Legalizzare l’eutanasia?

Ermanno Genre
www.riforma.it

In Italia si riprende a parlare di eutanasia nel momento stesso in cui la minaccia di eutanasia attiva può interrompere, da un momento all’altro, l’attività di un governo appena nato. Non sembra essere questo il buon momento – in mezzo a una crisi economica che mette ogni giorno in questione la sopravvivenza di intere famiglie e il loro futuro – per rilanciare la proposta di una legge che riconosca il diritto all’autodeterminazione dei cittadini circa il fine vita. Ciononostante, sabato 4 maggio è stata presentata ufficialmente la petizione di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia e per il riconoscimento del testamento biologico.

I promotori sono l’Associazione Luca Coscioni, l’Uaar, Exit, Amici di Eleonora, che già hanno cominciato a raccogliere le firme. Proprio negli stessi giorni i giornali hanno pubblicizzato un ennesimo caso di suicidio assistito, quello di Daniela Cesarini, figura ben nota della sinistra comunista, avvenuto a Basilea il 25 aprile, nel giorno della ricorrenza della Liberazione. Un altro evento che ha fatto da eco all’iniziativa appena lanciata, l’uscita del film Miele, di Valeria Golino, il 1° maggio, altra data simbolo, che racconta la storia di una ragazza che aiuta i malati terminali a morire.

E ancora domenica 5 maggio Valeria Golino è stata intervistata da Fabio Fazio a «Che tempo che fa». I sondaggi indicano una crescita di consensi fra i cittadini, sia per la legalizzazione dell’eutanasia, sia soprattutto per il testamento biologico (oltre il 70%).

Ma non è questo il vero e buon motivo per chiedere al Parlamento italiano di discutere il progetto di legge. Il motivo di fondo non è la maggiore o minore quota di favorevoli ad una equa legislazione, non è il gioco tra una maggioranza e una minoranza. E’ in gioco invece il rispetto della coscienza delle persone ed il loro diritto, in quanto cittadini di uno stato democratico, all’autodeterminazione della loro volontà quando è questione della loro vita e della loro morte.

Mi sento in perfetta sintonia con il teologo cattolico Vito Mancuso che, su La Repubblica di domenica 5 maggio scrive: «A mio avviso rispettare la vita di un essere umano significa in ultima analisi rispettare la sua libera coscienza che si esprime nella libera autodeterminazione». È infatti la libera coscienza dei cittadini, e non altro, a non essere negoziabile. È questo il rispetto che si chiede ad una legge dello Stato e lo stesso rispetto è richiesto alle chiese e comunità religiose. E pazienza se il quotidiano Avvenire della Conferenza Episcopale Italiana non è d’accordo.

Certamente – così scrive la vicepresidente di Scienza e Vita, Paola Ricci Sindoni – «non si può spettacolarizzare il dolore per fini ideologici», ma occorrerebbe innanzitutto riconoscere onestamente che chiudere gli occhi e tapparsi le orecchie di fronte alle sofferenze inaudite presenti in mezzo a noi (perché tacerle o nasconderle o rimuoverle in ubbidienza a principi astratti?), non è atteggiamento cristiano e la parabola evangelica del buon samaritano non invita a passare oltre guardando dall’altra parte.

Dunque sì alla proposta di legge di iniziativa popolare per legalizzare il testamento biologico e l’eutanasia e poi impegno concreto per raccogliere 50 mila firme, che non sono tante, potrebbero essere almeno raddoppiate. Anche le nostre comunità possono mobilitarsi, come già si sono mobilitate per aprire in molte città degli sportelli per la raccolta delle firme dei cittadini italiani che hanno voluto sottoscrivere liberamente il loro testamento biologico. Anche noi possiamo dare un contributo significativo a questa proposta lanciata dai radicali che non devono essere lasciati soli, perché non è una questione di loro proprietà, è questione di cittadinanza che riguarda tutti e che apre a tutti – anziché chiuderla – la possibilità di assumere una decisione libera e responsabile sulla propria vita e morte.

Questo articolo di Ermanno Genre, professore emerito della Facoltà valdese di teologia, autore di varie opere tra cui il recente volume «Introduzione alla bioetica» (Claudiana 2013), è stato pubblicato come editoriale sull’agenzia Nev-Notizie evangeliche dell’8 maggio. Lo riproponiamo ai nostri lettori come contributo al dibattito su un tema sensibile e controverso. Sull’eutanasia in particolare le posizioni delle chiese, anche evangeliche, sono infatti molto caute: per esempio un recente testo del Consiglio delle Comunione di chiese protestanti in Europa, «Un tempo per vivere e un tempo per morire» (trad. it. Claudiana 2012) conclude che «per le chiese protestanti l’eutanasia è profondamente problematica sul piano etico», e la sua legalizzazione «equivarrebbe alla sua banalizzazione» (p. 85). Ci ripromettiamo di tornare sull’argomento. (lmn)

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L’ultima parola sulla mia morte

Francesco Bilotta
www.italialaica.it| 15.05.2013

Ieri la Corte europea dei diritti umani, nel caso Gross c. Svizzera, ha deciso che la legislazione svizzera viola l’art. 8 della Convenzione europea che sancisce il rispetto alla vita privata, perché è poco chiara nell’individuare i casi in cui si possono chiedere e ottenere dosi mortali di medicinali per suicidarsi.

Il caso riguardava una signora 82enne, non affetta da nessuna malattia, la quale aveva deciso di porre fine alla sua vita non volendo continuare a subire il declino delle proprie facoltà fisiche e mentali. Già in passato, nel caso Haas c. Svizzera, la Corte aveva riconosciuto che il diritto di una persona di scegliere quando e come morire rientra nel diritto alla vita privata tutelato dalla Convenzione europea, a condizione che l’interessato sia in condizioni di prendere liberamente quella decisione e agire di conseguenza. È quello che è capitato a Piera Franchini (la cui storia si può conoscere attraverso questo video http://youtu.be/H0SbIK_AJvQ), che proprio in Svizzera ha deciso di porre fine alla propria vita.

Chi non ha ancora visto l’opera prima di Valeria Golino, in questi giorni nelle sale, dovrebbe farlo. Nonostante il nome della protagonista “Miele”, tutto nel film dice che di dolce la morte non ha niente, nemmeno quando è lucidamente scelta, nemmeno quando è la sola liberazione possibile dal dolore o dall’angoscia di vivere. Lo scorso anno un altro film, premiato a Cannes con la Palma d’oro, ci proponeva lo stesso tema. Si trattava di “Amour” di Michael Haneke. L’eutanasia veniva presentata come estremo atto di amore, sia pure connotato dalla violenza della disperazione.

Cosa sta succedendo? Abbiamo finalmente infranto il tabù della morte? Non è più vero quello che sosteneva Edgar Morin, in L’homme e la mort (Parigi, 1951, trad. it. di A. Perri e L. Pacelli, Meltemi, 2002), ossia che “la nostra società sembra aver rimosso l’idea della fine”? A mio avviso, se potessimo, non abbandoneremmo minimamente l’edonismo della nostra epoca e cacceremmo la morte nel più oscuro dei recessi per non vederla, per non pensarci. Il punto è che siamo costretti a non farlo. I progressi in campo medico ci stanno obbligando a prendere nuovamente in considerazione la morte. Non in senso astratto, ma proprio la morte di ciascuno di noi.

Dopo il caso Englaro – che vide un inedito tentativo del Parlamento italiano di contrastare una sentenza definitiva della Suprema corte di Cassazione a colpi di decreto legge, in spregio a qualsiasi principio fondativo di uno Stato di diritto, con l’attuale Presidente del Consiglio deciso a votare insieme al centro-destra (nihil novi sub sole!) – il dibattito pubblico sembrava essersi arrestato. Eppure, le idee continuano a circolare anche quando i megafoni delle manifestazioni di piazza si sono spenti.

La prova l’ho avuta nei giorni scorsi, mentre a Trieste aiutavo nella raccolta di firme per il progetto di legge di iniziativa popolare sulla legalizzazione dell’eutanasia (a questo link si può rintracciare il posto più vicino dove firmare www.eutanasialegale.it). Ho scelto di distribuire i volantini per parlare con le persone, perché pensavo di doverle convincere a firmare. Invece, con mia sorpresa, non ho trovato alcuna resistenza, dubbio, perplessità. Appena spiegavo di cosa si trattava, il sì era incondizionato. Solo un’amica mi ha risposto: “ti prego, non me lo chiedere! Non ce la faccio emotivamente a immaginarmi di dovere prendere una decisione simile!”. Anche io mi sono domandato se al momento opportuno avrò il coraggio di chiedere di porre fine ai miei giorni con un farmaco. Ma per decidere se firmare per la legalizzazione dell’eutanasia non è importante quello che farò io. Non si sostiene una proposta di legge perché potrà servirci. Si deve sostenere una tale proposta di legge per riconoscere a tutti la libertà di scegliere l’epilogo che ciascuno reputa migliore per la propria vita. “Tutti desiderano vivere. Nessuno vuole morire”, dice Miele tra le lacrime in un momento particolarmente intenso del film di Golino. Eppure, la morte è una realtà che dobbiamo affrontare e la medicina oggi ci consente di diminuire la durata della nostra vita per sottrarci alla sofferenza e al dolore.

L’obiezione fondamentale delle persone contrarie per ragioni religiose all’eutanasia è l’indisponibilità della vita da parte dell’essere umano. Sul punto solo due considerazioni. Una prima è che per noi italiani le obiezioni più note all’eutanasia sono quelle del cattolicesimo romano, mentre ben poco sappiamo del dibattito sul tema in altri contesti confessionali. Mi è stata molto utile la lettura del volume a cura di Luca Savarino, dal titolo “Un tempo per vivere e un tempo per morire” (Claudiana, 2012) che raccoglie la posizione sul tema del Consiglio della Comunione di chiese protestanti in Europa. Il no all’eutanasia non ha un fondamento biologista, come nell’etica cattolica, ma è l’approdo di una visione dell’essere umano in quanto autore della sua biografia. Ma se è così, perché negare a chi lo chiede il gesto estremo di coerenza con la propria visione esistenziale?

Una seconda considerazione ha a che fare, invece, con l’uso della legge per pretendere la realizzazione in concreto di proprie scelte etiche. L’approccio fondato sul divieto dell’eutanasia è un approccio autoritario che sottrae alla persona la libertà di decidere sulla propria morte e pone al sicuro solo la scelta etica di chi è contrario all’eutanasia.

L’approccio che ritiene che si debba legalizzare l’eutanasia, sottraendo il medico a un sicuro processo penale, rende invece liberi di attuare la propria volontà tanto chi vuole attendere la morte “naturale”, tanto chi vuole morire servendosi della medicina. La vera essenza dell’autodeterminazione, che la Corte costituzionale ha qualificato come diritto fondamentale, sta proprio in questo: nell’impossibilità per il legislatore di dire l’ultima parola sulla vita e sulla morte, consentendo la libera esplicazione della volontà di ciascuno. E questo perché per il diritto può esistere solo “la” vita e “la” morte, mentre nella realtà esistono “le” vite e “le” morti di ciascuna e ciascuno di noi.

Da bambino mi capitò di ascoltare la nonna parlare con una sua amica. Pensavano di non essere ascoltate. Parlavano sotto voce. Intuivo che c’era un segreto nascosto tra quei bisbigli. Era morta da qualche giorno la suocera dell’amica di nonna e lei si informava sulle sue ultime ore. Soffriva tanto, anche dopo il tentativo taumaturgico dell’estrema unzione. Così le donne di casa, dopo uno sguardo di intesa, non reggendo più lo strazio dell’agonia di quella povera smunta vecchierella, in pieno inverno avevano aperto tutte le finestre aspettando che spirasse. Anni dopo ho scoperto che si tratta di una pratica che si perde nella notte dei tempi, serve a “liberare l’anima” del morente. Ho ripensato a questa storia quando ho letto il romanzo di Michela Murgia, “Accabadora”. Oggi nelle corsie degli ospedali si continua a “liberare l’anima” dei morenti. È noto a chiunque lavori in un reparto di rianimazione, ma non se ne parla, perché è illegale.

Alfieri nell’“Oreste” fa dire a Pilade: “Spesso è da forte, piú che il morire, il vivere” (Atto IV, scena II). È vero, ma non tutti sono capaci di essere eroi e pretenderlo è disumano.