Dieci anni orribili per l’Iraq

Mazzetta Blog
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Dieci anni dopo la cosa che fa più impressione è che nessuno ha chiesto scusa.

IL FALLIMENTO – Non ci sono dubbi che l’invasione dell’Iraq sia stata un disastro. Non ci sono nemmeno dubbi che fosse fondata su presupposti falsi e su una volontà che ben poco aveva a che fare con le motivazioni pubbliche fornite all’intervento. Ma non pensate che questo decimo anniversario sia l’occasione di riflettere sul ruolo degli Stati Uniti o, almeno, sui processi decisionali e legislativi che permettono ai presidenti di andare in guerra in numerosi paesi al mondo sulla base di presupposti inconsistenti, quando non artefatti.

I RESPONSABILI – Anche qualora in un esercizio di scuola si scarti la malafede, l’intervento americano resta infatti l’immagine di un clamoroso fallimento dell’intelligence, impegnata a fornire all’amministrazione Bush pezze d’appoggio a una volontà ben chiara.

Ma è anche un fallimento di istituzioni come l’esercito, l’aviazione e la marina statunitense, comunità vaste e autorevoli che avrebbero dovuto stroncare l’emergere di rapporti d’intelligence del tutto inconsistenti e inverosimili, come quelli che volevano Saddam in possesso di armi di distruzione di massa e persino della possibilità di scatenare con questi devastanti attacchi contro paesi lontani come gli Stati Uniti. Su tutti si stagliano le tragiche figure di Bush, Cheney, Rumsfeld e del resto del circo neoconservatore, al quale vanno aggiunti alla pari leader come Blair, Aznar e Berlusconi che li spalleggiarono e un’altra discreta teoria di capi di stato che ne trassero a modo loro vantaggio. Non ultimi i media, che assecondarono una propaganda inverosimile e a lungo s’abbandonarono al più puro terrorismo psicologico ai danni delle opinioni pubbliche occidentali.

LE FANTASIE – Balle incredibili, l’Iraq era di fatto occupato dal 1991, al Nord il Kurdistan iracheno era di fatto territorio off limits per Saddam e i cieli del paese erano occupati da due no-fly zone che permettevano agli elicotteri di Saddam di sorvolare solo la fascia centrale del paese, di aerei da guerra non ne aveva più, li aveva spediti in Iran prima di Desert Storm e da lì non sono più tornati, lo stesso dicasi per i carri armati, inceneriti nei pressi del Kuwat insieme ai sogni del dittatore e qualche centinaio di migliaia di soldati iracheni mandati allo sbaraglio contro gli americani.

UN SADDAM INERME – Il paese per di più era sotto embargo e per questo fu ancora più ridicolo quando si cercò di far passare con successo alcuni tubi d’alluminio in entrata come pezzi fondamentali per un impianto per la fabbricazione di armi chimiche. Ma gli iracheni non hanno mai fabbricato armi chimiche, le compravano in Occidente e dopo il 1991 non ne aveva più, ma soprattutto non aveva la capacità di fabbricarne. Per ovviare alla mancanza di impianti chimici imputabili gli americani s’inventarono allora la fantastica storia dei laboratori mobili nei quali gli uomini agli ordini di “Alì il chimico” preparavano le terribili armi di distruzione di massa a bordo di camion che giravano per il paese. Una buffonata senza paragoni e non solo per l’enorme pericolo e la grande difficoltà tecnica rappresentata dalla realizzazione di un’idea del genere.

UNA SPESA SPAVENTOSA – Il dittatore iracheno aveva solo tanta boria residua e l’esito dell’invasione lo dimostrò senza dubbi, poi lo certificarono gli stessi americani che riconobbero che, sorry, le WMD non c’erano e che anche al Qaeda c’è arrivata solo quando al seguito degli americani sono entrati nel paese prima i sauditi e poi tutti gli altri. L’esecuzione non fu meno balzana della decisione d’andare in guerra senza badare a spese al grido di Shock and Awe, dopo dieci anni possiamo dire che ai cittadini americani costerà circa 6.000 miliardi di dollari, dei quali quasi la metà sono già stati spesi e gli altri se ne andranno tra assistenza ai veterani, interessi, varie ed eventuali da qui ai prossimi 30 anni.

LA STRAGE – Il conflitto è costato anche un numero di vittime prossimo al milione, circa un terzo delle quali colpite direttamente dalla violenza e le altre dalle durezze della situazione di guerra che poi si è venuta a creare nel paese. Quasi un milione sono stati i feriti e quattro milioni gli iracheni (su circa 33) che hanno dovuto abbandonare le loro case per fuggire dalla violenza, due milioni si sono spostati all’interno dell’Iraq, altri due milioni verso l’estero, principalmente verso la Siria, dove sono circa un milione e mezzo, molti di questi non possono tornare in Iraq.

IL NUOVO IRAQ – Dove ora c’è un governo a maggioranza sciita sicuramente più rappresentativo di quello di Saddam, che si tiene in casa diverse basi americane anche se in teoria gli americani se ne sono andati. e che per il resto gestisce il potere in maniera decisamente dura, ben oltre la necessità di rispondere a una presenza qaedista e alle azioni di diversi gruppi armati sunniti che hanno radici dentro e fuori il paese. In Iraq non è stata portata una gran democrazia e ancora oggi, dieci anni dopo un’invasione quasi senza colpo ferire, il paese che doveva essere rinato grazie all’intervento americano è invece una discreta collezione di macerie e un paradiso della corruzione. Proprio gli americani dettero l’esempio per primi sperperando miliardi di dollari dei loro contribuenti per avere in cambio il nulla, niente nuovi ospedali, niente infrastrutture, solo enormi spese in “sicurezza”, tanto che è opinione comune che oggi il paese sia messo peggio di prima dell’invasione.

IL BUON ESEMPIO – Il nuovo Iraq nasce con un uomo forte imposto dagli americani e infine passa a un uomo forte scelto più o meno dalla maggioranza sciita, crescendo sull’esempio dei tutor di Washington che mostrano agli iracheni una corruzione che fa evaporare cifre mai viste, una fabbrica della tortura per la quale pagheranno solo i fessacchiotti che hanno messo in giro le foto nelle quali abusavano dei prigionieri iracheni, e un totale disprezzo per la popolazione occupata. Alla quale nessun americano ha mai chiesto scusa, il giornalista iracheno che ha lanciato le scarpe a Bush non è diventato un eroe nazionale per caso e nemmeno chi odiava Saddam riesce a ringraziare gli americani, curdi e pochi fortunati a parte.

Nessuno ad esempio dimentica che l’Iraq oltre ad aver perso diversi pozzi e terreno agricolo a scapito del Kuwait, deve ancora all’emirato miliardi di dollari di danni, anche se le armati Saddam non lo avevano devastato e tutti sanno che gli Stati Uniti non pagheranno i danni procurati al loro paese. Ma soprattutto nessuno dimentica i tradimenti, i lutti, i feriti, gli invalidi, le umiliazioni, Baghdad trasformata in Beirut.

LA VIOLENZA CONTINUA – Oggi il paese esporta petrolio come non mai e cerca di tirare avanti senz’altro progetto che non sia quello di tenere duro in una situazione nella quale il decennale dell’invasione è stato preceduto da una terribile serie d’attacchi esplosivi, che non hanno mai smesso di martoriare il paese. Febbraio è stato migliore di gennaio, con “solo” 220 morti e 571 feriti, a gennaio 246 e 735, praticamente mille. Numeri impressionanti e comunque in crescita sull’ultimo trimestre del 2012 con 136, 160 e 144 vittime da ottobre a dicembre.

ZITTI E MUTI – In Occidente l’anniversario scorrerà sotto tono, le responsabilità e i bilanci sono noti da tempo e non li contesta nessuno, ma nessuno ha chiesto scusa agli iracheni o ai tanti militari e civili di altri paesi mandati a soffrire o a morire in Iraq. Solo The New York Times ha poi chiesto scusa ai suoi lettori per averli ingannati, nel nostro paese non ci ha pensato nessuno, da noi s’è addirittura assistito alla rivendicazione di Renato Farina, giornalista al soldo dei servizi che si è detto patriota perché ha mentito a pagamento.

Non ci saranno profonde riflessioni sulla guerra, se non tra i teorici del militarismo anglosassone e tra quanti ad esempio sono preoccupati dell’insorgere di “una sindrome dell’Iraq” analoga a quella del Vietnam. Il problema dalle parti di Washington non è quello di come evitare il ripetersi di un altro Iraq, ma di come evitare che la pessima esperienza comune all’Afghanistan costituisca negli anni a venire un deterrente che impedisca a Washington d’imbarcarsi con la stessa facilità in una guerra per scelta giustificata invocando pretesti risibili.

Un’opzione senza la quale il complesso militar-industriale statunitense rischia per il futuro una drastica contrazione dei profitti, mai così alti come nel decennio scorso, che s’accompagnerebbe a calo del potenziale d’intimidazione della macchina bellica americana, che serve a poco se non si mostra d’essere pronti ad attivarla per difendere gli interessi degli Stati Uniti, nella tradizionale e amplissima eccezione nella quale sono intesi abitualmente a Washington.

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La guerra e le politiche economiche dominanti

Paul Krugman, New York Times
www.ildialogo.org

Dieci anni fa l’America invase l’Iraq: in qualche modo la nostra classe politica decise che dovevamo rispondere a un attacco terroristico con la guerra a un regime che, per quanto spregevole, non aveva nulla a che fare con l’attacco.
Alcune voci avvertirono che stavamo facendo un terribile errore – che i motivi per fare la guerra erano deboli e forse fraudolenti, e che era molto probabile che l’impresa, lungi dal darci la facile vittoria promessa, avrebbe probabilmente portato a costi e lutti molto pesanti. E questi avvertimenti si sono rivelati, ovviamente, fondati.

Si è scoperto che non c’era alcuna arma di distruzione di massa; è ovvio, a posteriori, che l’amministrazione Bush ha deliberatamente ingannato, e portato in guerra, la nazione. E la guerra – che è costata migliaia di morti americani e decine di migliaia di vite irachene, che ha imposto costi finanziari di gran lunga superiori a quelli previsti dai sostenitori della guerra – ha lasciato l’America più debole, non più forte, e ha finito per creare un regime iracheno più vicino a Teheran che a Washington.

La nostra élite politica ed i nostri mezzi di informazione hanno imparato qualcosa da questa esperienza? Non pare proprio.
Ciò che veramente colpiva, durante il periodo che ha preceduto la guerra, era l’illusione del consenso. Ancora oggi gli esperti che hanno fatto valutazioni sbagliate attribuiscono il loro errore al fatto che “tutti” pensavano che ci fossero validi motivi per la guerra. Naturalmente, ammettono, c’era anche chi si opponeva alla guerra – ma erano persone che non contavano, perché erano fuori dalla linea di pensiero predominante.

Il problema di questa argomentazione è che è stata ed è circolare: sostenere la guerra diviene parte della definizione di ciò che si intende come linea predominante. Chi dissente, non importa quanto qualificato, viene ipso facto etichettato come indegno di considerazione. Questo era vero negli ambienti politici, ma era altrettanto vero per gran parte della stampa, che di fatto si schierò col partito della guerra.

Howard Kurtz, della CNN, che era al Washington Post, ha scritto di recente su come funzionava questo meccanismo, su come segnalazione scettiche, per quanto fondate, venivano scoraggiate e respinte. “Gli articoli che mettevano in discussione le prove o le ragioni per la guerra”, ha scritto, “sono stati spesso sepolti, minimizzati o bloccati.”

Strettamente connesso a questa presa di posizione a favore della guerra ci fu un rispetto esagerato e ingiustificato per l’autorità. Solo le persone in posizioni di potere erano considerate degne di rispetto. Kurtz ci dice, ad esempio, che il Post cancellò un pezzo sui dubbi sulla guerra, scritto dal proprio capo settore per la difesa, per il fatto che si basava su dichiarazioni di militari in pensione e di esperti esterni – “in altre parole, di coloro che hanno sufficiente indipendenza per poter mettere in discussione i motivi per la guerra”.

Tutto sommato, è stata una lezione pratica sui pericoli del pensiero di gruppo, una dimostrazione di quanto sia importante ascoltare le voci scettiche e tener distinta la ricerca dei fatti dalla linea editoriale. Purtroppo, come ho detto prima, è una lezione che non sembra essere stata davvero imparata. Si consideri, come prova, l’ossessione per il deficit del bilancio statale che ha dominato la scena politica negli ultimi tre anni.

Ora, io non voglio spingere quest’analogia troppo in là. Una cattiva politica economica non è l’equivalente morale di una guerra combattuta sulla base di falsi pretesti, e anche se le previsioni dei falchi del deficit si sono ripetutamente rivelate sbagliate, non c’è stato uno sviluppo decisivo o sconvolgente come il completo fallimento nel trovare le armi le armi di distruzione di massa che si erano ipotizzate. Inoltre, e ciò è ancora più importante, oggi chi dissente non è circondato da quell’atmosfera di minaccia, quella sensazione che il dubitare potrebbe avere conseguenze devastanti sulla propria carriera, che era così pervasivo nel 2002 e 2003. (Ricordate la campagna di odio contro il gruppo di musica country Dixie Chicks organizzata nel 2003 dalla Casa Bianca di Bush?)

Ma oggi come allora abbiamo l’illusione del consenso, un’illusione basata su un meccanismo per cui chiunque metta in discussione l’opinione ufficiale è immediatamente emarginato, non importa quanto solide siano le sue argomentazioni. E oggi come allora la stampa sembra spesso schierata. Colpisce in modo particolarmente evidente quanto spesso asserzioni discutibili siano riportate come dati di fatto. Quante volte, per esempio, avete visto articoli che affermano, come cosa scontata, che gli Stati Uniti si trovano di fronte a una “crisi del debito”, anche se molti economisti direbbero che ciò non è affatto vero?

In realtà, il confine tra notizia e opinione è per certi versi ancora più confuso in materia fiscale di quanto non lo fosse quando si andava verso la guerra. Come Ezra Klein, del Post, ha osservato il mese scorso, sembra che “le regole della neutralità dell’informazione sui fatti non si applichino quando si tratta di deficit”.

Quello che dovremmo aver imparato dal nostro fallimento in Iraq è che si dovrebbe sempre essere scettici e che non bisognerebbe mai fare affidamento su presunte autorità. Quanto si sente dire che “tutti” sostengono una certa politica, che si tratti di una guerra che si sceglie di fare o di austerità fiscale, ci si dovrebbe chiedere se “tutti” non significhi significa “tutti, tranne chi ha un parere diverso”. E gli argomenti di politica dovrebbero sempre essere valutati nel merito, non sulla base dell’autorità di chi li esprime; ricordate quando Colin Powell ci ha rassicurato sull’esistenza delle armi di distruzione di massa irachene?  Purtroppo, come ho detto, non sembra che abbiamo imparato la lezione. Ci riusciremo mai?