Il Pd, la Curia e la scuola privata. Perché il referendum di Bologna riguarda l’Italia

Francesca Coin
www.roars.it

Nelle ultime settimane il Referendum consultivo sul finanziamento pubblico alle scuole paritarie private previsto a Bologna per il 26 Maggio ha aperto a un confronto serrato tra i genitori e i cittadini che lo hanno promosso (il Nuovo Comitato Articolo 33) e le autorità politiche cittadine. Più dei 400 cittadini che hanno promosso il Referendum, chi ha fatto parlar di sé sono gli intellettuali cattolici del PD, che, riunitisi nel “Comitato per il B”, hanno prodotto testi, eventi e videoclip a sostegno delle scuole paritarie coadiuvati dal Sindaco Merola, arbitro super partes che ha deciso di scendere attivamente in campo con la maglia della loro squadra. Gli accademici, i docenti e gli intellettuali del Comitato per il B non fanno segreto della loro determinazione. Sanno bene che oltre alla consultazione cittadina il caso bolognese tocca dei punti nevralgici.

Se vince il B si consolida il diritto a finanziare con denaro pubblico la scuola paritaria privata, pratica questa che negli ultimi trent’anni ha consentito di conciliare, dentro il PD e il PDL, gli interessi privati e quelli della Curia, compensando le politiche di privatizzazione, definanziamento e taglio alla scuola pubblica con la reintroduzione della scuola confessionale come modello di formazione per tutti. Se vince il quesito A, invece, si mette in discussione uno degli assi portanti della politica recente, la relazione tra scuola privata, Curia e mercato, offrendo a tutte le città un’arma per ripensare la scuola e la sua organizzazione dopo anni di tagli e di privatizzazione. A Bologna, dunque, è in corso una campagna importante, non a caso i politici del PD l’hanno presa assai seriamente, approfittandone per ridefinire, con un’interpretazione opinabile del dettato costituzionale, il sistema dell’istruzione e i principi che lo regolano.

Il Manifesto in 10 punti del “Comitato per il B”

Il Manifesto in dieci punti “a favore del sistema pubblico integrato” va letto con grande attenzione. Leggiamo al punto 1. del Manifesto che “l’educazione e la formazione della persona, dall’infanzia e lungo tutto l’arco della vita, sono l’investimento più significativo per il futuro”. La frase, a una prima lettura innocente, mina alla base l’idea di istruzione come diritto universale. Dobbiamo tornare al concetto di diritto, perchè gli estensori del manifesto paiono farsi promotori di un’interpretazione della legge che poco ha a che vedere con i diritti, la Costituzione o perfino il buon senso.

Nel Manifesto a favore del sistema pubblico integrato la parola diritto non compare neanche una volta. L’istruzione è un investimento in buona sostanza privato il cui fine non è il pieno sviluppo della personalità umana ma “lo sviluppo umano integrale”. “Investimento” vs. “diritto”, dunque, e “pieno sviluppo della persona umana” vs. “sviluppo umano integrale”: pare una questione terminologica, ma le differenze sono dirimenti. Il concetto di istruzione come investimento può essere fatto risalire agli anni Sessanta quando la American Economics Association tiene la prima conferenza di Education Economics, destinata a mutare il lessico e le finalità dell’istruzione negli anni a venire. Inaugurata da T.W. Schultz e G. Becker, allievo di Milton Friedman e teorico del concetto di capitale umano, la Economics of education inserisce l’istruzione all’interno di uno schema neoclassico di costi e benefici ponendo le basi teoriche affinché essa venisse considerata non più come una spesa sociale derivante dalla responsabilità collettiva, bensì come un investimento razionale che dipende da una valutazione di opportunità. La Economics of education rompe con la tradizione illuminista fino ad allora dominante. Era stato Condorcet a definire l’istruzione come una responsabilità pubblica. Il potere pubblico deve assicurare l’universalità e la gratuità dell’istruzione a ogni suo livello, scriveva Condorcet, in quanto essa rappresenta il fondamento del vivere collettivo. In quanto tale, essa non può essere affidata all’interesse individuale né a una valutazione di opportunità contingente.

La Economics of education introduce una nuova ratio con cui pensare l’istruzione. L’istruzione non è più un diritto universale inalienabile, come sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, o finalizzato alla sovranità collettiva e al perfezionamento dell’umanità. E’ un investimento che dipende da una valutazione razionale di costi e benefici. È in questo contesto che va letto il Manifesto per il B.

Scrive il Manifesto che “L’educazione e la formazione della persona, dall’infanzia e lungo tutto l’arco della vita, sono l’investimento più significativo per il futuro, specialmente in un tempo connotato da radicali cambiamenti sociali ed economici”. Non stiamo parlando dell’istruzione come diritto come voleva Condorcet, o, volendo, come vuole Amartya Sen, per citare un autore formalmente vicino agli autori del Manifesto. Di fatto, nel Manifesto per il B, la parola diritto non compare mai. Nel Manifesto l’istruzione è un investimento la cui erogazione dipende da una valutazione di costi e benefici. L’importanza del punto 1. non sta, dunque, nell’entità dell’investimento ma nella sua non inalienabilità e dipendenza da valutazioni contingenti di opportunità. Per addolcire la prospettiva privatistica del punto 1, il punto 2 introduce il concetto di comunità. E dice: “la comunità bolognese ha sempre riconosciuto nell’educazione uno dei fattori fondamentali per lo sviluppo umano integrale. Per questo le politiche per la scuola, per l’educazione dei bambini e delle bambine e per il sostegno alle famiglie hanno sempre visto l’impegno e il coinvolgimento della città nelle sue varie articolazioni”. Ci sono due questioni in gioco, in questa frase. Primo, “lo sviluppo umano integrale”. Secondo, la sussidiarietà.

Andiamo con ordine. C’è da capire, infatti, che cos’è questo “sviluppo umano integrale”. Lungi dall’essere assimilabile al principio costituzionale di “pieno sviluppo della persona umana” citato dalla Costituzione (art. 3), lo “sviluppo umano integrale” è il tema dell’Enciclica Caritas in Veritate di Benedetto XVI, alla cui stesura Zamagni, economista cattolico in prima linea nel Comitato per il B, ha collaborato, e che a sua volta si rifà all’Enciclica di Paolo VI Populorum progressio. La differenza tra “sviluppo umano integrale” e il “pieno sviluppo della personalità umana” è radicale. Lo sviluppo umano integrale rimanda, infatti, a un percorso formativo confessionale. La “fedeltà alla verità” è un prerequisito per lo sviluppo umano integrale: “la fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà (cfr Gv 8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale”, recita l’Enciclica. In sostanza, il Manifesto spaccia per universale un’idea di scuola profondamente cattolica, e tenta di estenderlo a tutto il sistema scolastico.

Qui entiamo nel cuore della questione. Tra le righe, infatti, il Manifesto accetta l’austerità come volano per il privato e il privato come volano per la reintroduzione della scuola confessionale come percorso formativo per tutti. Nel Manifesto il responsabile della scuola non è mai, infatti, il settore pubblico. Ne è responsabile “la città nelle sue varie articolazioni”, scrive il punto 2. “Una pluralità di gestori di scuole”, scrive il punto 7, “che insieme formano il sistema pubblico delle scuole dell’infanzia bolognesi”, e costituiscono “una grande risorsa per la città”.

Ora, l’articolo 33 della Costituzione dice che “enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. “La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”. Dire, come al punto 7, che “la presenza di una pluralità di gestori di scuole, che insieme formano il sistema pubblico delle scuole dell’infanzia bolognesi, è sicuramente una grande risorsa per la città, oltre che espressione alta del principio di laicità”, significa dunque deformare la realtà due volte. Primo, perchè un servizio privato equipollente al pubblico non sostituisce né diviene il pubblico. Secondo, perché, venendo al caso di specie, a Bologna 25 su 27 scuole paritarie private sono di ispirazione cattolica, e come tali è ben difficile considerarle come espressione alta del principio di laicità.

Ma il bello deve ancora venire. All’art. 8 il Manifesto scrive che “con il Referendum comunale, i promotori del Nuovo Comitato Articolo 33 negano di fatto la peculiarità del nostro ‘sistema scolastico pubblico’, spingendo il Comune ad abbandonare l’esperienza consolidatasi negli ultimi vent’anni”. Ciò lederebbe “il principio costituzionale della libertà di scelta in materia educativa da parte dei genitori, ma soprattutto porrebbe a repentaglio la possibilità di assicurare a molti bambini la frequenza della scuola dell’Infanzia e le grandi opportunità formative che la connotano”.

Ora, la libertà di scelta è il principio cardine della teoria economica della scuola di Chicago, l’idea per cui la sovranità del consumatore è principio inviolabile. Qui però non stiamo parlando di consumatori, né gli estensori sulla carta si rifanno alla scuola di Chicago. Il Manifesto, infatti, evoca il principio della libertà di scelta intendendo il principio di sussidiarietà, ed essendo la sussidiarietà prevista dalla Costituzione trasforma questo mix cattolico-neoliberale in un principio costituzionale che consentirebbe di compensare la minaccia di esclusione derivante dai tagli alla scuola con la parità scolastica, finendo con un casché che impone la scuola confessionale per tutti. Insomma, così facendo il Manifesto gioca sulle ambiguità e utilizza la scure dell’austerità come legittimazione per la sostituzione del pubblico con il privato, e della scuola laica con la scuola confessionale, individuando per questa tesi un solido fondamento giuridico-costituzionale che per il vero è controverso, specie nei termini in cui esso viene configurato. Il problema di questo ragionamento, dunque, è non solo che nega la stessa libertà di scelta che vorrebbe affermare, ma che nel sostenere tali forzature il Manifesto scorda la realtà.

Torniamo al Referendum

Più che porre “a repentaglio la possibilità di assicurare a molti bambini la frequenza della scuola dell’Infanzia”, infatti, il Referendum nasce proprio per risolvere questo problema. Il Referendum è nato dall’incapacità del sistema integrato della scuola per l’infanzia di garantire un posto a scuola a tutti i bambini di Bologna. Nel 2012, 423 bambini sono rimasti senza possibilità d’accesso a scuola, e nonostante il Comune abbia improvvisato soluzioni d’emergenza 103 di loro sono rimasti a casa. Ora, questo “dettaglio” è ciò che il Comitato per il B ignora, dimentica o ritiene irrilevante. In questo contesto, dire che il Referendum pone “a repentaglio la possibilità di assicurare a molti bambini la frequenza della scuola dell’Infanzia”, significa negare l’evidenza. Il quesito referendario nasce proprio per rispondere all’incapacità del sistema pubblico integrato di far fronte alle esigenze di tutte le famiglie, ragione per la quale chiede alla cittadinanza dove preferisca allocare le risorse comunali. Nonché per rispondere alle esigenze di quelle famiglie che sono state obbligate volenti o nolenti a iscrivere i loro figli a una scuola confessionale, e che ora sentono spiegare quest’obbligo proprio con il concetto di libertà di scelta.

Devo fare una puntualizzazione. A chi critichi la scuola confessionale come modello formativo universale, infatti, Zamagni risponde che dietro alla difesa della laicità vive “l’astio nei confronti della Chiesa”. Ora, aldilà del fatto che questa risposta non nega la compiacenza verso l’eventuale estensione a tutti della scuola confessionale, essa ci dice anche che siamo di fronte a semplificazioni storiche inammissibili. Forse giova ricordare che il concetto di laicità nell’istruzione ha alle sue spalle un dibattito largo sette continenti e lungo due millenni. In Italia, per esempio, sono state le stesse Comunità Cristiane di Base a rifiutare la scuola confessionale come modello formativo universale. In un documento del 1998 (Rivista “Il Tetto”, n. 208/1998), le CdB sostenevano che: “le spettacolari mobilitazioni a favore dei finanziamenti alle scuole confessionali, incitano a violare ripetutamente la Costituzione e ostacolano il radicale rinnovamento della scuola che tutti auspichiamo”. “Una scuola chiamata a partecipare alla missione evangelizzatrice della chiesa, come sostiene il Cardinale Pio Laghi, non può essere pari alla scuola pubblica”. “Non può neppure configurarsi come una battaglia di libertà” . Vogliamo parlare anche nel loro caso di “astio nei confronti della chiesa”?

Ma veniamo ai numeri. Al punto 9 il Manifesto spiega che “con le risorse attualmente destinate alle scuole dell’infanzia paritarie a gestione privata (un milione di euro all’anno), il Comune potrebbe garantire nelle scuole gestite direttamente meno del 10% del numero di posti convenzionati”, cioè “145 posti (dato che il costo per bambino nelle scuole comunali è di 6.900 euro all’anno), contro i 1.736 posti assicurati dalle paritarie convenzionate”. Ancora una volta non è corretto. Il bilancio consuntivo del 2011 riporta 38 milioni di spesa totale per la scuola dell’infanzia con un costo medio per bambino di 6.900 euro. I 6.900 a bambino derivano dai costi fissi (bilancio di 36 milioni diviso per 5137 bambini che vanno alle comunali) dentro cui ci però sono gli ammortamenti, le spese generali caricate su ciascun settore, le spese per i pedagogisti e il personale amministrativo e burocratico. Per far fronte alle esigenze di tutte le famiglie e eliminare le liste d’attesa servirebbero invece 12 nuove sezioni a un costo di 90 mila euro a sezione, come dimostra le Delibera comunale del 9 ottobre 2012. Questa cifra corrisponde quasi esattamente alla cifra che al momento viene data alle scuole private: 90 mila euro per 12 sezioni corrisponde a 1 milione e 80 mila euro, ossia la cifra che viene assegnata attualmente alle scuole paritarie. Quando il Manifesto sostiene che il Referendum mette “a repentaglio la possibilità di assicurare a molti bambini la frequenza della scuola dell’Infanzia”, pertanto, dice il contrario di ciò che è, in quanto recuperando le risorse assegnate ogni anno alle scuole paritarie la scuola pubblica potrebbe accogliere tutti i bambini che hanno diritto di accedervi, senza costringerci a riesumare nel terzo millennio argomentazioni retrograde sulla scuola confessionale.

Morale della favola

In conclusione, Zamagni scrive che: “l’alleanza strategica a Bologna tra istituzioni pubbliche e società civile organizzata è una conquista di civiltà e un punto di forza cui non si può rinunciare, se si vuole che il sistema di welfare – […] – continui a restare di tipo universalistico”. A molti di noi pare l’opposto. Come evidenziato sin qui, utilizzare il ricatto dell’esclusione scolastica per legittimare l’irrinunciabilità dei finanziamenti al privato è inefficace, per quanto riguarda i problemi esistenti, e poco etico, su tutti gli altri piani. Glisso sul retrogusto evangelico e quasi coloniale del concetto di civiltà in questo contesto. È triste ripeterlo ancora ma tant’è: tanto più in tempi d’austerità l’unica azione sensata è affermare il diritto inalienabile e di tutti all’istruzione, riconoscere alla scuola pubblica le risorse necessarie per garantirlo, e trasformare la scuola in uno spazio comune di proliferazione e contaminazione delle differenze. Ogni altra scelta è un giro di parole strumentale che non risolve i problemi, ma ne crea.

Per chi vive a Bologna l’appuntamento è per il 26 maggio. Lo slogan del Nuovo Comitato Articolo 33 è VotiAmo A