Madre della Costituzione, “figlia di nessuno” di G.Codrignani

Giancarla Codrignani
Adista n. 13, 6 aprile 2013

Penso che a Teresa Mattei non dispiacerebbe essere ricordata non come la “Chicchi” (pensando alla Resistenza, ditemi che nome è per un partigiano combattente), la “cocchetta” di Terracini, la “signorina tanto perbene” che qualcuno credeva democristiana, la “ragazzina di Montecitorio” che fece sorridere Togliatti perché era comunista la prima segretaria d’aula o l’inventrice della mimosa. Ma come una donna sempre in conflitto con le istituzioni, forse anche con se stessa, che si è sempre spesa per valorizzare la soggettività della vita quotidiana e per dare senso alle istituzioni volute dalla Costituzione.

Chicchi era una “dura”: educata dal padre all’antifascismo, andò certo oltre il segno pensato dai genitori. Ancora adolescente andò a Nizza per portare a casa Rosselli un contributo degli amici fiorentini. A Mantova, dove si era recata per incontrare don Mazzolari, venne arrestata: scoprì, ignara, dalle donne in cella con lei, il mestiere (e la piaga sociale) della prostituzione. Al Liceo, quando un professore fece l’apologia delle leggi razziali, uscì protestando e fu punita.
Ardita, si diceva, proprio come un uomo: diventata comunista e partigiana, portava in bicicletta da Firenze a Viareggio gli ordini del Pci clandestino imparati a memoria per sicurezza.

Poi vennero imprese ben più rischiose, imposte dal progredire della lotta di liberazione. Dopo la morte del fratello (suicida in carcere per non tradire sotto tortura) e dopo le violenze subite quando fu catturata a Perugia dai tedeschi, si trovò intrappolata dalla contrapposizione amico/nemico: raccontò di essere stata lei a indicare ai gappisti la figura del filosofo – e suo professore – Giovanni Gentile. A tal punto la violenza del fascismo e del nazismo avevano potuto indurre alla crudeltà anche una donna che avremmo sempre conosciuta non solo per il rigore dei principi, ma per la dolcezza degli affetti.

La forza delle donne, si dice. Tante, dopo la Liberazione, si impegnarono per costruire e non si interessarono neppure al riconoscimento formale del proprio contributo per la patria. Chicchi, da “costituente”, aveva imparato che anche per i compagni le donne stanno al loro posto e non possono diventare magistrate perché una volta al mese danno giù di testa. Oggi, per quel che raccontano i giornali, sembra la scelta della mimosa per l’8 marzo – voluta da Teresa contro il parere di Luigi Longo che voleva le violette – sia una notizia che qualifica la donna. Erano i tempi dell’emancipazione e Teresa non fu “una femminista ante litteram”; per la sua generazione la lotta di liberazione – “nessuna Resistenza sarebbe potuta essere senza le donne” – era stato il trampolino per una parità incompiuta. Non essendo ancora cittadine – cioè non potendo “acquisire una parte di quella sovranità che spettava a tutti” – anche se “in guerra avevano guidato treni, fatto le postine, poi finita la guerra erano state rimandate a casa”.

Chicchi divenne scomoda al suo partito a partire da ragioni non politiche, ma “di genere”. Nell’inverno del 1947 Teresa restò incinta, una situazione scandalosa perché l’uomo era sposato. Il Pci era moralista e bigotto: Togliatti decise che l’imprudente doveva abortire (e non fu la sola donna che ricevette da lui quell’imposizione). Teresa reagì dignitosamente: “la ragazze madri in Parlamento non sono rappresentate, dunque le rappresento io”. Poi si adattò ad una procedura assurda, ma liberatoria. Teresa e Bruno Sanguinetti, aiutati da un compagno ungherese, poi ucciso dagli stalinisti, furono adottati da due famiglie ungheresi e, presa la cittadinanza, si sposarono a Budapest. Tuttavia, i fatti personali – ma il personale è politico, come dirà il Sessantotto – ebbe una parte non irrilevante nel distacco politico.

Gli storici, infatti, ricordano l’opposizione “autorizzata” di Concetto Marchesi, immemori della “maledetta anarchica” (così diceva affettuosamente Togliatti) che non accettò passivamente l’imposizione vincolante del partito a favore dell’inserimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione (art. 7). Fu questa la ragione del rifiuto a presentarsi alle elezioni del 18 aprile: Teresa, infatti, fu madre costituente, ma non partecipò al nuovo Parlamento.

I rapporti con la forma del partito-guida, probabilmente giustificabile nell’immediato dopoguerra, non furono mai tranquilli per Teresa, non perché fosse Chicchi, una giovane sbarazzina pensata malleabile, ma perché la scelta dell’autonomia politica nasceva da determinazione matura e ponderata.

Anche quando (troppo poco, ahimè) parlavamo insieme, mi veniva in mente che una così sarebbe stata una bella compagna nella Sinistra Indipendente, il gruppo parlamentare nato (nella sua seconda fase, la più autentica) quando era già formata quella “società civile” attenta a cambiamenti che i partiti avvertivano senza farsene troppo carico. Per Teresa era diventato impossibile, negli anni Cinquanta, mantenere la fiducia nel comunismo sovietico solo perché i compagni italiani erano per la democrazia. Che Stalin fosse un dittatore lo pensavano in molti; ma è stata Teresa “una delle prima dall’interno del Pci a denunciarne le degenerazioni”. E così, dopo il distacco personale, Teresa fu anche espulsa dal Pci.

E’, dunque, fare storia – e anche storia delle donne – raccontare qualche ragione della sparizione dal contesto politico italiano di una “madre della Costituzione”. La sua vera vita è stata quella, libera, della coscienza, che l’ha accompagnata, dalle prime scelte all’organizzazione, partendo dalla sua Versilia, di “Radio Bambina”, nel convincimento che già ai piccoli si debba insegnare non solo l’informazione, ma la comunicazione “per cercare insieme le vie giuste e capire gli altri”. Si rivolgeva ai bambini – e a quelli che restano bambini nello spirito – per quella tensione utopistica che i suoi contemporanei non riuscivano a sentire come componente determinante del futuro. Era, ancora una volta, il suo “fare politica”: affidarla alla generazione che cresce, significa che è in essa che si vedono i segni delle potenzialità umane che non abbiamo il coraggio di sviluppare.

(le citazioni sono tratte dal libro-intervista di Patrizia Pacini, “La costituente: storia di T.M.”, Altra Economia,2011)