La guerra della Francia in Mali cambia ma non finisce

Federica Petroni
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La guerra in Mali non è mai finita. Al massimo, muta forma. La Francia ritira un suo primo contingente dal Sahel, con cento soldati ad attraversare il Mediterraneo in senso inverso rispetto all’11 gennaio, data d’inizio dell’Operation Serval. Anche il Ciad, fido alleato francese, annuncia l’intenzione di far rientrare i 2200 uomini che avevano dato un grande contributo nella fase più calda del conflitto nel deserto.

Potrebbe sembrare smobilitazione. In realtà è l’inizio di un nuovo atto della crisi in Mali. Contrariamente a quanto affermava il presidente Hollande all’alba dell’intervento, gli stivali francesi non hanno calcato le sabbie sahariane per poche settimane. La cacciata dei jihadisti che, dopo essersi impossessati del nord del paese lo scorso anno, minacciavano a gennaio scorso una discesa a sud, sta prendendo più tempo del previsto, nonostante Parigi dichiari di aver eliminato circa 400 militanti.

La Francia lascerà in Mali un migliaio di forze speciali “su base permanente”, come ha dichiarato il 5 aprile Laurent Fabius, ministro degli Esteri transalpino. Ritirando così 3 dei suoi 4 mila uomini sul campo. Si tratta di un’evoluzione sostanziale della precedente posizione francese, che intendeva delegare la responsabilità a una forza africana, ritirando l’intero contingente nelle sue basi del continente (Ciad, ad esempio).

A formalizzare la posizione di Parigi sta arrivando una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nelle stanze del Palazzo di Vetro circola in questi giorni una bozza di autorizzazione di una forza di peacekeeping di 11 mila uomini, in massima parte africani. Da schierare se e solo se il conflitto in Mali si sia smorzato a sufficienza e con la possibilità per le truppe francesi di intervenire a protezione delle truppe africane in caso di “imminente e seria minaccia”.

Passasse così com’è, la risoluzione configurerebbe una situazione sul terreno in cui le forze speciali francesi sarebbero incaricate di continuare le operazioni di anti-terrorismo nelle montagne del Tigharghar, mentre alla forza di peacekeeping sarebbe delegata la responsabilità di stabilizzare i centri abitati epurati dei jihadisti.

Una vera e propria ammissione d’impotenza per le forze di sicurezza africane: nei vecchi piani per il Mali erano le truppe continentali a doversi assumere la responsabilità dell’intera operazione. Ma la creazione di una missione africana è segnata da numerosi problemi. A cominciare dalla questione finanziaria, con l’Onu che non intende approvare un fondo di sostegno come per la forza multinazionale in Somalia. E senza finanziamenti esterni, anche i problemi logistici diventano insormontabili. Le truppe senegalesi, ad esempio, hanno impiegato settimane per raggiungere il Mali, uno Stato confinante.

Altro elemento cruciale per impedire un nuovo coagulo jihadista nel deserto sarà il grado con cui i vicini del Mali accetteranno di assecondare la repressione degli estremisti. Un gioco geopolitico delicato, nel quale l’Algeria occupa un posto di primo piano. Un articolo di Limes nel volume “Fronte del Sahara” paragonava la strategia del paese nordafricano a quella del Pakistan nei confronti dell’Afghanistan: una calcolata alternanza da parte dei servizi segreti di sostegno e repressione degli estremisti. Agevolando così l’espansione a sud di questi ultimi.

Culla della cellula di al-Qaida protagonista della nuova ondata jihadista nel Sahara, negli ultimi tempi, l’Algeria si sta però mostrando più intransigente. La presenza militare nelle basi meridionali è stata incrementata, le forze speciali stanno intercettando alcuni convogli di contrabbandieri di armi sulla rotta libico-maliana e sono stati scoperti alcuni depositi d’armi in territorio algerino dove i jihadisti in fuga dal Mali avevano sotterrato fucili e munizioni.

Oltre a droga e armi, dalle piste di sabbia algerine passa una discreta fetta dei destini di Bamako.