ONU: La Siria non ha futuro

NEAR EAST NEWS AGENCY
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Una catastrofe umanitaria: bambini stuprati e uccisi, oltre 600mila rifugiati, case e quartieri interi rasi al suolo. A stilare il drammatico elenco degli effetti della guerra civile siriana sono le Nazioni Unite.

Ieri al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il capo degli aiuti Valerie Amos e l’Alto Commissario per i Rifugiati Antonio Guterres hanno parlato in un raro incontro sul conflitto chiedendo “azioni immediate per porre fine alla guerra”. “La situazione in Siria è catastrofica , la gente paga il prezzo del fallimento della diplomazia – ha detto la Amos – Non so cosa rispondere ai siriani che mi chiedono perché il mondo li ha abbandonati”.

Se da una parte i Paesi occidentali proseguono nell’invio indiretto di armamenti ai gruppi armati di opposizione e sostengono strenuamente i “ribelli”, sul piano diplomatico nulla si muove: la spaccatura tra Russia e Cina – che ritengono necessaria una transizione politica che coinvolga anche il presidente Bashar al-Assad – e Stati Uniti e Unione Europea – impegnate ad operare attraverso sanzioni economiche e finanziarie – blocca qualsiasi tipo di intervento politico congiunto. A ciò si aggiunge il sostegno diretto, secondo l’ambasciatore siriano alle Nazioni Unite, Bashar Ja’afari, di Paesi che attraverso i propri servizi segreti sponsorizzano l’arrivo in Siria di combattenti e jihadisti.

A pagare il prezzo dello stallo sono soprattutto i bambini: “I bambini vengono uccisi, torturati, stuprati – ha proseguito la Amos – Molti non hanno niente da mangiare, milioni di loro sono traumatizzati. Questo conflitto non sta solo uccidendo il presente della Siria, ma sta distruggendo il suo futuro”.

Un futuro incerto, se si calcolano i rifugiati che ogni giorno attraversano i confini per cercare riparo all’estero: ottomila al giorno, secondo Guterres, un numero ingente che potrebbe far salire a 3,5 milioni il numero totale di profughi prima della fine del 2013. E che potrebbe provocare un contagio pericoloso delle violenze settarie nei Paesi vicini, Libano, Giordania e Turchia, già resi instabili dalle divisioni politiche ed etniche interne.