Andreotti, l’ultimo democristiano

Fabrizio Casari
www.altrenotizie.org

Passato attraverso due guerre mondiali, sette papi, la monarchia, il fascismo, la Liberazione, l’Assemblea Costituente, la prima e la seconda Repubblica, per sette volte presidente del Consiglio (dal ’72 al ’92) e ventidue volte ministro (Difesa, Esteri, Finanze, Bilancio, Tesoro e Interni) Giulio Andreotti è stato, quale che sia il giudizio che si voglia dare sul suo operato, un protagonista assoluto della storia politica italiana e in qualche modo lo specchio riflesso delle idiosincrasie del nostro paese.

Per alcuni un divo, per altri un diavolo, Andreotti è stato un leader politico a tutto tondo. Insieme ad Aldo Moro e Amintore Fanfani ha rappresentato l’anima più profonda della storia della Democrazia Cristiana e, per certi aspetti, nella parte conclusiva della sua attività, il tentativo meglio riuscito, pur se mai vincente, di dare un respiro autonomo sul piano delle politiche internazionali.

Per tutta la prima parte della sua infinita stagione politica, Andreotti è stato uomo fedele al Patto Atlantico e fedelissimo a Oltretevere. Nella seconda parte della sua vita politica, invece, il rapporto con il Vaticano rimase a prova di fedeltà assoluta mentre lo stesso non poté dirsi di quello con gli Stati Uniti. Da anticomunista deciso si adoperò con ogni mezzo per impedire l’arrivo del PCI al governo, non lesinando sforzi nella stessa costruzione di Gladio, la struttura clandestina anticomunista che venne creata per far fronte sul piano militare ad una eventuale vittoria elettorale del PCI. Partecipò attivamente alla costruzione del muro che doveva impedire lo sfondamento delle sinistre in Italia e si dedicò con ogni energia al raggiungimento dell’obiettivo, così come del resto prevedeva la divisione del mondo in sfere d’influenze sancita con il Trattato di Yalta.

Non era Dossetti e la stessa scuola di De Gasperi gli andava stretta. Machiavelli era il mentore ideale. Come disse Indro Montanelli, “quando andavano in chiesa insieme, De Gasperi parlava con Dio, Andreotti col prete”. Il potere, la sua stabilità, la capacità di gestire, con Andreotti conobbero la dimensione dell’obiettivo in sé. Il potere non come mezzo per governare, ma il governare come strumento per raggiungere e conservare il potere. Il potere che “logora chi non ce l’ha”, come disse.

In questo senso non si fece troppi scrupoli a costruire e rafforzare la sua corrente interna alla DC quali che fossero i rapporti da tenere: da Lima a Ciancimino il rapporto con la mafia, così come Gava per quello con le parti meno nobili della Campania e poi Sbardella nel Lazio a tanti altri ovunque. Che Andreotti fosse l’anello di congiunzione tra Roma e Palermo è cosa ormai accertata, pur non essendo ancora del tutto chiaro chi usava chi. Forse sarebbe utile, per capire, mettere le mani sui 3.500 faldoni che, dal 1944 in poi, custodiscono i suoi “appunti riservati”. I segreti inconfessabili di quasi sessant’anni di potere, se li è portati con lui.

Restò fermamente anticomunista anche nella prima metà degli anni ’70, quando il PCI varava il compromesso storico e iniziava la separazione da Mosca, scontrandosi duramente con Aldo Moro che avviava la stagione delle cosiddette “convergenze parallele”. Per Andreotti invece il problema non era coinvolgere il PCI nell’area di governo, ma salvaguardare il ruolo centrale della Democrazia Cristiana. Sul piano dell’elaborazione politica coniò la strategia dei due forni, che vedeva la Dc al centro del sistema politico e che, di volta in volta, sceglieva il “panettiere” più conveniente tra sinistra e destra.

Per rafforzare il suo potere, non esitava a scegliere qualunque tipo di terreno. E, così come sul piano della raccolta dei voti non guardava per il sottile, nell’ambito di questa strategia non si sottraeva a nessun tipo di compagine governativa: dal monocolore all’alleanza con la destra, dal pentapartito a quella con i socialisti, fino all’unità nazionale che, poche ore dopo il rapimento di Aldo Moro, vedeva la nascita di un monocolore democristiano con Presidente Andreotti grazie all’astensione del PCI.

Nei primi anni ’80, giudicando ormai sostanzialmente superato il rischio di una presa del potere da parte dei comunisti, Andreotti si convinse che era giunto per l’Italia il momento di allentare i cordoni che tenevano il paese nella dimensione del protettorato Usa e si adoperò, per il resto della sua vita politica, ad un disegno strategico che tendeva a inglobare il PCI ormai lontanissimo da Mosca e da qualunque ipotesi di conquista del potere e, nel contempo, a sviluppare una politica estera improntata al dialogo con i paesi del Medio Oriente.

Andreotti pensava che una forza come il PCI non poteva rimanere a lungo vittima della conventio ad excludendum e che più utile sarebbe stato farla approdare con decisione nell’alveo europeo delle sinistre moderate piuttosto che tenerla ai margini del sistema nel quale, peraltro, il PCI costruiva la sua forza, governando tutte le principali città italiane e molte delle sue regioni. Come disse una volta, “senza il PCI la Camera non può fare nemmeno gli auguri di Natale”. Dell’appoggio del PCI c’era bisogno sia per governare l’Italia, sia per un ruolo determinate italiano in Europa.

Sedette alla Farnesina dal 1983 al 1989 svolgendo in prima fila il ruolo di collegamento e dialogo politico tra Occidente e Oriente. Fu protagonista indiscusso dell’apertura al dialogo con l’est europeo e svolse con assoluta efficacia il ruolo sempre in sintonia con le posizioni vaticane. Aveva un disegno di politica estera preciso: riteneva che la salvaguardia degli equilibri geopolitici dell’area del Mediterraneo era la sola strada possibile per la costruzione di una Europa che avesse un senso politico oltre che economico e che, in tale contesto, l’Italia doveva e poteva svolgere un ruolo di cerniera importante con la sponda mediorientale.

Proporsi come interlocutore privilegiato in Medio Oriente veniva ritenuto il viatico principale per il riconoscimento della funzione fondamentale italiana, altrimenti ridotta a dimensione minore nel contesto europeo, visto lo strapotere politico, diplomatico, militare ed industriale di paesi come la Francia, la Gran Bretagna e le stessa Germania.

L’Unione dell’Europa era un progetto al quale l’ex esponente democristiano credeva (è sua la firma italiana sul Trattato di Maastricht, peraltro) e la crescita poderosa della Germania ricostruita lo inquietava a sufficienza, al punto che tra le sue battute più celebri si ricorda quella successiva alla riunificazione tedesca. Al giornalista che lo intervistava chiedendogli un parere sulla riunificazione, rispose con l’abituale ironia: “Amo così tanto la Germania che preferirei fossero due”.

La ostpolitik verso i paesi arabi gli valse però lo scontro frontale con la strategie statunitense, che culminò nel fronteggiamento dei VAM italiani con la Delta Force USA sulla pista dell’aereoporto militare di Sigonella, dove Reagan aveva ordinato di farsi consegnare Abu Abbas e Andreotti e Craxi decisero di opporsi. Si scontrarono due idee ormai contrapposte di quale dovesse essere il ruolo dell’Italia in Medio Oriente: se gli USA pensavano ad una sostanziale loro portaerei, alla propaggine ultima del loro impero, Andreotti (e anche Craxi) ritenevano invece che, pur senza mai mettere in discussione la scelta atlantica, per Roma era giunta l’ora di elaborare e condurre una propria politica estera nel Mediterraneo, contesto geopolitico di riferimento.

E, insieme a ciò e forse prima di ciò, che la politica estera dovesse accompagnarsi ad una politica economica che vedesse nell’import-export con i paesi mediorientali un’occasione importante per cementare reciproca fiducia politica, crescente interdipendenza economica e crescita esponenziale della nostra industria, oltre che garanzia di salvaguardia delle forniture energetiche.

Gli Stati Uniti, che non hanno mai apprezzato l’indipendenza altrui, fecero pagare caro ad Andreotti e Craxi quella ribellione, quello spunto di autonomia arrivato qualche decennio dopo Enrico Mattei. Non è un caso che i sei processi per mafia subìti da Andreotti (che vi partecipò da imputato senza mai chiedere leggi ad personam o legittimi impedimenti) sul piano accusatorio siano stati montati anche grazie alla collaborazione del FBI che manovrò a dovere Tommaso Buscetta.

La P2 e l’uccisione di Pecorelli, il direttore di OP, Sindona, Calvi e Marcinkus; nessuna delle vicende più oscure del potere italiano lo vide estraneo, ma nessuna condanna venne pronunciata. Venne sconfitto a un passo dalla Presidenza della Repubblica nel 1992; troppi i nemici non dichiarati rispetto agli amici. Del resto Andreotti non fu certo un santo e la sua passione per il potere (unica, oltre a quella per la Roma) ne ha fornito costantemente un’immagine cinica, accostandolo ora a Machiavelli, ora a Belzebù. Difficile stabilire a chi assimilarlo, forse a entrambi o forse a nessuno dei due. Perché se l’esistenza del diavolo è una grande invenzione della chiesa cattolica, smentire l’esistenza del diavolo è il capolavoro del diavolo stesso.

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I segreti di Andreotti

Santo Della Volpe
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Lo avevano chiamato immortale, ma anche lui sapeva di non esserlo. Giulio Andreotti è morto a 94 anni, dopo aver attraversato più di 50 anni di storia italiana, portando con sé tutti i suoi segreti. E sono tanti, molti racchiusi in quell’archivio grande un appartamento nel centro di Roma. I più spinosi e veri, nascosti e profondi, però li aveva a mente, in quella sua prodigiosa memoria che,lentamente,negli ultimi anni stava svanendo. Segreti che ha portato con sè, alla maniera di Licio Gelli che disse:”un vero uomo i segreti li porta nella tomba”.

Strana coppia, il Gelli capo della P2 ed Andreotti che impersonava in pieno la DC,il cinismo e la cultura di governo allo stesso tempo. Andreotti era il Patto Atlantico e la Costituente, ma anche l’uomo capace di prendere i voti dove erano in modo sospetto organizzati dalla mafia,pur di andare al potere ed essere il bilancino, l’asse centrale del potere democristiano,alleandosi ora con la destra Dc, ora con la sinistra di Moro, ma in modo da essere sempre determinante. E dentro la DC, come fuori, cioè nella raccolta del consenso al momento delle urne, il suo pacchetto di voti in Sicilia, in Ciociaria e nel Lazio, diventava sempre fondamentale. Per questo, e lui non lo negò mai (neanche davanti ai giudici di Palermo),il suo rapporto con Salvo Lima e,di conseguenza (questi invece negati), con gli esattori mafiosi, i cugini Nino ed Ignazio Salvo, fu negli anni ’60 e ’70 importante per farlo diventare ministro e capo del governo, primo ministro,per ben 7 volte.

Perché Salvo Lima era proconsole di Andreotti in Sicilia e capo di quella che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa definiva nel suo diario la ‘famiglia politica più inquinata dell’isola’. Lima aveva aderito alla corrente andreottiana nel 1968,quel gruppo di “amici” che ha portato Andreotti ad essere perno politico di lunghe stagioni italiane. Facendo governi di centro e di centro destra, ma anche di centro sinistra ed inaugurando l’unico governo di solidarietà nazionale con l’astensione del PCI, interrotto dal rapimento di Aldo Moro, quel 16 marzo 1978 che stava aprendo un’era ed invece sancì la continuazione dell’incubo,sino al disfacimento della DC,dopo la caduta del muro di Berlino. Quei giorni tra il 16 marzo e l’8 maggio 1978,saranno ancora da scrivere: lui leader della fermezza contro le BR , non riuscì a salvare Moro;e secondo molti uomini politici di allora, fece parte di chi non volle salvarlo.

Andreotti capì quasi sempre prima l’andamento della deriva nazionale e del cambiamento internazionale: capiva e intuiva, ma invece di ergersi a statista nel governo delle transizioni verso il futuro, finiva sempre per governare l’esistente,schivando i cambiamenti sostanziali ed agendo abilmente per la logica del mantenimento del potere. Perché il Potere era il suo vero culto, l’altare cui aveva immolato la sua intelligenza ed il suo programma di vita: un potere che poteva partire dalle lettere di raccomandazione ( a centinaia di migliaia) per il suo elettorato, ed arrivava al rapporto con gli Usa e con l’OLP di Arafat,passando ovviamente per il Vaticano,il suo vero partito di riferimento. Perché lui ascoltava i Papi, ma soprattutto veniva ascoltato dai Papi.

In una delle interviste che ebbi modo di fargli prima e durante il processo per associazione mafiosa di Palermo, mi parlò spesso degli “americani che lo avevano mollato” e dei tanti, diceva, che volevano che “togliesse il disturbo”. In realtà sapeva che la sua parabola discendente in politica era cominciata l’indomani della visita di Gorbaciov a Roma e quando l’Ungheria e la Germania Est (di allora), aprirono le frontiere. In quel 1989, Andreotti disse che nulla sarebbe più stato come prima. Così fu, ma sapeva,il “divino” che non sarebbe stato come prima anche per lui personalmente. Perché troppe vicende oscure aveva attraversato, dalle vicende del povero Piccioni (e parliamo degli anni ‘50) a Calvi e la P2, passando per Sindona e lo Ior, senza dimenticare che quel patto che aveva fatto con la DC di Salvo Lima e con la mafia dei Bontade prima e dei Corleonesi dopo per mantenere il potere della Dc in Sicilia,dopo i Restivo ed i Gioia, erano tutti debiti con la storia che avrebbe dovuto saldare.

La giustizia italiana non c’è riuscita, quella delle voci popolari l’hanno prima condannato e poi assolto,infine visto come l’uomo del testimone verso i nuovi patti tra Stato e Mafia, anche se hanno rimpianto la sua capacità di affrontare i processi sempre nei limiti del percorso costituzionale del controllo di poteri.

Ancora ricordo che il giorno nel quale diedi la notizia in diretta TV da Palermo del suo rinvio a giudizio, incontrai cittadini che mi offrirono da bere (mai successo né prima né dopo allora,per fortuna..!!) e contemporaneamente, persone che a testa bassa mi facevano presagi di riscossa del Divo Giulio,perché “Andreotti era più forte dello Stato”. In un certo senso ebbero torto entrambi, ma Andreotti in quelle vicende di mafia non pagò tutto il prezzo che molti gli pronosticarono: ora ha portato i lati oscuri con sé, solo la Storia potrà giudicarlo compiutamente.

Ma almeno su di lui si può dire quello che la Cassazione ha sancito, almeno come punto fermo per gli storici che verranno e per chi riuscirà,speriamo presto, a leggere le migliaia di faldoni che custodisce ancora il suo studio. Quando, fuori onda e dopo la registrazione di una intervista, gli chiesi se si potevano consultare e chi mai lo avrebbe fatto, mi lanciò uno sguardo gelido e che non ammetteva repliche , dicendo:” solo la mia famiglia potrà decidere e dopo la mia dipartita, che comunque spero ancora molto lontana”.Non parlò né di posteri,né di Storia. Era il 1993.

Poi vennero le sentenze per il caso Pecorelli e per i suoi rapporti con la mafia. Fu assolto in primo grado il 23 ottobre 1999, con formula ampia perché “il fatto non sussiste”,ma con un articolo di legge che aveva sostituito nel codice l’insufficienza di prove. In appello, il 2 maggio 2003, il verdetto era stato più controverso: prescrizione per i fatti contestati fino al 1980, assoluzione per quelli successivi. La Cassazione ha confermato proprio questa impostazione,in modo definitivo,il 15 ottobre 2004 scrivendo che Andreotti «ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi».

A queste conclusioni ,infatti, erano giunti gli ultimi giudici del senatore a vita, quelli della Corte d’assise di Palermo che lo hanno assolto per non aver commesso il reato di associazione mafiosa a partire dal 1982, ma hanno invece dichiarato prescritto il reato di associazione per delinquere semplice (l’associazione mafiosa non esisteva ancora nel codice penale) commesso almeno fino al 1980. Una sentenza che afferma,quindi, che in epoca di grandi delitti mafiosi (Mattarella, Costa, Basile ed altri di quegli anni), Andreotti ebbe rapporti con la mafia. Una sentenza confermata da una ulteriore sentenza della Corte di cassazione, che ha messo l’ultimo sigillo su una vicenda durata dieci anni. Secondo i giudici d’appello, infatti, è provata la consapevolezza, da parte di Andreotti, dei rapporti tra il suo «luogotenente» in Sicilia Salvo Lima e Stefano Bontate, il capomafia eliminato dai corleonesi di Totò Riina nella guerra di mafia del 1981.

E sono da considerarsi provati gli incontri diretti tra lo stesso Bontate e Andreotti in persona, a cui ha sostenuto di aver assistito il pentito Francesco Marino Mannoia. In quegli incontri si discusse il problema del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, considerato un ostacolo dai boss e assassinato il 6 gennaio 1980; una vicenda alla quale i giudici dedicano considerazioni pesanti. Nelle riunioni con i mafiosi, secondo i giudici d’appello, Andreotti «ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, ad ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui ed a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del Presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza».

Secondo i giudici di Cassazione quei rapporti poi si interruppero, sino a portare Andreotti in una difficile situazione di equilibrismi politici per mantenere da un lato il suo potere ed i suoi voti nella DC dell’isola, dall’altro un atteggiamento politico di condanna, almeno pubblica, della mafia. Un equilibrio che si spezzò definitivamente con il maxi processo e le conferme in Cassazione delle condanne alla cupola, nel 1992. L’assassinio di Salvo Lima sancì questa rottura definitiva.

Ma Andreotti fu anche processato, a Perugia, per il delitto del giornalista Mino Pecorelli, ucciso per strada a Roma, a colpi di pistola, il 20 marzo 1979. Il 14 aprile 1993, dopo la testimonianza in cui Buscetta aveva dichiarato che il boss Gaetano Badalamenti gli aveva a sua volta raccontato che l’omicidio era stato «commissionato dai cugini Nino e Ignazio Salvo per conto di Giulio Andreotti», il quale avrebbe avuto paura che Pecorelli pubblicasse informazioni che avrebbero potuto distruggere la sua carriera politica, Andreotti venne iscritto nel registro degli indagati a Roma, poi il processo passò a Perugia perché tra gli indagati c’è l’ex magistrato Claudio Vitalone. Il 20 luglio 1995 cominciò il processo di primo grado.

Pecorelli, direttore del periodico «Osservatorio politico» (Op), in passato aveva effettivamente pubblicato più volte notizie ostili ad Andreotti, come quella sul mancato incenerimento dei fascicoli del servizio segreto Sifar sotto la sua gestione al ministero della Difesa. E aveva poi disposto anche una vera campagna di stampa sullo scandalo petroli (dove Andreotti fu toccato al punto da far insorgere la DC alla Camera dei Deputati al grido di “non ci processeranno in piazza”) e sui finanziamenti illegali della Democrazia cristiana, il partito di Andreotti. Inoltre, aveva rivelato segreti sul rapimento e sull’uccisione dell’ex primo ministro Aldo Moro, assassinato nel 1978 dalle Brigate rosse. Il punto più controverso, quello che secondo gli inquirenti aveva portato al delitto, era stato una storia di copertina di Op intitolata «Gli assegni del Presidente», con l’immagine di Andreotti: Pecorelli, però, aveva accettato di fermare la pubblicazione del giornale quando ormai era già in stampa.

Il 24 settembre 1999 la Corte d’assise di Perugia prosciolse Andreotti perché non aveva commesso il fatto. Andò diversamente in secondo grado: il 17 novembre 2002 fu condannato a 24 anni di carcere come mandante dell’omicidio. Il 30 ottobre 2003, però, la Cassazione annullò la condanna di appello e rese definitiva l’assoluzione di primo grado.

Tutte vicende che travolsero Andreotti nella sua vita politica ormai in fase discendente: ma dalle quali, grazie alla rete del suo Potere accumulato negli anni, riuscì sempre a riemergere, diventando l’ideale traghettatore tra la prima e la seconda Repubblica. Fu esterno alla nuova trattativa tra Stato e Mafia degli anni ’90, ma quella sua rete di poteri e segreti, di rapporti e sottobosco politico, sono rimasti pressoché intatti in quegli anni, costituendo alla fine l’humus nel quale è nato il novo “conservatorismo” berlusconiano, la nuova destra, nella quale lui comunque non si inserì mai. Anche se non si sottrasse alla fascinazione del Potere neanche quando era ormai un anziano senatore a vita: nel 2006 fu candidato da Berlusconi a presidente del Senato contro Franco Marini, leader dell’Unione vincitrice di poco alle elezioni. Perse per pochi voti, ma il suo cinismo politico non fu, anche in quella occasione, immune dalla vanità e dall’ambizione del Potere. Anche se glielo avrebbe potuto dare, strumentalmente, il Berlusconi così lontano dal suo mentore, Alcide De Gasperi.

Ma questa è storia di ieri: per quella dell’altro ieri e dei suoi 50 anni di potere dello scorso secolo, il giudizio è ora affidato ad altri.