Venti di guerra in Corea – una crisi “confezionata”

Eric Margolis
www.lewrockwell.com

Le due Coree in lotta fra di loro e gli Stati Uniti potrebbero andare incontro ad una vera e propria guerra, almeno che Pyongyang e Washington non smettano di provocarsi a vicenda.

La settimana scorsa due bombardieri Stealth US B-2 con a bordo armi nucleari sono partiti in volo diretto dall’America alla Corea del Sud e subito dopo hanno fatto rientro. Questi aerei “invisibili” possono trasportare la bomba GBU-43/B MOAB, che pesa ben 13 tonnellate e 600 kg e che, secondo alcuni, è in grado di fare un “buco” nel cemento armato fino ad una profondità di 70 mt, rappresentando così una pesantissima minaccia per gli impianti nucleari sotterranei e per le principali centrali di comando della Corea del Nord.

Nei primi giorni del mese i bombardieri della US B-52 hanno organizzato delle simulazioni di attacchi aerei a sorpresa nei cieli della Corea del Sud, calcolando anche i tempi di volo necessari dalla Corea del Nord, riportando così alla memoria i massicci e devastanti bombardamenti a tappeto compiuti dagli US ai danni della Corea del Nord durante la Guerra di Corea nel 1950. I giochi di guerra di USA, Australia e Sud Corea effettuati in Marzo sono stati progettati come preparazione ad un’eventuale guerra contro il Nord. I media americani non hanno tenuto conto di queste esercitazioni provocatorie; anzi, come sempre, la Corea del Nord si sarebbe invece armata e avrebbe insensatamente minacciato di attaccare gli Usa con missili di lunga gittata di cui non è ancora in possesso.

Dopo tanti anni, siamo ormai abituati a sentir parlare di queste presunte minacce e prove di forza da parte della Corea del Nord. Tuttavia i suoi recenti e riusciti test nucleari, nonché le ricerche su missili di lunga gittata hanno cominciato a dare forza alle minacce da parte di Pyongyang. Il nuovo leader nord-coreano Kim Yong-un è stato appena eletto e già gli Usa, il Giappone e la Corea del Sud hanno iniziato a metterlo alla prova.

Ancor più importante, il trattato di difesa stipulato tra USA e Corea del Sud obbligherebbe Washington ad un intervento militare nel caso in cui dovesse scoppiare una guerra tra la Corea del Sud e la Corea del Nord. E, viste le attuali tensioni, uno scontro al confine della zona demilitarizzata (DMZ), sia aereo che navale, o eventuali raids da parte delle forze speciali nord coreane, composte da 110 mila uomini, basterebbero a portare le due Coree ad una guerra vera e propria.

La Corea del Nord ha ripetutamente minacciato di radere al suolo parte della capitale della Corea del Sud, Seoul, con l’utilizzo di 11000 pezzi di artiglieria pesante e con batterie missilistiche nascoste in grotte lungo la DMZ. I commando nord-coreani e le batterie missilistiche hanno il compito di attaccare tutte le basi aeree US e i quartier generali di comando della Corea del Sud; e anche le 28500 truppe americane, di base nella Corea del Sud, rientrerebbero fra gli obiettivi principali.

I missili a media gittata nord-coreani sono invece puntati verso la basi americane del Giappone continentale, Okinawa e Guam. Il robusto esercito della Corea del Nord, composto da 1 milione e centomila uomini, è pronto ad attaccare il Sud, mentre l’imponente forza aerea statunitense, infine, dovrebbe smorzare un simile attacco, ma ciò comporterebbe lo spostamento degli aerei da combattimento statunitensi dal Golfo e dall’Afghanistan; ma a questo bisogna aggiungere che le riserve missilistiche e la disponibilità di bombe dell’aviazione americana scarseggiano in maniera preoccupante e anche le attrezzature e gli equipaggiamenti mostrano evidenti segni di logoramento.

Gli USA sono ormai abituati a muovere guerra contro piccole nazioni la cui pericolosità viene esageratamente “gonfiata”, vedi il caso della Grenada, della Somalia, dell’Iraq o della Libia; l’ultima vera guerra combattuta dagli USA, quella del Vietnam, si è rivelata una disfatta clamorosa per l’esercito americano. Ma la Corea del Nord non è l’Iraq o la Libia: la marina e l’aeronautica militari nord-coreane verrebbero rapidamente distrutte dalle forze aeree americane e sud-coreane pochi giorni dopo l’inizio del conflitto. Tuttavia, avere la meglio su un esercito solidissimo come quello nord-coreano sarebbe una sfida molto ardua nel caso in cui quest’ultimo giocasse la partita sulla difensiva. Le previsioni del Pentagono sono abbastanza chiare: l’invasione della Corea del Nord costerebbe agli Stati Uniti almeno 250000 perdite; pertanto gli USA sarebbero chiaramente tentati di fare uso di armi nucleari tattiche. Dal canto suo la Corea del Nord promette di bombardare il Giappone con armi nucleari se gli USA ricorreranno al nucleare, e a questo si aggiungerebbe anche la minaccia di un intervento da parte della Cina.

Per gli Stati Uniti sarebbe invece molto più saggio fare un passo indietro e rinunciare all’idea di un conflitto, cercando quindi di ridurre al massimo le tensioni con la Corea del Nord. Il Ministero del tesoro americano, letteralmente a secco di risorse, non può ancora permettersi un’altra guerra, avendo già bruciato 2000 miliardi di dollari per la guerra contro l’Iraq e l’Afghanistan; le forze armate americane, impantanate in Medio Oriente ed Afghanistan, non sono assolutamente in grado di poter sostenere una guerra vera e propria in Corea, senza contare che il solo spostamento di artiglieria e mezzi corazzati sul posto richiederebbe dei mesi. Per Washington sarebbe dunque il caso di allentare invece che rafforzare le ferree sanzioni contro la Corea del Nord. L’obiettivo di Pyongyang è in realtà quello di giungere ad un Accordo di non-aggressione con gli Stati Uniti, a favore di dirette e normali relazioni con questi ultimi. Ma Washington invece non vuole saperne, nonostante si trovi spesso a trattare con regimi a dir poco ripugnanti, ed i Neocons americani sono determinati nel loro scopo di rovesciare il regime nord-coreano, nel timore che quest’ultimo possa inviare armi più moderne ai nemici di Israele in Medio Oriente.

Intanto, le forze militari nella penisola coreana sono costantemente in stato d’allerta e con il dito sul grilletto; i B-2 americani in volo vicino alla Corea del Nord sembrano quasi preludere un imminente attacco. La diplomazia dal canto suo, e non i generali dell’esercito, dovrebbe fare la sua parte, tentando di superare una crisi in gran parte “confezionata”.

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Coree: chi soffia sul fuoco?

Mario Lombardo
www.altrenotizie.org

La continua escalation di minacce reciproche che sta caratterizzando la crisi in atto nella penisola di Corea in queste settimane ha fatto registrare negli ultimi giorni nuove dichiarazioni minacciose da parte del regime di Pyongyang e sproporzionate reazioni da parte di Seoul e, soprattutto, di Washington. Nella giornata di giovedì, le autorità della Corea del Nord hanno annunciato di essere pronte a colpire gli Stati Uniti con armi nucleari “di dimensioni ridotte, più diversificate e tecnologicamente avanzate”. Allo stesso tempo, il ministro della Difesa sudcoreano, Kim Kwam-jin, ha fatto sapere che il vicino settentrionale ha spostato verso la propria costa orientale un missile dalla gittata “considerevole”.

Un ricercatore dell’International Institute for Strategic Studies di Londra in un’intervista alla CNN ha sostenuto che il missile in questione sarebbe un Musudan, costruito su tecnologia sovietica e con una portata di quasi 2.500 km, abbastanza per colpire il Giappone ma non il territorio americano né, ad esempio, l’isola di Guam nell’Oceano Pacifico dove si trova una base militare statunitense.

Il regime di Kim Jong-un si è detto autorizzato ad intraprendere incisive azioni militari in risposta alle ripetute provocazioni degli USA, i quali nei giorni scorsi avevano dispiegato sui cieli della penisola bombardieri B-2 e B-52 e aerei da guerra F-22 nel quadro delle esercitazioni militari in corso con Seoul, nonché trasferito al largo delle coste coreane due cacciatorpedinieri in grado di intercettare e abbattere missili balistici.

Per il secondo giorno consecutivo, inoltre, la Corea del Nord ha impedito ai cittadini sudcoreani di raggiungere il complesso industriale di Kaesong che i due paesi operano congiuntamente e dove la manodopera di oltre 50 mila nordcoreani viene sfruttata da decine di aziende di Seoul.

La struttura di confine rappresenta una significativa fonte di entrate per il regime stalinista, il quale, secondo alcuni resoconti giornalistici, avrebbe deciso di sospenderne le attività dopo che i media sudcoreani e occidentali nei giorni scorsi avevano deriso Pyongyang perché, nonostante la retorica bellicista, a loro dire stava mantenendo in funzione Kaesong per i vantaggi economici che ne ricava.

Gli Stati Uniti, a loro volta, non stanno perdendo occasione per alimentare le tensioni, come dimostra l’annuncio del Pentagono di impiegare un nuovo sistema di difesa missilistico sull’isola di Guam che ufficialmente dovrebbe agire da deterrente contro un eventuale attacco o un nuovo test nucleare nordcoreano.

Secondo i media americani, l’installazione di un sistema anti-missilistico di terra a Guam consentirebbe di utilizzare per altri scopi le due navi da guerra già nella regione, verosimilmente avvicinandole ancor più alla costa della Corea del Nord che, inevitabilmente, potrebbe reagire in maniera aggressiva a quella che verrebbe considerata come l’ennesima provocazione di Washington.

Se i titoli dei media occidentali sembrano preannunciare un imminente attacco nucleare da parte del regime di Pyongyang, sono in molti a credere, anche all’interno dei governi di Seoul e Washington, che le minacce del giovane leader Kim Jong-un siano poco più di un bluff. Innanzitutto, pur disponendo con ogni probabilità di alcuni ordigni nucleari, la Corea del Nord non viene accreditata delle capacità tecniche per posizionarli su missili di medio o lungo raggio.

Inoltre, l’annuncio di qualche giorno fa della riapertura del complesso nucleare di Yongbyon, chiuso dal 2007, per produrre materiale fissile destinato ad armi nucleari richiederebbe molto tempo per tornare in funzione e, contemporaneamente, indica una certa carenza di materia prima a disposizione del regime per la creazione di un significativo arsenale atomico.

Una dettagliata analisi pubblicata giovedì dalla Associated Press ha evidenziato che solo per riavviare la struttura di Yongbyon, destinata a produrre plutonio, servirebbero dai tre ai dodici mesi. Una volta rimesso in funzione il reattore senza problemi, potrebbero volerci ancora due o tre anni per ottenere plutonio destinato all’uso militare, senza contare la quantità di materiale che dovrebbe essere “sprecato” nei test necessari per mettere a punto un’arma efficace.

Alla luce di questa situazione, nonché delle considerazioni politiche che ovviamente scoraggiano Pyongyang a lanciare un attacco contro la Corea del Sud o le basi americane nella regione per evitare reazioni che porterebbero alla distruzione del regime stesso, l’agenzia di stampa americana, che opera con un proprio ufficio nella capitale dell’isolato paese asiatico, sostiene che l’atteggiamento nordcoreano rappresenta piuttosto un “segnale di frustrazione dopo settimane di minacce che non hanno convinto gli Stati Uniti e Seoul a riaprire i negoziati per il disarmo nucleare e la ripresa degli aiuti umanitari”.

Le pressioni degli Stati Uniti, in ogni caso, non sono solo rivolte verso la Corea del Nord ma anche e soprattutto verso la Cina, invitata in questi giorni a esercitare tutta la propria influenza per richiamare all’ordine il sempre più imbarazzante alleato. In un recente colloquio tra il segretario alla Difesa, Chuck Hagel, e il suo omologo di Pechino, generale Chang Wanquan, il numero uno del Pentagono avrebbe espresso la preoccupazione americana per “la crescente minaccia rappresentata per noi e i nostri alleati dall’aggressiva corsa al nucleare” di Pyongyang. Hagel ha poi sollecitato Pechino ad avviare un “dialogo ed una cooperazione costante su questi temi”, come è ovvio secondo i termini stabiliti da Washington.

Gli appelli a stemperare le tensioni da parte dell’amministrazione Obama sono però smentiti dall’escalation militare americana in Asia nord-orientale, così come da quella innescata di riflesso a Seoul. Giustificando i propri progetti con la minaccia nordcoreana, il governo di Park Geun-hye si è già assicurato dagli USA la fornitura, ad esempio, di nuovi aerei da guerra e sofisticati mezzi militari pesanti. Secondo quanto riportato giovedì dal quotidiano sudcoreano Chosun Ilbo, poi, Seoul starebbe anche trattando l’acquisto dall’Europa di missili cruise in grado di penetrare strutture fortificate o sotterranee.

Questo processo di militarizzazione, già avviato anche in altri paesi alleati di Washington come Giappone e Filippine, trova il pieno appoggio degli Stati Uniti e rientra nella “svolta” strategica verso l’Estremo Oriente decisa nel 2009 dalla Casa Bianca per contenere l’espansionismo cinese.

Il regime nordcoreano, da parte sua, nonostante l’atteggiamento bellicoso continua invece a inviare segnali che fanno intravedere una volontà di giungere ad una normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti, cosa che questi ultimi hanno però sempre escluso, con gravi conseguenze per la stabilità della penisola.

Sia pure cautamente e tra divisioni interne, secondo alcuni analisti la cerchia di potere di Pyongyang appare infatti disponibile ad intraprendere un percorso di “riforme” economiche e di apertura al capitale internazionale, come forse conferma anche la nomina lunedì scorso a primo ministro di Pak Pong-ju, riapparso improvvisamente dopo essere sparito per qualche tempo dal panorama politico nordcoreano e indicato dagli esperti del paese come un promotore del “libero mercato”.

Già lo scorso gennaio, il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung aveva infine rivelato che giuristi ed economisti tedeschi sono al lavoro come consulenti del regime in vista di una possibile apertura agli investitori occidentali. Uno degli anonimi consiglieri citati dal giornale tedesco aveva affermato che la Corea del Nord “è interessata al modello vietnamita” e a mettere in atto la legislazione necessaria ad attrarre un certo numero di selezionati investitori stranieri.

Secondo questa versione, l’interesse principale dei vertici nordcoreani, soprattutto di quelli delle Forze Armate, sarebbe rivolto all’Occidente, ma anche al Giappone e alla Corea del Sud, mentre, significativamente, vorrebbero evitare di approfondire la cooperazione con le aziende cinesi o di importare il modello cinese basato sulla creazione delle cosiddette “zone economiche speciali”.

Una rivelazione, quella del Frankfurter Allgemeine Zeitung, che, se corrispondente al vero, scoprirebbe le vere intenzioni del regime di Kim Jong-un, rimescolando potenzialmente gli equilibri strategici che hanno caratterizzato la penisola fin dalla fine del conflitto tra le due Coree nel 1953.