istituzionali che possono apparire, per così dire, “strane” proprio perché era una donna. Una donna che non voleva essere da meno di un uomo, fu trasgressiva e pagò la sua autonomia.

La ricordo con la stima del “riconoscimento” di valori comuni e mi riprometto di parlarne ancora, per dire di lei, una partigiana che si chiamava “Chicchi”; una comunista ammirata dal democristiano Scalfaro per la fermezza con cui fronteggiò Togliatti; un’educatrice politica che inventò una radio “storica” gestita dai bambini. E tanto altro che mi sta venendo in mente.

Mi fa tristezza che ci abbia lasciato in tempi incerti, senza poter vedere come se ne esce; ma, testarda com’era nonostante la figura esile e la voce soave, resta suo l’invito a proseguire, nei nostri percorsi, a far valere sempre i diritti.

Ciao, Teresa

—————————————————————

E’ morta Teresa Mattei

Raniero La Valle
http://ranierolavalle.blogspot.it

E’ morta a 92 anni anni, Teresa Mattei. Ho fatto un comizio con lei a Pisa nella campagna elettorale per il referendum costituzionale del giugno 2006, quando la destra berlusconiana voleva far scempio della Costituzione e non vi riuscì. Teresa Mattei aveva già 85 anni, ma la Costituzione la voleva difendere, perché ne era madre; era stata a 24 anni deputata comunista alla Costituente, una delle ventuno donne sui 556 deputati che avevano fatto parte di quell’assemblea.

Era la più giovane di tutti, e per questo Vittorio Emanuele Orlando che, essendo invece il più anziano, aprì la prima seduta del 25 giugno 1946 (“L’Italia non ha ancora finito di essere l’Italia – disse – e come italiani noi abbiamo ancora qualche compito assegnato a noi nella storia del mondo”) la chiamò a salire sugli scranni alti come segretaria di Presidenza. In questa veste, con una delegazione dell’Assemblea, il 27 dicembre 1947 presentò al Capo provvisorio dello Stato il testo della Costituzione da firmare: “una ragazzina – come ricorda – che per la foto con De Nicola alla consegna della Costituzione aveva addosso il vestito di sua madre e le scarpe scalcagnate”.

I deputati alla Costituente, nell’Italia povera del dopoguerra, erano infatti poveri; per questo ad esempio – e fu una benedizione – i cosiddetti “professorini” – Dossetti, Lazzati, Fanfani, La Pira – non potendo permettersi altro, andarono a vivere tutti insieme nella casa delle signorine Portoghesi in via della Chiesa Nuova 14, formando quel singolare sodalizio che si chiamò poi, per celia, “comunità del Porcellino”. Che restassero poveri, ci aveva pensato la stessa Teresa Mattei, perché come segretaria della Presidenza fu tra quelli che dovevano stabilire i criteri per lo stipendio dei costituenti. Insieme con Giuseppe Di Vittorio andò allora su una vecchia macchina della CGIL in giro per fabbriche ed uffici per vedere quale fosse il salario medio degli operai e degli impiegati di allora, e propose che per non allontanarsene l’indennità parlamentare fosse di 42.000 lire al mese. Questa proposta non fu molto popolare tra gli onorevoli e alla fine – ma con non minore sobrietà – il salario dei deputati fu fissato a 80.000 lire.

Se la Costituzione rassomigliava all’Italia e ancora oggi è “la più bella del mondo”, è anche perché è stata fatta da deputati poveri che stavano dalla parte dei poveri.

Nella Costituzione i poveri non dovevano essere un’astrazione statistica, ma dovevano essere considerati nella loro condizione reale, perché anche loro avessero il diritto a perseguire la felicità, come era stato scritto, quasi due secoli prima, nella Dichiarazione di indipendenza americana: il diritto di cercare la felicità, non di ottenerla, perché questo nessuna Costituzione lo può dare. La Costituzione però può stabilire che la politica debba renderne possibili le condizioni; e così faceva l’articolo 3 del progetto di Costituzione, che nella proposta formulata dalla Commissione dei 75 all’Aula, diceva che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana”. Nell’eguaglianza, c’era anche quella delle donne; e a Teresa Mattei parve che questa formulazione non fosse abbastanza esigente, di fronte alle mille forme di discriminazione, anche mascherate, a cui le donne erano sottoposte (come ad esempio quella delle crocerossine o delle infermiere di Careggi a cui non era permesso sposarsi); intervenendo in aula il 18 marzo 1947 chiese perciò che si aggiungesse “di fatto” dopo il verbo “limitano” ripristinando una formula del resto già approvata, su suggerimento di Togliatti, dalla Prima Sottocommissione, ma poi caduta nel testo definitivo proposto dai Settantacinque. E così restò stabilito che gli ostacoli d’ordine economico e sociale da rimuovere sono quelli che “limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. “Di fatto” vuol dire che per la Costituzione ad avere valore normativo sono dunque le situazioni reali. La differenza tra lo Stato leggero, che “non mette le mani in tasca ai cittadini” ma quelli con le tasche vuote li manda alla malora, e lo Stato sociale che dice “I care”, mi preme, è tutta qui.

Questa concretezza veniva a Teresa Mattei certamente dall’essere donna, ma anche dall’essere stata partigiana. Alla Resistenza giunse, a 22 anni, dal Fronte della Gioventù della Facoltà di lettere dell’università di Firenze, come racconta Patrizia Pacini in una tesi su di lei patrocinata dalla Regione toscana. Teresa non si limitò a fare da staffetta, come molte donne partigiane, ma partecipò ad azioni di guerra, diede informazioni per l’attentato a Gentile, fu arrestata e stuprata dai tedeschi, partecipò alla liberazione di Firenze. Il fratello maggiore, Gianfranco, docente al Politecnico di Milano, combattendo con i GAP (Gruppi di Azione Patriottica) a Roma, nel febbraio del 44 fu preso dai tedeschi e torturato in via Tasso; temendo di cedere alle torture e di rivelare il nome dei compagni, si tolse la vita; solo dopo 18 mesi i genitori riuscirono a trovarne il corpo, sepolto come “sconosciuto” in una fossa del cimitero di Prima Porta. Il 3 giugno dello stesso anno Teresa, insieme a un altro gappista di Firenze che vi perse la vita, fece saltare un treno di munizioni che i tedeschi avevano parcheggiato in un tunnel presso Pontassieve. In bicicletta riuscì a fuggire dopo l’attentato e si rifugiò all’Università dove Eugenio Garin, con cui stava preparando la tesi, era riunito con alcuni docenti; gli disse che era inseguita dai tedeschi e quando questi arrivarono, Garin finse che la ragazza stesse sostenendo l’esame di laurea e che da tempo fosse lì; e poiché con i professori presenti improvvisò una commissione di laurea, Teresa Mattei quel giorno si laureò davvero, in filosofia.

L’apporto delle donne alla Resistenza è stato molto rilevante. Trentacinquemila furono le donne partigiane, mentre 70.000 fecero parte dei Gruppi di difesa della donna; 4.653 furono arrestate e torturate, 2.750 deportate in Germania, 2812 fucilate o impiccate, 1.070 caddero in combattimento, su un totale di oltre quarantamila partigiani uccisi.

Luciano Lama, ricordando il giorno in cui avevano fucilato suo fratello, disse: “La Resistenza fu una battaglia terribile, disperata e atroce. Vivevamo nascosti nelle buche dei campi di granturco, eravamo circondati da nemici: non erano solo tedeschi e fascisti, c’erano le spie, ti potevano tradire in ogni momento. Vedevamo sparire i nostri compagni, fucilavano famiglie intere. Eravamo sopraffatti dal dolore, dalla rabbia… Altrimenti non avremmo potuto…” Quanto alle donne, a resistere non furono solo le partigiane. Ha detto Teresa Mattei che “la fedeltà istintiva che hanno avuto tutte le donne, era la resistenza”; e tutte furono partigiane “per aver diviso a metà una patata con chi aveva fame, aver svuotato gli armadi per vestire i disertori, aver rischiato la vita tenendo in soffitta profughi o ebrei. Era quella la vera Resistenza. Io ho combattuto, ma certo non mi divertivo a far saltare i treni o altre cose. La violenza dei tedeschi l’ho pagata sulla mia pelle di donna”.

Fu così che le donne si guadagnarono il suffragio universale, votarono nel 1946 per la Costituente, e divennero cittadine a pieno titolo. Teresa Mattei le rappresentò dal 1946 al 1948, per l’8 marzo si inventò la mimosa, che era un fiore povero e molto diffuso nelle campagne, si impegnò per la cultura nel popolo, ma non si ripresentò per le elezioni del 18 aprile del ‘48. La sua vita politica fu un segno di contraddizione; il primo scontro con Togliatti era stato perché non voleva votare l’art. 7 che dava riconoscimento costituzionale ai Patti Lateranensi; tuttavia fu proprio lei, come segretaria della Presidenza, che dovette fare la chiama per il voto palese ad appello nominale che Togliatti aveva voluto per assicurarsi che tutti i comunisti votassero sì (solo Concetto Marchesi, Teresa Noce e Giuseppe Di Vittorio si sottrassero, con l’assenza, a quel voto). Ma nel 48 il contrasto fu più aspro. Da Bruno Sanguinetti, con cui aveva lottato nella Resistenza, Teresa aspettava un figlio; ma il compagno era sposato, il divorzio non c’era, e perciò i due non si potevano unire in matrimonio. Per il Partito comunista, che era molto moralista, era uno scandalo che una deputata-simbolo, come Teresa Mattei, diventasse una ragazza-madre. Ma la Resistenza era stata, come scrisse Arturo Carlo Iemolo, “un roveto ardente” e aveva cambiato molti destini e modi di pensare. Inutilmente Teresa disse che le ragazze madri non erano rappresentate in Parlamento, e così sarebbe stata lei a farlo; Togliatti non volle sentire ragioni, e pretendeva che Teresa abortisse. Ma anche allora, come aveva fatto tante volte, Teresa resistette, e il figlio lo ebbe; però con il PCI i rapporti si guastarono, lei ne criticò sempre più lo stalinismo, e il 23 aprile del 1955 fu radiata dal partito.

Teresa Mattei continuò la sua politica con le donne, e volse tutta la sua attenzione ai bambini: promosse il cinema fatto dai bambini, ideò “Radio bambina” e fondò la Lega per il diritto dei bambini alla comunicazione; studiò Piaget e altri grandi pedagogisti moderni, frequentò Illich e Munari e con il giurista prof. Pizzorusso progettò di far inserire nell’art. 3 della Costituzione, quello dell’eguaglianza, la precisazione che la “pari dignità” non sopporta nemmeno distinzioni di età: è dalla nascita che si diventa cittadini, e anche per i neonati vale l’art. 1 per il quale “la sovranità appartiene al popolo”. Convinta che nei bambini c’è già tutto, e che in loro il sogno e l’ideale possono sempre continuare anche oltre le frontiere dell’infanzia, si inventò il Premio “Bambino Permanente”, da assegnare agli adulti che erano riusciti a essere come bambini, senza immaginare che si trattasse di una categoria evangelica; il primo che ne fu insignito fu Cesare Zavattini, poi lo ebbero Sandro Pertini, Gorbaciov, Tiziano Terzani, Rita Levi Montalcini, Natalia Ginzburg, Armand Hammer, Alexander Dubcek, Danilo Dolci, Bruno Munari e Marcello Piccardo.

(da “Quel nostro Novecento”, di Raniero La Valle, Edizioni Ponte alle Grazie, 2011)