L’Europa cambi, è ancora in tempo

Pellegrino Capaldo
Il Sole 24 Ore

Forse riusciamo ancora ad evitare di essere stritolati dal mostro che stiamo creando. Mi riferisco all’«Europa». Politici disattenti e tecnici incolti, privi di fantasia, la stanno trasformando in una vera e propria trappola mortale. La colpa evidentemente non è dell’idea di Europa e di chi tenacemente l’ha perseguita; resta una grandissima idea, di fondamentale importanza per i nostri destini.

E sbaglierebbe chi, di fronte agli evidenti (ed evitabili) errori degli uomini, volesse sbrigativamente liquidarla. La questione non riguarda l’esistenza dell’Europa – che è fuori discussione – ma come essa debba essere costruita.

Dove sta la trappola? Sta nell’interpretazione sempre più meccanica – e vorrei dire sostanzialmente sbagliata – che viene fatta dei cosiddetti parametri di Maastricht, relativi ai limiti dell’indebitamento degli Stati membri.

Andiamo alla fonte. Secondo l’articolo 126 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (cito quasi testualmente):
– gli Stati debbono evitare disavanzi pubblici eccessivi;
– la Commissione sorveglia l’evoluzione della situazione di bilancio e del debito pubblico degli Stati membri. In particolare esamina la conformità alla disciplina di bilancio sulla base dei due seguenti criteri:
a) se il rapporto tra disavanzo pubblico e il prodotto interno lordo supera un dato valore di riferimento;
b) se il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo supera un dato valore di riferimento.

Questi valori di riferimento sono i cosiddetti parametri di Maastricht e sono specificati nel protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi, allegato ai Trattati.
– Se uno Stato membro non rispetta i requisiti previsti da uno o entrambi i criteri menzionati, la Commissione prepara una relazione. Tale relazione tiene conto dell’eventuale differenza tra il disavanzo pubblico e la spesa pubblica per gli investimenti e di tutti gli altri fattori significativi, compresa la posizione economica e di bilancio a medio termine dello Stato membro.
– Il Comitato economico e finanziario formula un parere in merito alla relazione della Commissione.
– Il Consiglio, su proposta della Commissione e considerate le osservazioni che lo Stato membro interessato ritenga di formulare, decide, dopo una valutazione globale, se esiste un disavanzo eccessivo.
– Se decide che esiste un disavanzo eccessivo, il Consiglio adotta le raccomandazioni allo Stato membro al fine di far cessare tale situazione entro un determinato periodo.
Seguono poi apposite norme per il caso in cui lo Stato membro non dia seguito alle raccomandazioni di cui sopra. E ancora norme che, a certe condizioni, consentono al Consiglio di adottare disposizioni che sostituiscono il protocollo per i disavanzi eccessivi allegato ai trattati.

Questa in sintesi la disciplina dell’articolo 126. Come si vede i famosi parametri di Maastricht (disavanzo annuale massimo del 3%; stock del debito massimo del 60%) sono solo un elemento – e neppure tra i più importanti – di un complesso iter basato largamente su elementi discrezionali che porta, prima, alla decisione dell’esistenza di un disavanzo eccessivo e, poi, alla «raccomandazione» allo Stato interessato. E che questi parametri siano solo un elemento – e neppure tra i più importanti – lo conferma il fatto che, sempre secondo l’articolo 126, la Commissione può preparare una relazione quando ritenga che in un determinato Stato membro, malgrado i criteri siano rispettati, sussiste il rischio di un disavanzo eccessivo.

Appare chiaro che il disavanzo eccessivo è frutto non di un mero accertamento contabile ma di una vera e propria decisione del Consiglio. Tale decisione giunge a conclusione di un articolato procedimento che deve tener conto, dice il Trattato, dell’entità degli investimenti iscritti tra le spese, e di tutti gli altri fattori significativi, compresa la posizione economica e di bilancio a medio termine dello Stato membro. Si apre dunque un processo per valutare una pluralità di elementi anche di carattere prospettico a cui può partecipare attivamente, con adeguate argomentazioni, lo stesso Stato interessato.

Il Consiglio, insomma, non è un contabile che opera su dati oggettivi e che si limita a un atto di mero accertamento. Al contrario il Consiglio valuta, soppesa, dibatte anche con il Paese interessato e poi decide se il disavanzo è «eccessivo» oppure no.

D’altra parte non potrebbe che essere così: la diversità di situazioni dei vari Paesi è tale da impedire ogni standardizzazione. In un dato momento, infatti, la possibilità, per un Paese, di incrementare il proprio indebitamento dipende certo dal debito in essere e dal rapporto che questo ha con il Pil e con l’andamento della gestione corrente. Ma dipende anche da molti altri elementi. Ad esempio, dalla produttività che le risorse tratte dall’incremento del debito possono avere in termini di sviluppo e di occupazione, grazie all’attivazione di fattori produttivi inutilizzati.

Dipende, per fare un altro esempio, dallo stock di ricchezza privata e dalla sua attitudine a trasformarsi parzialmente, all’occorrenza, in entrate pubbliche attraverso una più elevata pressione fiscale anche di carattere straordinario. Evidentemente questi elementi hanno peso assai diverso nello spazio e nel tempo e mal si prestano a essere inglobati in un algoritmo, per quanto ingegnoso esso possa essere.

Coloro che costruirono il meccanismo dell’articolo 126 vedevano lontano; forse intravedevano che l’allargamento dell’Europa avrebbe accresciuto il grado di eterogeneità dei diversi Paesi e avrebbe reso del tutto irrazionale ogni forma di automatismo. Purtroppo da molti anni stiamo facendo proprio quello che i nostri padri, giustamente, volevano evitare. Abbiamo imboccato la strada degli automatismi e, con vari regolamenti, la stiamo tenacemente percorrendo, incuranti della sua inconsistenza concettuale e dei gravi danni che provoca.

Giuseppe Guarino, giurista insigne, da anni sostiene che tutto quel che si sta facendo in questa materia è illegale. Le sue argomentazioni mi appaiono ineccepibili. Ma anche se così non fosse, resta il fatto che quel che stiamo facendo è sbagliato, drammaticamente sbagliato: ci stiamo costruendo da soli una trappola mortale. Ce la stiamo costruendo soprattutto noi Italiani che più degli altri avremmo interesse a ricusare ogni automatismo; che più degli altri avremmo interesse a veder applicato un procedimento, come quello delineato dall’articolo 126, volto a valutare tutti gli aspetti della questione, a cominciare dalle nostre potenzialità, che sono davvero molto grandi e che nessun «automatismo» riuscirà mai a scontare e a inglobare.

In verità la tendenza a sostituire qualunque sfera di discrezionalità con meccanismi automatici si manifesta non solo nell’applicazione dei Trattati europei ma in molti altri settori, con effetti ugualmente gravi. Forse questa tendenza è la conseguenza di un’interpretazione frettolosa del principio di trasparenza. Chissà; occorrerebbe un approfondimento, ma non è questa la sede.

E allora, per concludere, non ci resta che chiedere l’applicazione dell’articolo 126 nella sua versione originaria, trascurando tutto quello che è stato fatto successivamente. Non credo che occorrano strumenti giuridici, ma se occorressero li dovremmo utilizzare. Dobbiamo saper cogliere lo spirito del Trattato. Lo deve saper cogliere l’Europa, ma lo dobbiamo saper cogliere anche noi. E il modo migliore, per noi, è presentare “solennemente” all’Europa un Progetto a lungo termine (anche a 15, 20 anni) che dica che cosa intendiamo fare per “rientrare”, che cosa chiediamo in termini di probabile ulteriore indebitamento nei primi anni di attuazione del Piano, a quali “paletti” (covenant) e controlli intendiamo sottoporci nel tempo e così via. Su questi punti potremmo, poi, aprire una trattativa (politica) con l’Europa.

L’Italia ha bisogno di un grande Progetto-Paese largamente condiviso dai cittadini. Ne ha bisogno anche come fattore di coesione di una società che purtroppo mostra segni di disgregazione sempre più vistosi e pericolosi.