Il cardinal profano dei sacri palazzi romani

Luca Kocci
il manifesto, 7 maggio 2013

Abitava “al di qua” del Tevere, a poche centinaia di metri dai confini della Città del Vaticano, ma Oltretevere Giulio Andreotti era di casa. Un «cardinale esterno» lo ha definito Andrea Riccardi, altro assiduo frequentatore dei Sacri palazzi; un «segretario di Stato permanente», l’immagine che di lui diede invece Francesco Cossiga.

Semplificazioni a parte, le relazioni del sette volte presidente del Consiglio con il Vaticano, la Conferenza episcopale italiana e le gerarchie ecclesiastiche sono state solidissime, da sempre. Come dimostrano i contatti avuti con quasi tutti i papi del ‘900, a cominciare da Pio XI che, benché fosse poco più di un bambino, conobbe durante un’udienza in Vaticano. Con i successori di papa Ratti, invece, i rapporti furono strettissimi. Ai tempi di Pio XII, Andreotti era presidente della Fuci (la Federazione degli universitari cattolici, con sede in via della Conciliazione, a due passi dal colonnato di San Pietro) ed iniziava a muovere i primi passi in politica, ma «nella fase finale del pontificato di Pacelli – ricorda il card. Silvestrini – spesso interloquiva in Vaticano per conto di De Gasperi».

Poi Giovanni XXIII e, soprattutto, Paolo VI, di cui era amico da tempo: Montini era assistente della Fuci al tempo della presidenza Andreotti e fu proprio lui a “raccomandarlo” a De Gasperi che lo volle come sottosegretario in tutti i suoi governi. Decisamente solidi furono i rapporti con Wojtyla il quale, all’indomani della condanna in appello nel processo Pecorelli, assolse il senatore ben prima dei giudici della Cassazione: «Può darsi che queste prove ingiuste che le tocca sopportare servano, attraverso le misteriose vie della Provvidenza, a far del bene non solo a lei ma all’Italia», gli scrisse in una lettera che Andreotti conservò come una reliquia fino alla fine. E anche con Ratzinger, più volte intervistato da 30Giorni, il mensile di Comunione e Liberazione – movimento a cui era legatissimo – che Andreotti diresse dal 1993 fino alla cessazione delle pubblicazioni, nel maggio 2012.

Per questo in Vaticano lo ricordano con enfasi come «simbolo» della prima repubblica: «Uomo eminentemente pragmatico, con un’intelligenza e un’ironia riconosciute dai suoi sostenitori così come

dagli avversari»», si legge sull’Osservatore Romano di oggi. Per il presidente della Cei Bagnasco, Andreotti è stato «un grande statista» che lascia molti «insegnamenti» e il «protagonista di un grande periodo nella nostra storia italiana». Mentre il card. Ruini – una sorta di alter ego ecclesiastico di Andreotti – ne sottolinea la «maniera discreta ma tenace di tenersi agganciato ai valori cristiani, non nascondeva la sua fede, sapeva contemperare bene il ruolo istituzionale con le sue convinzioni di credente». Più misurato il notista politico di Civiltà Cattolica, quindicinale dei gesuiti, p. Michele Simone: «Ritengo che non tutte le cose negative che gli sono state attribuite provenissero da lui. Penso che la storia darà un giudizio tutto sommato positivo». Qualche voce anche dalla Chiesa di base, quella del frate servita Benito Fusco: «Adesso che Andreotti è morto si dirà che è stato un padre della patria. Al massimo è stato un “padrino” e con lui se ne vanno molti segreti della vita politica italiana. La morte non cancella la storia di un uomo, anche se ce lo ritroveremo nella Gloria di Dio».

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UN CARDINALE LAICO CHE HA ATTRAVERSATO 7 PONTIFICATI

Marco Politi
www.ilfattoquotidiano.it

Dieci giorni prima del varo del governo di solidarietà nazionale, che comprende il Pci (e che
coinciderà con il rapimento di Aldo Moro da parte delle Br, 16 marzo 1978) Giulio Andreotti sogna
Togliatti. “Vestiva di grigio – scrive nei suoi diari – Gli ho chiesto come stesse e mi ha risposto:
‘Lassù non mi hanno trattato male’”. C’è tutto Andreotti nel racconto di questa visione. Il rapporto
pacato con l’avversario politico – un nemico con cui si può sempre trattare – il costante
collegamento con i Cieli, da cui perviene l’assicurazione indiretta che il comunista non è
all’inferno, l’atmosfera fredda, controllata che tinge di grigio minimalista un passaggio
difficilissimo della storia politica italiana.

Di volta in volta Andreotti è stato descritto come un clericale o il portavoce del Vaticano nella lunga
serie di governi di cui è stato ministro o presidente del Consiglio. Etichette che lo definiscono
troppo poco. Giulio Andreotti è stato uomo di potere allo stato puro. E poiché era cattolico e poiché
nella storia italiana l’unico potere sedimentato da secoli si è condensato nella Curia romana, è stato
in massimo grado un gestore del potere secondo i metodi freddi, razionali, tenaci della tradizione
curiale. Un cardinale laico, si potrebbe dire, nel solco del curialismo tridentino e della lezione di
Machiavelli.

Fra tutti i pontefici che ha frequentato – da Pio XII a Paolo VI, da Giovanni XXIII a Benedetto
XVI, passando per Giovanni Paolo II – il più organico a lui psicologicamente è stato certamente
papa Pacelli, il supercontrollato gestore di un pontificato politico sino all’unghia, assertore di una
Chiesa che si occupa anche delle più piccole chiavi del potere. Grandi o piccoli che fossero,
difendeva gli interessi materiali o politici della Chiesa non come un faccendiere, ma come chi fa
parte organicamente della sua struttura. Con la stessa cura impassibile, con cui si preoccupava di
tutelare i desiderata dei suoi elettori laziali, coltivatori di carciofi. In Vaticano il cardinale a lui più
vicino, anzi concretamente “andreottiano”, è stato per lunghi anni il proconsole della Sanità
ecclesiastica, Fiorenzo Angelini.

Andreotti andava a messa tutte le mattine prima, ma non si
troveranno nelle cronache politiche di oltre sessant’anni suoi interventi “cattolici” ideologicamente
appassionati. Nei grandi referendum che hanno incendiato l’Italia – quello sul divorzio e quello
sull’aborto – è sempre presente dalla parte dei vescovi e della posizione della Democrazia cristiana,
ma non si sbraccia mai nelle vesti del crociato. Con freddezza cerca semmai di mediare sino
all’ultimo: con Nilde Jotti, del Pci, per evitare il referendum sul divorzio e per quanto riguarda
l’aborto sperando di individuare una formula di “aborto terapeutico” trasversalmente accettabile in
Parlamento.

Comunque, da presidente del Consiglio, firma nel 1978 la legge sull’aborto. Disciplinatamente
Andreotti si allinea, quando il cardinale Ruini lancia la campagna per l’astensione sul referendum
del 2005 sulla fecondazione assistita. Benché in un primo momento abbia sostenuto l’importanza di
recarsi alle urne, anche se per esprimere il proprio “no” alle modifiche proposte. Ma se la struttura
ecclesiastica intima ufficialmente una linea, Andreotti ubbidisce. Mai fare battaglie di principio .
Memorabile resta il suo appunto a Pio XII per sconsigliare l’operazione Sturzo, il listone con i
fascisti che il pontefice auspica nel 1952 alle elezioni amministrative di Roma. Mentre De Gasperi
si lacera nella sua coscienza di cattolico democratico, Andreotti elenca impassibile al Papa i motivi
per cui il Movimento sociale acquisterebbe troppo spazio in Italia, finendo per indebolire la Dc e
quindi il potere della Chiesa.

Il ragionamento, di puro potere, convince Pio XII. Afascista, Andreotti
assorbe nella sua Dc i quadri statali compromessi con il fascismo, evitando alla Chiesa scomodi
esami di coscienza sui rapporti con il Duce. Cattolico moderato, si allea con Cl negli anni Ottanta
per rafforzare la sua corrente in seno alla Dc. Anticomunista, tratta – quando necessario – con il Pci
e con i sovietici. Sempre in costante collegamento con le gerarchie vaticane passa indenne
attraverso gli scandali più oscuri. Da venti anni dirigeva il mensile 30 Giorni, che circola negli
ambienti ecclesiastici e diplomatici. Lì distilla la sua esperienza di politica internazionale, anche
pungolando inerzie vaticane. Fino all’ultimo suona l’allarme contro un’aggressione israeliana
all’Iran.