Un vescovo di Roma di nome Francesco di L.Sandri

Luigi Sandriwww.confronti.net

Un papa che abbandona titoli altisonanti e vesti preziose, che assume il programmatico nome del Poverello d’Assisi, e che viene dal Sud del mondo, dischiude speranze, non solo tra i cattolici. Le ombre e le luci del suo passato. Le incisive riforme ecclesiali da lui fatte balenare, preludono forse ad un nuovo Concilio generale?

Si volta pagina. L’eurocentrismo ha fatto il suo tempo, e la Chiesa cattolica romana inizia a prendere atto che la maggioranza dei suoi fedeli vive nel sud del mondo. Questo ci sembra significare l’elezione a vescovo di Roma dell’arcivescovo di Buenos Aires, cardinale Jorge Mario Bergoglio. Il quale, da parte sua, scegliendo di chiamarsi Francesco, è sembrato voler fare suo l’ideale di vita del Poverello di Assisi: amore a «madonna povertà», condivisione della vita dei derelitti, fraternità, dedizione alla pace, responsabile cura verso la natura. Un programma impegnativo, tutto in salita.

Parole e gesti dirimenti di Francesco, variamente interpretati

Senza addentrarci nelle speculazioni sul conclave, pare accertato che, a parte il tifo per il cardinale Angelo Scola di alcuni media italiani, l’arcivescovo di Milano nella prima votazione del 12 marzo sia effettivamente emerso in pole position; tuttavia, e per fortuna (siamo tra quanti avevano criticato le sue ambizioni papali: si veda un nostro editoriale nel numero di gennaio), anche questa volta si è verificato quanto recita l’antico adagio romano: «Chi entra in conclave papa, ne esce cardinale».

Che poi il neo-eletto abbia 76 anni apre una contraddizione, che prima o poi porterà a mutare la norma in vigore – che vivamente chiede ai vescovi di dimettersi ai 75 anni – portando la soglia ad 80 anni, quando anche i cardinali perdono il diritto di entrare in conclave. Per un papa classe 1936 sarebbe imbarazzante chiedere le dimissioni ad un vescovo della sua stessa età, o addirittura più giovane! D’altra parte, proprio l’età relativamente avanzata sarà un motivo in più, e non in meno, per Francesco, per spingerlo ad affrontare con una certa urgenza profonde riforme – di metodo e di merito – nella Chiesa romana; differendole troppo, infatti, rischierebbe di non compierle mai, e di rimanere prigioniero della Curia.

Rileviamo, poi, che è la prima volta che un gesuita viene eletto papa; ci sono stati papi francescani, domenicani e di altri ordini, ma mai della Compagnia di Gesù. Ma quale gesuita? Per restare in America Latina, vi è una profonda differenza tra gesuita e gesuita: altro è un Ignacio Ellacuría o un Jon Sobrino, teologi della liberazione che in Salvador hanno gridato apertamente contro l’oppressione degli impoveriti (e, perciò, con altri cinque confratelli nel 1989 Ellacuría fu assassinato), ma furono e sono anche teoreticamente capaci di immaginare una Iglesia del pueblo che in prospettiva modifica profondamente l’essere della Chiesa; altro è un Bergoglio, definito da alcuni «conservatore populista». Diventato nel ‘98 arcivescovo di Buenos Aires, ha spesso contrastato il presidente (dal 2003) Néstor Kirchner, che lo definiva il «capo dell’opposizione»; ha poi tuonato contro la presidenta (moglie di Néstor), Cristina Fernández, che nel 2010 ha sostenuto l’approvazione di una legge che ammette i matrimoni omosessuali.

Nella sua vita personale, Bergoglio ha sempre adottato uno stile di semplicità e povertà; per muoversi, anche da arcivescovo usava i mezzi pubblici, e non la macchina di rappresentanza. Aperto al dialogo, ha incontrato esponenti dei movimenti gay, ascoltandone – pur senza approvarle – le ragioni. Sul fronte «esterno», ha sempre intrecciato rapporti cordiali con la comunità valdese del Rio de la Plata e con quella ebraica di Buenos Aires.

Per la questione – complessa – dell’azione di Bergoglio quando, in una Argentina schiacciata dal tallone della dittatura (1976-83), egli era superiore provinciale dei gesuiti, rinviamo all’intervista al premio Nobel per la pace, Adolfo Pérez Esquivel, e alle tesi del giornalista Horacio Verbitsky (vedi pagine 12-14). È un fatto che egli non osò criticare, apertamente, la junta militar, ma scelse la via cauta della mediazione, e della diplomazia silenziosa, ritenendola più efficace – nella situazione data – che la denuncia pubblica della sistematica e tremenda violazione dei diritti umani compiuta dal regime di Jorge Rafael Videla. Dall’esterno, e da lontano, è arduo giudicare, anche se in America Latina vi fu chi, in situazioni analoghe, non esitò a levare la sua voce profetica, e pagò con la vita (monsignor Angelelli in Argentina; monsignor Romero in Salvador; e molti altri sacerdoti, religiose, laici). Ma adesso, più che inchiodare Bergoglio al passato, e anzi senza dimenticarlo, è il tempo di valutare Francesco per quello che farà come vescovo di Roma.

E perciò torniamo alla sera del 13 marzo: la fumata bianca, l’attesa, l’annunzio dell’«Habemus papam» e, infine, l’apparizione del neo-eletto e le sue prime parole. Il suo «Buona sera» alla gente accalcata in piazza; il suo richiedere ad essa di essere benedetto, prima di dare la sua benedizione; e, soprattutto, il suo non chiamarsi mai papa o pontefice, ma «vescovo di Roma», sono segnali – ecclesiali ed ecumenici – notevoli, e non casuali, perché, finora, tutti i suoi successivi interventi sono andati nella stessa direzione. Parlando agli operatori dei media (giornalisti e tecnici, oltre cinquemila venuti apposta da ogni parte del mondo per il conclave) ha esclamato: «Ah, come vorrei una Chiesa povera, e per i poveri!». E, il 19 marzo, nell’omelia per l’inizio del suo ministero petrino: «Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo vescovo di Roma, successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull’amore, segue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, chi è straniero, nudo, malato, in carcere (cfr Mt 25,31-46). Solo chi serve con amore sa custodire!».

E, incontrando il 22 marzo il Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Francesco, sempre presentandosi come vescovo di Roma, ha detto: «Uno dei titoli del vescovo di Roma è pontefice, cioè colui che costruisce ponti, con Dio e tra gli uomini. Desidero proprio che il dialogo tra noi aiuti a costruire ponti fra tutti gli uomini, così che ognuno possa trovare nell’altro non un nemico, non un concorrente, ma un fratello da accogliere ed abbracciare!… In quest’opera è fondamentale anche il ruolo della religione. Non si possono, infatti, costruire ponti tra gli uomini dimenticando Dio. Ma vale anche il contrario: non si possono vivere legami veri con Dio, ignorando gli altri. Per questo è importante intensificare il dialogo fra le varie religioni, penso anzitutto a quello con l’islam, e ho molto apprezzato la presenza, durante la messa d’inizio del mio ministero, di tante autorità civili e religiose del mondo islamico. Ed è pure importante intensificare il confronto con i non credenti, affinché non prevalgano mai le differenze che separano e feriscono, ma, pur nella diversità, vinca il desiderio di costruire legami veri di amicizia tra tutti i popoli… [Questo però] è un cammino difficile, se non impariamo sempre più ad amare questa nostra Terra. Anche in questo caso mi è di aiuto pensare al nome di Francesco, che insegna un profondo rispetto per tutto il creato, il custodire questo nostro ambiente, che troppo spesso non usiamo per il bene, ma sfruttiamo avidamente a danno l’uno dell’altro».

Un Concilio generale per attuare la riforma

Questi discorsi (accompagnati da semplicità nel vestire: la croce pettorale di ferro invece che d’oro, le scarpe normali, invece che rosso-porpora… siamo ad anni-luce da Ratzinger!) indicano una strada che, coerentemente perseguìta, da scelta ascetica personale dovrà coinvolgere l’istituzione ecclesiastica e, in particolare, le strutture dello Stato della Città del Vaticano e la Curia romana. E qui si pongono problemi cruciali. Implacabile sarà l’opposizione dell’apparato curiale a Francesco se egli realizzerà davvero la modifica – ipotizzata dai due predecessori, ma da loro mai realizzata – del «modo di esercizio» del primato petrino, pur salvaguardandone la «sostanza»; dunque, attuando la collegialità episcopale, intanto approntando una specie di «consiglio della corona» con cardinali rappresentanti i vari continenti, e poi con un Sinodo deliberativo, composto da vescovi ma anche da laici, uomini e donne.

Una tale scelta, nella direzione implicitamente indicata dal Concilio Vaticano II, ridimensionerebbe drasticamente il potere della Curia, e restituirebbe al popolo di Dio delle Chiese locali il diritto di scegliere il proprio pastore. E se poi – come potrebbe non farlo, un papa Francesco? – egli porrà mano alla scure per demolire le strutture che impediscono la trasparenza nella gestione economica e finanziaria dei vari organismi della Santa Sede – e dunque riformerà, se riformabile, lo Ior (Istituto per le opere di religione, la banca sui generis che sta in Vaticano), tagliando il cordone ombelicale che lo lega ad affari torbidi – troverà dirigenti responsabili pronti a seguirlo, o dovrà ogni giorno guardarsi alle spalle?

Definendosi «vescovo della Chiesa che presiede alla carità» (espressione di Ignazio di Antiochia, martire del secondo secolo), e non sommo pontefice e capo della Chiesa universale, Francesco sottolinea una pista che, in campo ecumenico, potrebbe portare lontano. Ma sciogliere il grumo di problemi istituzionali, e le incrostazioni di potere mondano, che a motivo di accadimenti storici, e per la sordità all’ideale di Chiesa proposto da personaggi come Francesco d’Assisi, si sono incistati nel rivendicato carisma petrino, comporta una dolorosissima via crucis di spoliazione. E obbliga a ridare alle Chiese locali poteri che, per motivi forse un tempo ragionevoli, o per pretese infondate, il papato ha accumulato da un millennio a questa parte, ad iniziare con il Dictatus papae di Gregorio VII († 1085), completato con i dogmi del primato pontificio e dell’infallibilità papale proclamati dal Concilio Vaticano I nel 1870.

Papa Francesco non potrà, da solo, riuscire nell’impresa che sembra aver imboccato; avrà bisogno che tante e tanti nella Chiesa romana lo accompagnino. Per questo, a noi sembra che la via regale e il modo più sicuro di inverare i sogni di riforma evangelica che il vescovo di Roma ha fatto balenare, sia necessario avviarsi verso un nuovo Concilio generale della Chiesa cattolica, ove l’intero popolo di Dio sia rappresentato. A spingere verso questa ipotesi, vi è un fatto incontestabile: l’elezione di Francesco ha sprigionato nella Chiesa romana simpatia verso di lui, e speranze e proposte da anni martellate dalla base, da gruppi come l’«International Movement We are Church», da teologi e vescovi illustri, ma sempre sdegnosamente respinti, o comunque ignorati, da Wojtyla e da Ratzinger. Uno dei maggiori teologi del Nord del mondo, lo svizzero tedesco Hans Küng, e uno dei maggiori del Sud, Leonardo Boff, hanno commentato in modo quasi entusiasta l’elezione di Francesco, e i suoi primi gesti. È stato come tolto il coperchio ad una pentola che bolliva, ma che, sotto i due precedenti pontificati, era tenuta chiusa dalla Curia romana e da molti vescovi scelti apposta da essa come «yes-men», e spalleggiati da teologi e giornalisti di corte e dalla folta schiera degli «atei devoti» di complemento.

A parte che sarebbe fuorviante caricare il nuovo vescovo di Roma di attese miracolistiche, o delegare a lui responsabilità che appartengono ad ogni persona battezzata nella Chiesa romana, il nuovo cammino del quale sembra di intravvedere appena l’aurora non sarà una passeggiata romantica: presuppone, tra l’altro, che Francesco ridia formalmente l’onore ecclesiale a quelle teologhe ed a quei teologi che, sotto i precedenti pontificati, sono stati emarginati; dialoghi anche con gruppi, comunità e movimenti che, appellandosi al Vaticano II, da decenni contestano lo status quo ecclesiale; spalanchi le porte ad una ridiscussione corale del ruolo delle donne nella Chiesa romana, e della possibilità dei loro ministeri ecclesiali.

Niente è scontato. Il confronto con la modernità ha visto il cardinale Bergoglio su posizioni problematiche; né è chiaro se il suo modo di intendere la laicità dello Stato comporti la piena accettazione del fatto che l’epoca della Cristianità è tramontata per sempre, e la gerarchia cattolica non può pretendere che le leggi civili sui temi «sensibili» facciano proprio il punto di vista dei vescovi. Su questo dirimente ventaglio di problemi, il passato del nuovo vescovo di Roma lascia ben sperare, per alcuni versi; per altri assai meno, ed è bene saperlo per non patire poi amare delusioni.

D’altronde, per parlare del versante intra-ecclesiale, le forze, i movimenti, i prelati decisi a smorzare l’input del Vaticano II non abbandoneranno ora il campo ma, anzi, si coalizzeranno per una strenua resistenza, e per gravare su Bergoglio. Il quale, avendo una visione dei problemi alla luce della Croce del Sud, porterà nella Chiesa romana – con riverberi fuori di essa – un punto di vista diverso da quello consueto del Nord su globalizzazione, ìmpoverimento di molti popoli a causa delle storture insite nel neoliberismo, pace, «custodia» del creato. L’avvio del nuovo ministero petrino induce dunque grandi sogni, ma non cancella motivate perplessità: sembra di intuire giorni promettenti di primavera ai vertici della Chiesa romana, ma nessuno può escludere rigurgiti di inverno. Di fronte a questo barometro incerto, noi puntiamo comunque sul bel tempo della speranza. ¡Adelante, Francisco, hasta la victoria, siempre!