L’Italia di chi nasce in Italia

Paolo Bonetti
www.italialaica.it | 07.05.2013

Di fronte al progetto del ministro per l’integrazione Cécile Kyenge di concedere la cittadinanza a tutti coloro che nascono in Italia,

di sostituire insomma l’attuale legge che si basa sullo ius sanguinis (diventi cittadino soltanto se sei nato da genitori italiani oppure se hai raggiunto la maggiore età) con una fondata, invece, sullo ius soli, come accade negli Stati Uniti d’America o anche in altri paesi pur con qualche limitazione più o meno grave, le reazioni sono stata di tre tipi. Ci sono coloro che hanno subito appoggiato la proposta e quelli che l’hanno immediatamente respinta, magari con espressioni smaccatamente razziste, come quelle di qualche esponente della Lega Nord.

Ma ci sono stati anche quelli che, pur lodandola per il giusto scopo che si propone, hanno comunque invitato alla prudenza, alla gradualità e a non provocare ulteriori conflitti sociali in un paese già così culturalmente e politicamente diviso come il nostro. Anche in questo campo, insomma, si sono manifestati i cosiddetti terzisti, quelli che di fronte ad ogni proposta realmente innovativa son sempre lì a dire che non bisogna essere precipitosi, bisogna valutare, ponderare, riflettere, tener conto delle opinioni e magari dei pregiudizi e delle paure di questo o di quello, sicché alla fine non se ne fa niente e tutto resta come prima.

La povera Kyenge è stata saggiamente redarguita, le si è raccomandato di essere meno “sovreccitata” e anche di parlare meno, perché il governo Letta deve far fronte ai quotidiani ricatti della destra e non può compromettersi con una legge che in sé sarebbe anche valida, ma che per l’Italia, paese perennemente minorenne, appare ancora prematura. Insomma, siamo alle solite: abbiate pazienza e non disturbate troppo il conduttore. Sa lui con che velocità bisogna procedere.

Per certi moderati in Italia è sempre tutto prematuro e la politica migliore consiste in ogni circostanza nel dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Negli anni Settanta dello scorso secolo era prematura la legge sul divorzio e infatti si cercò di sostituirla con un pastrocchio che accontentasse anche i cattolici, finché l’opinione pubblica sollecitata da alcune minoranze laiche combattive non riuscì ad imporla.

Ed era talmente prematura che, qualche anno dopo, il paese l’approvò a grande maggioranza. Non parliamo poi della legge sull’aborto che avrebbe dovuto scatenare la rivolta del paese cattolico: anche questa passò e venne poi confermata da un referendum nel quale la maggioranza dei favorevoli al mantenimento della legge fu ancora più vasta di quella che aveva votato per la conservazione del divorzio. Il fatto è che allora i laici c’erano (radicali, socialisti, qualche liberale) e si facevano sentire con forza e con chiarezza. Oggi la situazione è cambiata: abbiamo dovuto subire l’approvazione di una legge grottesca e incoerente sulla procreazione assistita, che è stata poi demolita dalla Corte costituzionale.

Abbiamo poi corso il rischio di vedere approvata dal defunto Parlamento una legge sul testamento biologico, che era esattamente il contrario di quello che diceva di voler essere. Ma temiamo che anche il nuovo Parlamento non riuscirà a far passare una legge che sia veramente rispettosa del diritto costituzionale di poter decidere autonomamente circa il modo di affrontare la fase terminale della nostra vita. In conclusione, i cittadini italiani non sono liberi di decidere né sul modo in cui nascere né su quello in cui morire. D’altra parte non ci considerano abbastanza maturi neppure per poter scegliere liberamente con chi e come organizzare la nostra vita familiare.

Adesso ci troviamo di fronte a una questione, quella del diritto di essere immediatamente italiani se si nasce in Italia, che dovrebbe essere risolta con quel buon senso e quell’umanità che un tempo si diceva fossero patrimonio del popolo italiano. Ma, a quanto pare, non si può e la ministra proveniente dal Congo rischia di passare per una donna non troppo equilibrata che vuol forzare i tempi a una classe politica, come quella italiana, ben nota per le sue capacità riflessive spinte fino alla paralisi decisionale.

Eppure, qualche tempo fa, lo stesso presidente della Repubblica che, col passare degli anni, è diventato sempre più moderato (ma, in fondo, lo è stato anche in passato), ha affermato che è moralmente inconcepibile che i bambini che nascono in Italia non debbano godere della cittadinanza italiana. Questi bambini, quasi sempre, frequenteranno poi le nostre scuole, impareranno la nostra lingua e la nostra storia, si inseriranno nel nostro tessuto produttivo, creeranno ricchezza, stabiliranno con gli altri italiani, quelli che sul nostro suolo ci sono da sempre, rapporti di parentela e di amicizia.

Così va il mondo e, in questo caso, si può dire tranquillamente che va nella direzione giusta, nonostante le paure che qualcuno continua a diffondere e le raccomandazioni di prudenza di qualcun altro; il guaio è che l’Italia, a furia di paure e di prudenza generata dalla paura, è diventato un paese che non sa più guardare al futuro, che non sa accogliere chi viene fra di noi per renderci un po’ meno vecchi ed egoisti. Letta ha fatto il gesto coraggioso di accogliere nel suo governo un ministro che viene da lontano; abbia adesso il coraggio di farla lavorare senza che venga considerata troppo pericolosa da coloro che magari hanno tante buone intenzioni ma non si decidono mai a metterle in pratica.

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QUEI BAMBINI CITTADINI A PIENO TITOLO

Nadia Urbinati
la Repubblica, 06.05.2013

«È difficile dire se ci riuscirò; per far approvare la legge bisogna lavorare sul buon senso e sul dialogo, trovare le persone sensibili». Così ha detto la ministra per l’Integrazione, Cécile Kyenge. Bellissima considerazione che ha suscitato forti polemiche da parte di esponenti politici del Pdl come il senatore Renato Schifani, il quale ha rivolto un appello al premier Enrico Letta «affinché inviti i suoi ministri a una maggiore sobrietà, prudenza e cautela» perché, sottolinea il candidato Pdl alla presidenza della Repubblica, questi annunci «non rientrano nel programma» del governo.

Segno evidente di una differenza non piccola, una delle tante probabilmente, tra i partner di questa complicata coalizione. L’onorevole Kyenge richiama l’attenzione su quelli che dovrebbero essere gli ingredienti del dialogo pubblico in una democrazia matura: buon senso e sensibilità. Ingredienti che hanno fatto difetto in questi ultimi anni di polemica politica la quale ha nutrito, invece che stemperare, pregiudizi antirazziali. Quello degli immigrati è uno status che va affrontato con buon senso e sensibilità. È questo che sta a cuore alla ministra e a molti italiani che si riconoscono nelle parole del presidente della Repubblica, il quale ha detto che è «una follia che i figli degli immigrati che nascono qui non siano italiani». Una follia, l’opposto del buon senso e della sensibilità.
Perché è così difficile far sì che anche da noi come nella maggior parte delle nazioni occidentali a democrazia consolidata valga il principio dello ius soli nell’attribuire la cittadinanza?

Ius soli significa una cosa di grandissima importanza: che il centro di gravità dell’appartenenza politica è la persona, non la sua famiglia, non la nazione o l’etnia di appartenenza, non il colore della pelle. Un fatto di coerenza con i fondamenti della democrazia, la quale ai suoi cittadini chiede solo una competenza: quella di essere attori responsabili delle proprie azioni, e per questo punibili.

Se siamo responsabili delle nostre azioni allora siamo competenti abbastanza per decidere. Su questo ragionamento basilare riposa l’idea dell’eguaglianza politica. Già dall’avvento della democrazia moderna questa disposizione giuridica all’inclusione apparve chiara se è vero che durante la Rivoluzione francese fu deciso che bastava un anno di residenza per avere il diritto di voto.

Oggi in Italia, quanti sono coloro che, nati qui, sono costretti in un’identità che è a loro estranea, quella che corrisponde a una lingua che, in moltissimi casi, nemmeno conoscono o parlano più?

Nelle scuole elementari studiano la storia del nostro paese “come se” fosse quella del loro paese: studiano di Garibaldi e Mazzini, di Cavour e della Costituzione della Repubblica italiana; eppure quando compiono la maggiore età non possono votare né hanno diritto a sedere nelle giurie popolari. Di quale paese è la storia che hanno studiato? Ecco perché la richiesta della ministra è di buon senso e sensibilità.

Lo è ancora di più in un paese che ha milioni di emigrati, i quali, loro sì, sanno quanto importante sia sentirsi parte attiva a pieno titolo del paese dove, per scelta o necessità, vivono. A milioni di nostri espatriati è riconosciuta la doppia cittadinanza — proprio per dare a loro e ai loro figli la possibilità di averne un’altra di cittadinanza, quella del paese dove vivono, come è giusto che sia.

Eppure chi vive in Italia, addirittura nascendo qui, è dichiarato un paria. Votano gli italiani che vivono all’estero da quattro generazioni e che non parlano neppure più l’italiano. Eppure chi nasce qui e parla perfettamente l’italiano e studia la nostra storia e la nostra letteratura, e paga le tasse qui, non ha voce. La ministra dell’integrazione ha ragione a dire che è una questione di buon senso e di sensibilità che i figli degli immigrati che nascono in Italia debbano essere cittadini a pieno titolo.