Il programma: molte promesse e plateali silenzi

Giulio Marcon
il manifesto, 30 aprile 2013

Il governo Letta prende il via pagando tre prezzi pesanti a Berlusconi: la probabile candidatura del leader del Pdl a presidente della convenzione delle riforme, la parziale cancellazione dell’Imu sulla prima casa (almeno nella forma della posticipazione della rata di giugno) e l’apertura ad un regime semi-presidenziale con “l’investitura popolare” dell’esecutivo. Letta – nel suo discorso alla Camera- afferma con una certa sicurezza che tra 18 mesi farà una prima verifica sulle riforme istituzionali. Segno che ha intenzione di governare a lungo, almeno fino a che Berlusconi – che ipoteca il suo governo- glielo permetterà.

Letta non fa mancare le promesse, che non si sa come manterrà. Togliere l’Imu, scongiurare l’aumento dell’Iva a partire da luglio, rifinanziare la cassa integrazione in deroga significa oltre 10 miliardi di risorse. Dove pensa di trovare i soldi, Letta non l’ha detto. Il timore (paventato anche da Fassina in un singolare intervento malpancista verso il governo) è quello di altri tagli: alla scuola, alla sanità, alle pensioni. Sicuramente -per recuperare le risorse- Letta non prefigura tagli alle grandi opere e agli F35, sui quali il premier non ha speso una parola. Che poi questi soldi -come dicono quelli del Pdl- si possano trovare da nuove tasse sulle sigarette e l’alcool significa solo colpire i poveri e far pagare le sigarette a 20 euro al pacchetto: pura propaganda.

E’ curioso come Letta “voli alto” sulla necessità di superare la precarietà e rimettere al centro il lavoro dopo avere appoggiato per 17 mesi un governo che con la riforma Fornero ha indebolito i diritti dei lavoratori e aumentato la precarietà dei giovani e delle donne. E mentre il governo nascente ha fornito una data certa per la posticipazione della prima rata dell’Imu, per gli esodati invece si vedrà : una data non c’è.

E poi abbiamo il governo. Accanto ad alcune presenze importanti e di spessore (come quelle di Cecile Kyenge all’integrazione o del presidente dell’Istat Enrico Giovannini al welfare) la compagine ministeriale segnala alcune presenze preoccupanti e da ricordare: quella di Alfano ad un ministero (quello dell’interno) che dovrà gestire situazioni di tensione per una conflittualità sociale crescente, poi Lupi (esponente di quel movimento come Comunione e Liberazione avvezzo ad appalti e ad affari discussi ed opachi) alle infrastrutture e ai trasporti ed infine Emma Bonino -interventista e filoisraeliana- agli Esteri. Con il ritorno della Bonino al governo e con l’incarico alla Farnesina, l’Italia accentuerà la sua propensione atlantica, l’uso mediatico degli interventi umanitari ed un certo protagonismo energico (cioè militare) nelle aree di conflitto.

Nonostante un discorso abile e pieno di promesse il governo Letta ha mostrato con la sua prima uscita tutta la sua debolezza politica, soprattutto per la condizione di subalternità e di alleanza vincolante con Berlusconi che – una volta passati i pericoli giudiziari e ringalluzzito dai sondaggi – lo lascerà al suo destino al momento più opportuno. Lavoro, crisi, precariato: per ora solo promesse e nessuna indicazione programmatica. Per questo la sinistra in parlamento ed i movimenti sociali nel paese devono chiedere conto delle promesse e degli impegni presi per incalzare un governo nato ambiguo, ricostruendo un terreno di mobilitazione per un’alternativa radicale alle politiche di austerity e del rigore finanziario.

La Gelmini ha ricordato nel suo intervento in aula che questo è un governo di “pacificazione nazionale”, quella di cui ha bisogno essenzialmente Berlusconi. Non si capisce come questa pacificazione possa invece beneficare i precari, i cassaintegrati, i poveri, i giovani. In realtà – come ha detto Rosy Bindi nel suo intervento alla Camera – questo rischia di essere un governo di «corresponsabilità per il passato» e questo sarebbe assai grave. Comunque del “governo del cambiamento” non c’è ovviamente traccia. La continuità con Monti e le politiche europee, invece, è garantita.

————————————————————–

Letta: “nulla di detto” sui gay

Barbara Befani
www.micromega.net

Mentre il governo Letta si insedia mettendo una buona parola per molti gruppi svantaggiati come donne (questa strana maggioranza-minoranza) immigrati e disabili, ancora “nulla di detto” (oltre che nulla di fatto) per le persone che scelgono di passare la propria vita con una persona dello stesso genere. Le camere di Francia, Nuova Zelanda e Uruguay hanno di recente esteso il matrimonio (compresi i diritti di adozione) a coppie formate da due uomini o due donne, e a tutt’oggi sono 14 i paesi nel mondo in cui queste coppie possono sposarsi (17 se aggiungiamo Brasile, Messico e Stati Uniti, in cui il matrimonio è legale in alcune regioni). A questi paesi se ne aggiungono altri 21 in cui sono legali forme di unione simili al matrimonio, variamente chiamate PACS, unioni civili, civil partnership, etc. , per un totale di 38 paesi nel mondo in cui l’amore tra due persone dello stesso genere gode di una qualche forma di protezione di fronte alla legge.

Eppure Letta ha parlato di diritti, ricordando che l’Italia è pur sempre il paese di Cesare Beccaria… perché allora queste personcine sono ancora escluse? Non si tratta soltanto di diritti di coppia, ma anche di basilare protezione contro la violenza omofobica: l’Italia continua a ignorare i ripetuti appelli della comunità internazionale a dotarsi di una legge che preveda un’aggravante nelle aggressioni a sfondo omofobico. E non si tratta di punire le offese verbali, che come dimostra questo sito sono endemiche e sistemiche, ma le botte, che con una certa frequenza costringono innocenti ragazzi a passare giorni in ospedale in prognosi riservata solo per aver mostrato affetto al proprio compagno, magari camminandoci mano nella mano. Inoltre, non si tratta soltanto dell’Italia: nella secolarissima Francia l’estensione del matrimonio ha provocato disordini persino nell’aula parlamentare, pochi secondi prima della votazione, dove un gruppo di contestatori si è infilitrato con lo scopo di disturbare “le procedure della democrazia”, come le ha chiamate il presidente della camera, intimando la loro immediata rimozione.

La domanda che non ci si può non porre è: PERCHÉ? Da dove viene tanto odio? Perché i gay e le lesbiche provocano sentimenti così forti di disgusto e rifiuto?

Risposte interessanti arrivano dalla psicologia: secondo una teoria supportata da diversi studi scientifici la forza di questi sentimenti di odio anti-gay avrebbe la sua origine nel fatto che i presunti etero che li provano hanno una componente omosessuale che si sforzano di reprimere. Adottano un modello mentale che li convince a reprimere il loro orientamento al fine di evitare le inevitabili e pesantissime sanzioni sociali, e in nome di fantomatici benefici collettivi come la riproduzione e la crescita dei figli (costruiti sempre socialmente). Poiché tale scelta costa loro dei sacrifici enormi, che pagano quotidianamente col corpo e con lo spirito, non possono tollerare che i loro omologhi di orientamento “ostentino” questo aspetto della personalità che loro faticano tanto a nascondere, e li incolpano di egoismo, di negligenza nel produrre quei benefici collettivi in nome dei quali loro hanno sacrificato la propria sessualità, e di altre fantasiose mancanze.

Il fatto che ci siano tanti altri etero che non hanno figli, e che esistano tanti gay che crescono i loro figli in ambienti familiari sereni non può essere constatato con lucidità, perché le corde emotive legate alla repressione del loro orientamento sessuale vengono toccate prima che il cervello sia in grado di elaborare razionalmente, quando l’invidia è ormai stata scatenata. Non importa se i fatti dimostrano che i gay sono cittadini come tutti gli altri, il punto è che con la loro esistenza normale, alla luce del sole, con la quale mostrano di essere in grado di sopportare umiliazioni e sanzioni sociali, dimostrano agli omofobi che la loro scelta di sacrificare la propria sessualità in nome della paura è una scelta stupida, non necessaria, sbagliata. Ma magari gli omofobi non possono più tornare indietro perché hanno investito decenni nel loro progetto di vita e nella loro identità. Buttare tutto e reinventarsi avrebbe per loro un costo insostenibile. Così come, nello stesso tempo, è insostenibile la dimostrazione palese di aver fatto la scelta sbagliata. Acciecato dalla tempesta emotiva suscitata da queste personcine testarde e pacifiche, dall’invidia per il loro coraggio e forse la loro fortuna, l’omofobo (ovvero il gay represso) non ha altra scelta se non quella di lavorare per umiliarli, per nasconderli dalla sua vista, per danneggiarli.

L’equazione tra omofobo, gay represso e insistenza sulle capacità biologiche di riproduzione degli omosessuali poi è un’ulteriore dimostrazione che alla radice dell’omofobia c’è la debolezza e la paura. Perché solo chi è debole può essere ossessionato dal dovere di diventare genitore, visto che fare figli è un modo molto semplice di assicurarsi il proprio benessere (i figli sono risorse plasmabili e ricettive, e sono le persone al mondo che mettono in discussione il valore dei genitori meno di chiunque altro, soprattutto se vengono educate a non pensare e a rispettare ciecamente l’autorità).

In sintesi: se uno nasce gay ed è una persona debole, cercherà di comportarsi da etero a tutti i costi, in preda alla paura delle sanzioni sociali e al desiderio di assicurarsi il proprio benessere in uno dei pochi modi in cui è in grado di farlo (facendo figli). Incontrare gay felici e aperti sulla sua strada, abbastanza forti da sopportare le sanzioni sociali e abbastanza forti da vivere bene senza figli, non può non farlo rendere conto di quanto lui sia stupido e debole. Si incazzerà perché non capirà perché lui deve fare così tanti sacrifici e gli altri no. Perderà la sua normale lucidità e mostrerà il suo odio attraverso violenze e umiliazioni contro coloro che invidia.

In conclusione: il rispetto per gay e lesbiche è profondamente legato, da un lato allo sviluppo di capacità umane e sociali che permettano agli individui di conquistare un proprio benessere anche senza dover necessariamente diventare genitori; e dall’altro a un’idea di eterosessualità come libera scelta, come una possibilità tra le tante, piuttosto che come imposizione normativa e violenta. Finché esisteranno falsi etero, costretti a comportarsi come tali per imposizione culturale e sociale, o per paura di non avere figli, i loro fratelli fortunati, gay dichiarati che sono sfuggiti alla morsa della paura, saranno sempre in pericolo. Forse se in Italia la smettessero di mettere l’eterosessualità sul piedistallo del merito e dare le medaglie agli uomini in base a dove gli piace infilarlo1 e in base a quanto forte è il loro desiderio di diventare genitori, Cesare Beccaria smetterebbe di rivoltarsi nella tomba.